“Se devo scrivere poesie ora che invecchio / voglio vederle scorrere, perdersi in altri corpi / prendere vita e nel frattempo splendere sulle cose vicine, / tenermi compagnia come le cipolle sbucciate nella luce / mentre preparo un brodo con gli occhiali offuscati /appunto un verso su un foglio e a volte mi ferisco / scambiando la penna col coltello”.
Basterebbe imbattersi in questa poesia, aprendo il libro a caso, per scommettere che “Salva con nome “, la nuova raccolta di poesie di Antonella Anedda, uscita per Mondadori, sia una silloge di autentico valore. In questi sette versi c’è tutto quello che la poesia vera dovrebbe essere, avere, e dare: tanto fluida da scorrere in un ampio orizzonte; tanto generosa da perdersi in altri corpi diventando tessuto e sostanza di essi; quasi annullandosi per diventare anima e sangue degli “altri”, di tutto ciò che è altrui; ma allo stesso tempo restare accanto a chi l’ha creata, illuminare le cose vicine, spogliandosi così di ogni lusso inutile per “restare a casa” senza gli abiti della festa, a portata di mano di chi ha voluto farla nascere e darle vita.
C’è poi quella chiusura che affratella ferita, penna e coltello con un piccolo sortilegio di pura, quanto elegante, marca ellittica. Meglio di così un poeta non può fare, specialmente in un tempo in cui per farsi capire bisogna gridare. Non è solo questa la poesia che dà valore al libro. Ne è certamente l’assunto e l’anima, ma anche le altre 84, comprese in otto capitoletti con figure umane e simboliche, sono da considerare di prim’ordine, forgiate per un loro previsto destino.
Potrà sembrare strano ma la buona poesia, oggi più di ieri, dovrebbe avere una connotazione divinatoria; e sapere interpretare ciò che è stato e ciò che è, ma soprattutto ciò che sarà, servendosi di quegli indizi che si differenziano da altri innumerevoli proprio per la loro sostanzialità. La poesia, più presentimento che intuizione, dovrebbe avere anche una funzione ontologica: vedere la realtà nella sua costituzione nativa, indipendentemente dai fatti con i quali si manifesta. E di questi, tra la selva sempre più intricata degli eventi, deve sapere individuare e cogliere i più significativi: e, soprattutto, dirne, mai ignorarne.
Tutto questo Antonella Anedda lo fa. Lo fa da padrona, con naturalezza e con quella semplicità di scrittura che non diventa mai scontata.
Ma la cosa che più colpisce del credo poetico di Anedda è un’intuizione di straordinaria forza creativa, nuova quanto laica, che si pone quasi a contraltare di quella luziana, altrettanto straordinaria per la sua essenza spiritualistica, che vede nella “nominazione” (dare un nome, per “creaturalizzarlo”, a chi ne è sprovvisto, ed è, quindi, sconosciuto), l’unica possibilità che l’individuo ha per poter rispondere a chi lo chiama: esserci, esistere.
La tesi di Antonella Anedda raggiunge per un altro versante la sua alta quota di significazione: <<Cos’è un nome? ─ scrive ─ Nulla. Un suono che chiama un corpo, un campanello che ci aggioga. Ricevere un nome è la prima prova che siamo in balia degli altri>>. Fra i due concetti, in fondo, il contrasto è solo apparente: essere preda a volte può essere meglio che predatore.
Franco Fresi
