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PITZINNOS PASTORES PARTIGIANOS

 L’epigrafe è del grande poeta Andrea Zanzotto:  «…Lo “sbandamento”…si riferisce sia al fenomeno degli “sbandati” dopo l’8 settembre (passati alla resistenza quasi inconsciamente o rimasti al margine dell’azione:…) sia alle incertezze affacciatesi nel dopoguerra riguardo al significato, alla direzione, alla possibilità stessa di un movimento-progresso storico… una storia finalmente “vera” …»

Pitzinnos Pastores Partigianos eravamo insieme sbandati”, edito il 22 novembre 2012,  è il primo titolo della collana Annales dell’Anpi (Associazione Nazionale partigiani d’Italia) di Nuoro. Ne sono autori Piero Cicalò, Pietro Dettori, Salvatore Muravera, Natalino Piras. L’introduzione è di Paolo Padovan, la prefazione di Bachisio  Bandinu, il progetto grafico di copertina di Nico Orunesu. Il libro è  in distribuzione sia in Sardegna che in altre parti d’Italia e lo si può avere con una sottoscrizione a partire da 20 euro.  Sono in tutto 520 pagine.  È un  racconto corale ma pure di voci individualmente distinte. In questo lavoro di ricerca vengono messe insieme diverse interviste. Il punto di partenza è l’8 settembre 1943, data dell’Armistizio (in realtà firmato il 3 settembre a Cassibile, vicino Siracusa) che segue quella del 25 luglio dello stesso anno, la caduta del fascismo e l’arresto di Mussolini.  Un tempo tragico. Ci sono in quei giorni una grande confusione e un grande senso di smarrimento. L’Italia continua a restare in guerra. Solo che cambia il fronte: i nemici di ieri, gli anglo-americani già presenti nel territorio nazionale dopo gli sbarchi in Sicilia e ad Anzio, diventano i nuovi alleati. I nazisti tedeschi, Wermacht e Ss con cui gli eserciti mussoliniani avevano iniziato la guerra diventa nemico occupante che mette la penisola a ferro e fuoco. È l’inizio della formazioni partigiane, della guerra di Liberazione e della Resistenza. Vi partecipano anche i Pitzinnos Pastores. Erano tutti ragazzi sui vent’anni, alcuni anche meno, che provenivano principalmente da Bitti, Orgosolo, Orune, Galtellì, Dorgali, Orosei,  Nuoro e altri paesi di una delle  province più oscure di una Italia mai unita. Non fosse che erano e sono punti di emanazione di un racconto che diventa via via sempre più coinvolgente. Una geografia di appartenenza pastorale e contadina, quella dei pitzinnos pastores, sconosciuta dalle mappe, una zona periferica come luogo delle Storia. I pitzinnos pastores partirono “paris”,  insieme, più di uno, a gruppi, dai diversi paesi. I ragazzi bittesi furono accompagnati a cavallo alla stazione di Osidda. Bisognava essere almeno in due per ogni nucleo familiare, perché poi uno portasse indietro “su caddu o s’ebba, sa calavrina”, il cavallo, la cavalla, la puledra. I fratelli accompagnarono i fratelli, i padri i figli. Da Osidda il viaggio in treno sarebbe stato a Chilivani e poi Sassari, poi Alghero, poi l’aeroporto, poi l’ignoto.  Notevole il carico di presagi. Andavano alla guerra.

 

A Fertilia li  caricarono su un aereo diretto a Ciampino. I pitzinnos si ritrovarono perlopiù insieme a Perugia, avieri – “aviatori senza aeroplano” come scrive a casa uno di loro –  nelle caserme “Fortebraccio” e “Regina Margherita”. Insieme vissero i giorni dello sbando dopo il tragico 8 settembre. “Banditarono senza causa” nelle campagne dell’Alto Lazio e qui applicarono i codici esperiti nella campagna sarda, abigeato compreso, per sopravvivere. Se ne stavano buttati lungo la linea ferroviaria. Videro molte truppe nazifasciste attraversare quella che loro avrebbero poi chiamato “Sa tuppa de Bieda”, il bosco, la macchia di Blera. Assistettero a rappresaglie e rastrellamenti. Tanto sangue di innocenti. Altri pitzinnos sardi come loro, come loro sbandati, vennero uccisi, massacrati dai nazifascisti insieme a civili inermi. I pitzinnos pastores si cercò, specialmente da parte del generale Barracu di Santu Lussurgiu  e del colonnello Fronteddu di Dorgali,  di irreggimentarli come soldati della repubblica di Salò, alleata ad Hitler, fondata da Mussolini dopo essere stato liberato da un commando tedesco a Campo Imperatore, nel Gran Sasso. Lo sbandamento continuava. I ragazzi di Barbagia si ritrovarono insieme nella caserma  di via La Lungara a Roma e da qui, nel dicembre 1943,  avviati in treno, in due differenti scaglioni a Trieste, a confine con la Slovenia, a combattere contro i partigiani italiani e jugoslavi di Tito. Nell’attraversare l’Italia i ragazzi sardi videro solo  devastazione, morte. Avevano cercato, nei giorni dello sbandamento, di fuggire dalla guerra e trovare un imbarco per la Sardegna. Si ritrovarono nell’orrore della guerra. Durò poco lo stare con i repubblichini. A gennaio del 1944, a ridosso dei giorni dei fuochi di Sant’Antonio, scapparono in massa dalla caserma di Villa Opicina in quel di Trieste e furono partigiani con la Brigata d’Assalto che combatteva insieme al IX Corpus Sloveno. Tutto questo racconta il libro, l’esperienza della guerra partigiana, chi cadde in battaglia, chi fu torturato e ucciso, chi tornò. La storia è raccontata dal punto di vista dei pitzinnos pastores e si basa principalmente sulle interviste, riportate bilingui, in sardo e traduzione italiana a fronte, a Luisu Podda, Luisu Mereu e Corraineddu di Orgosolo, a Anzelinu Soro di Galtellì.  C’è spazio anche per Amarette, soprannome  del bittese Antonio Michele Pintus, oggi novantenne, che racconta  i giorni dello sbandamento in maniera insieme estraniata e partecipe: la memoria dei suoi vent’anni e degli altri compagni come condizione indispensabile per dire qualcosa ai ventenni d’oggi che noi sia solamente unu ammentu, un ricordo individuale e basta. Qui si cerca di andare oltre, di stabilire orizzonte.  Molti dei pitzinnos pastores di  questa storia furono nel “cuore di tenebra” del colonialismo italiano in Africa. Ne condivisero, costretti, l’orrore. La guerra di Liberazione serve alla speranza  del dopo, riscatta  quel “cuore di tenebra”. La storia partigiana racconta la geografia antropologica dei paesi di provenienza dei pitzinnos pastores. Gli stessi luoghi dove si fece elaborazione comunitaria del lutto all’annuncio, molti mesi dopo, della loro morte in battaglia. I pitzinnos furono pianti in assenza di corpo, una fotografia sopra una “fressata”, un tappeto o coperta tradizionali,  o sopra una “bertula”, una bisaccia. Intorno le donne a fare “teju”, lamentazione funebre, e “attitu”, il canto delle prefiche. Questo libro  motiva ragioni, sentimenti, pulsioni, smarrimenti, prese di coscienza. I protagonisti principali sono Joglieddu Sanna e Nenneddu Sanna, entrambi bittesi, entrambi morti in battaglia, entrambi ventenni. Anche attraverso le loro lettere si raccontano  il contesto pastorale e la caserma di Perugia. Dello sbandamento, delle stragi nazifasciste, della vita partigiana saranno i ritornati a raccontare, per loro e per tutta la dimensione di sarditudine che da un punto di vista geografico e storico la guerra di Liberazione e la Resistenza hanno comportato. Il volume ha la giusta ambizione di entrare nelle scuole. È stato elaborato anche nel segno di una didattica della Storia.  Ci sono a corredo di questa narrazione fotografie, illustrazioni, cartine e mappe, racconti e poesie che intersecano e legano le varie parti. È un libro di viaggio. Chiudono il volume una cronologia, altre tavole di comparazione, bibliografia-discografia-filmografia-sitografia, tutte ragionate, e un sostanzioso indice dei nomi. Prima ancora ci sono la lettera di don Milani ai cappellani militari nel 1965 e un inserto a colori chiamato “Romancero Partgiano”. Apre con due pagine di dediche. Ci sono quelle private dei quattro autori e quelle pubbliche a personaggi ispiratori: lo storico delle “Annales” Marc Bloch, il teologo protestante Dietrich Bonhoeffer,  il giornalista cecoslovacco Julius Fučík, tutti combattenti della Resistenza, tutti uccisi dal nazismo, e poi il regista cinematografico Robert Bresson, Antonio Gramsci, don Lorenzo Milano e la poetessa Wisława Szymborska.

Natalino Piras

 

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