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Mario Pischedda, artista di genio

 Presentando a Tempio, nel già lontano 2007, “Spampoetries”, un’originale raccolta di poesie di Mario Pischedda, giovane poeta nato a Bortigiadas (un obliquo ed elegante paesino dell’alta Gallura appeso tra una fuga di roveri e di rocce di granito al versante di una collina), mi era venuta spontanea pressappoco questa puntualizzazione: Leggendo le poesie di Mario Pischedda non si può non pensare al grande poeta-contadino irlandese Patrick Kavanagh ( È scomparso nel 1967. La traduzione di uno delle sue sillogi poetiche migliori, “Andiamo a rubare in cielo”, è uscita da poco in Italia per la casa editrice Ancora).

 

Egli afferma che un poeta può esserlo anche se non ha mai scritto un solo verso, e che può essere individuato tra la gente che ci sta intorno da come vive e da come parla. Se poi ha la possibilità di scriverli e di pubblicarli, i suoi versi, tanto meglio. Mario in questa cornice c’è tutto: fotografo di grido, persona assolutamente libera dalla ragnatela delle false regole e dell’ipocrisia, gentile e disinvolto, professore alle superiori con metodi da insegnante di nuova frontiera, lettore attento e  puntuale trasmettitore di tutto ciò che accade nel mondo. Va detto che uno dei suoi atteggiamenti più peculiari è la continua, irridente opposizione nei confronti di chi cerca ad ogni costo immeritati riconoscimenti. Molto conosciuta una sua foto che ce lo presenta in abito da sera, valigetta in mano, appeso a una parete, con la scritta “VOGLIO DIVENTARE FAMOSO, POSSIBILMENTE MOLTO FAMOSO”.
Un poeta, dunque, Mario, Pischedda, ma con un di più: lui poesie ne ha scritto e pubblicato un bel po’.
In “Spampoetries” Mario rivela inconsciamente il codice nativo e anche tecnico della sua scrittura: gli basta un verso per dire ciò che vuole trasmettere e dare un senso all’intera struttura di una poesia; in modo da renderla, possibilmente, più comprensibile al lettore.
E qui viene in mente Mario Luzi: una poesia può salvarsi - affermava - anche per merito di un solo verso; e non importa se la apre o se la chiude, espediente molto usato con lo scopo di colpire il lettore. Un bel verso deve cadere dove si destina autonomamente.
Come si è detto, Mario Pischedda è nato a Bortigiadas e ci vive e  lavora, ma è anche uomo dalle tante patrie e dai molti amici. Uno di questi è Eugenio Alberti Schatz, che in un suo minuscolo e prezioso librino (minuscolo anche perché connotato in copertina dall’assenza delle maiuscole, tranne il nome della casa editrice) intitolato “cinque passi nel delirio di mario pischedda”, pubblicato dalle edizioni Nuova Autenticità, ci rivela anche altre doti di Mario, privilegiando la genialità della sua arte fotografica.
Eugenio Alberti Schatz, scrittore di chiaro livello, non ha bisogno di presentazione: basti dire che è l’autore del conosciutissimo libro “Meglio qui che in riunione”, pubblicato da Rizzoli. Parla di Pischedda inserendolo a sorpresa nell’ordito di un discorso che tratta di personaggi di primo piano, dotandolo di un asterisco invisibile come riconoscimento di affinità. Ed ecco spuntare, nel bel discorso sulla cosiddetta sindrome dei fratelli Collyer, scientificamente chiamata disposofia, ma che altro non è che il disturbo patologico che spinge un individuo, o più individui, ad ammucchiare e conservare cose che non saranno mai utilizzate né buttate, il nome di Mario Pischedda:
<< Il disordine dei suoi archivi potrebbe far pensare ai fratelli  Collyer, ma non è voracità la sua, non c’è attaccamento morboso alle opere, al contrario c’è un distacco, c’è un senso del fluire del lavoro che non si deve fermare. Il nocciolo della questione è che Mario Pischedda ci sfida proprio sul crinale dell’opposizione insanata (ma sanabile) fra quantità e qualità: molte sue immagini sono belle, e in un flusso potente ognuno può trovare il proprio bello fra le pieghe del discorso. E poi Pischedda è spiazzante: lavora anche sulla riduzione, scegliendo fra dieci solo l’immagine che lo convince, delle volte mette fuori la macchina fotografica dal finestrino dell’auto e mitraglia il paesaggio con il dito schiacciato sopra il pulsante (e sceglie di mostrarne dieci di fila, con um film a fotogrammi congelati), altre volte è capace di scattare immagini per un giorno intero fino a cogliere il blink esatto della luce del faro mentre gira e colpisce l’obiettivo con il taglio voluto (uno su centomila)>>. E qui si può pensare all’accostamento tra lo scatto unico che “colpisce” e l’unicità del verso scelto e crocifisso dal suo pungente pennino di poeta.
Nell’ultima parte del librino, intitolato “Pischedda, dalla Sardegna con fur/am/ore”, Eugenio Alberti Schatz così lo connota:<<Pischedda se ne sta nella sua isola a lungo, nube che cova la saetta, poi cala in continente per azioni estemporanee qua e là, infilandosi nelle pieghe del circo. [Le sue puntate in continente ricordano le calate di cui racconta il basagliano Giorgio Antonucci, quando l’onda della contestazione lambì gli ospedali psichiatrici e i parenti dei malati più poveri e derelitti appunto calavano periodicamente dall’Appennino emiliano giù in pianura, a Imola e altrove, per controllare di persona che i dottori trattassero bene gli utenti del servizio, in questo caso i matti siamo noi, e Pischedda è lo spirito di Basaglia>>.]
A  questo  punto salta fuori un altro “impegno” di Mario, l’impegno sociale.<<È in questa direzione che possiamo leggere la sua performance nel cortile di viale Bligny 42, a Milano, in occasione della Dissipatio M.P., in quel casermone vecchia Milano  animato da spacciatori nord africani, travestiti e ben tre gallerie d’arte...Ha usato la piazza del cranio per una piccola pira di compleanno, girando al centro del cortile come l’asse del mondo, ben centrato nel suo abito nero Armani indossato per l’occasione. Pischedda, lo si è percepito bene, era in missione per conto di un senso più alto, tutto ancora da formulare>>.
Chi Mario lo conosce bene come chi scrive, che gli è amico, sa bene che il senso di quella missione sta in buona parte nella conoscenza della <<nuova frontiera di fare arte: mettersi al servizio delle persone>>, come annota ancora Eugenio Alberti Schatz.
Ma qui ritorna ancora, sonante, la voce di Luzi: le principali forze della poesia stanno nel suo potere di creaturalizzazione e di  nominazione. Trasformare ogni cosa, anche inanimata, in creatura vivente è la funzione del poeta il quale, realizzando questo sortilegio, riesce anche a darle un nome, in modo che essa possa rispondere se qualcuno la chiama. Nessuna creatura senza nome può essere chiamata. È come se non esistesse.
Mario Pischedda con il suo scatto riesce a scovare ogni angolo più nascosto della terra che attraversa e a dargli un nome che scrive quasi sempere sul retro della foto. Così il sostantivo “creatura” cessa di indicare un pregio esclusivo degli esseri viventi.
Franco Fresi

 

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