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"Il Picco Balistreri", romanzo manzoniano su Tempio Pausania

 È stato da poco presentato a Tempio Pausania, nella Sala Conferenze dell’ex Collegio degli Scolopi, il libro “Il Picco Balistreri. Romanzo storico del sec. XVI” di Carlo Brundo, ristampato in anastatica dall’edizione del 1875 con un  ampio e puntuale saggio introduttivo del cagliaritano Luigi Agus, professore di Storia ed Esegesi dell’Arte Cristiana, e presidente dell’ “Istituto Studi, Ricerche e Formazione Giulio Cossu”.


“Si tratta  - ci informa Agus - della prima pubblicazione che l’Istituto vuol regalare alla città perché ripercorra le sue origini e le storie più nascoste e sconosciute. Il romanzo è, infatti, rimasto a lungo dimenticato e oggi è presente in due sole copie presso altrettante biblioteche pubbliche sarde, a Cagliari e Oristano.
Carlo Brundo (Cagliari, 1834-1904), dopo la laurea in giurisprudenza si dedicò alla libera professione di avvocato. A partire dal 1869, all’età di 35 anni, iniziò la sua carriera di scrittore, continuando per tutta la vita. Fece parte, a partire dal 1875, del gruppo fondatore della “Rivista Sarda”, assieme ad altri letterati ed eruditi sardi come Giovanni Spano. Nel 1882 fondò la rivista letteraria quindicinale “Serate letterarie. Effemeridi quindicinali” edita da Timon, casa editrice che rilevò l’anno successivo e con la quale aveva già pubblicato diversi romanzi e saggi, mentre dal 1891 fece parte del gruppo della rivista “Vita sarda. Periodico quindicinale di scienze, lettere ed arti” edita dalla Tipografia del Corriere fino al 1893. Brundo morì a Cagliari dopo aver dato alle stampe ben 29 racconti, romanzi e saggi, di cui 17 tra il 1869 e il 1881 e dodici tra il 1882 e il 1893”.
Nel suo “Il Picco Balistreri” Brundo racconta gli avvenimenti verificatisi a Tempio nel 1698, che coinvolsero un umile ciabattino, Beppe  Balistreri,  sua figlia Teresa e il fidanzato Celestino.
A una delle vette del Limbara, la montagna che domina la città di Tempio, venne dato il nome di Punta Balistreri in onore e ricordo dei protagonisti della triste vicenda.
Nel romanzo, pubblicato nel 1875 come inserto della “Rivista Sarda”, “C’è la Tempio di fine Settecento - scriveva qualche anno fa Manlio Brigaglia - dominata dall’alterigia dei nobili, con un pò di popolo contadino e artigiano. C’è una bella fanciulla (del popolo) amata da un bravo giovane (del popolo): si amano e si promettono fede durante il ‘graminatògghju’ (tutti i romanzi sardisti” inseriscono questi cameos folclorici). Ma c’è un nobilotto che si invaghisce anche lui della fanciulla e la vuole: tale e quale don Rodrigo. C’è anche un ‘bravo’ di mano lesta che minaccia il promesso sposo”.
Ma, a questo punto, il padre  della fanciulla, lesto anche lui di mano ( e non solo di trincetto!) spara al baldanzoso cavaliere e lo uccide. Tutto facile, anche se inconsueto. La scena si tinge di rosso: sangue blu sparso dall’ira plebea. Ma ora bisogna difendersi. I nobilotti amici (e non) dello spasimante patrizio non daranno tregua al ciabattino che fugge con i suoi uomini sul Limbara per cercate un adatto rifugio.
Brundo descrive questa  montagna (unica in Sardegna, assieme al Gennargentu, che si possa fregiare di questo nome) in uno dei più bei passi del romanzo, “L’alba dal Picco Balistreri”: “Quei luoghi alpestri, dalle linee rotte, dalle curve succedentisi, dai passaggi sinuosi e dalle gole profonde, sarebbero pericolosissimi campi per commettervi una battaglia, quanto opportuni per tendervi un’imboscata. Pochi uomini, con scarse provvigioni, terrebbero fronte ad un esercito disciplinato”.
Beppe Balistreri quella montagna la conosce come le sue tasche, peraltro sempre leggere. Non gli resta che attendere che l’esercito dei cavalieri tempiesi, spalleggiati da altri venuti da tutta la Sardegna, arrivi sul Limbara. È il momento giusto: Beppe, Celestino e il loro esercito senza lusso di blasone sbucano dalle forre e dai boschi come lupi affamati; circondano gli assalitori, li chiudono in una gola profonda, ne fanno strage. Ma Beppe Balistreri non ha il tempo di gioire per la vittoria: fra i morti c’è anche Celestino.
Non gli resta che fuggire con la famiglia verso la più pacifica, ospitale Anglona, dove la sua figliola, vedova fanciulla e ancora sposa promessa, vivrà al riparo della sua solitudine, sconosciuta a chiunque potesse farle del male.                
Rileggerlo oggi, questo romanzo “manzoniano” di Carlo Brundo, si ha la sensazione che ci appartenga poco,  o che non ci appartenga, fatte salve le descrizioni “fisiche” del paesaggio e l’urgenza nativa della rivolta al sopruso da qualsiasi parte ci venga.
Per l’autore si tratta della richiamata in causa di “Una Tempio inedita tratteggiata nel più importante romanzo ottocentesco che la riguarda, sospeso tra Storicismo di De Roberto, Realismo di Zola e Hugo, che anticipa, in un certo qual modo, il Verismo di Verga”.
Franco Fresi

 

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