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“80 anni Canzunendi”, il libro con le poesie di Ghjaseppa di Scanu

 È appena uscito “80 anni Canzunendi”, un libro che raccoglie tutte le poesie di Ghjaseppa di Scanu, uno dei più importanti poeti ottocenteschi degli stazzi galluresi. Stampato a Tempio Pausania dalla Tipografia 200, curato da Sebastiano Scanu, nipote del poeta, e da Mario Pirrigheddu, noto animatore culturale tempiese, fondatore e direttore del giornale “Lu Baddhittu timpiesu” (diffusissimo a Tempio e dintorni tanto da meritare il riconoscimento popolare di <<unico giornale munito di “passa-porta” gratis per ogni famiglia>>), il libro è dedicato a Francesco Corda, il grande studioso e linguista olbiese-cagliaritano che ha dedicato e dedica buona parte dei suoi studi alla parlata gallurese.

Il volume, che raccoglie l’opera omnia, o quasi, di Ghjaseppa di Scanu, si apre con le presentazione di Mariu Pirrigheddu, con due note di Sebastiano Scanu, una delle quali dedicata alla grafia della raccolta, e con una precisa analisi della “Poesia gallurese d’intrattenimento nell’opera di Ghjaseppa di Scanu” di Francesco Corda. Questo libro singolare si dipana in 283 pagine di poesie scandite da quattro titoletti (“Li mutti a la spinsata, le rime estemporanee”; “Cumpunimenti longhi: canzoni, bringhisi, modi e diciotttu. Cumpunimenti di la ciuintura”; “Cumpunimenti di la mez’etai”; Cumpunimenti di la ‘icchjai.” Sono poesie d’amore, di augurio, di protesta verso una Gallura miscredente e avida di ricchezze, di rimpianto, di rappresentazione puntuale della vita e della natura in Gallura, con una rapido dito al cappello per Don Baignu, don Gavino Pes, poeta di grande valore anche per Ghjaseppa di Scanu che non gli perdonava però le sue tendenze per il gentil sesso, soprattutto in quei suoi panni non profani.

 

L’ultima poesia, un brindisi, è un vero inno religioso: s’intola “Evviva Déu” e propone un suo trittico struggente, vero toccasana per ogni uomo: Vita, Fidi e Ispiranza. In questo libro è il poeta che, con i suoi versi, ci racconta un uomo sorretto dalla fede e dalla speranza. Ma può essere anche l’uomo che ci racconta la vita di un poeta: Le due cose coincidono: come due rigagnoli che per arrivare all’immenso mare hanno bisogno di incontrarsi, fondersi nel grande fiume, confondersi a costo di perdere buona parte della loro identità.

Ma chi era, infine, il poeta-uomo, o l’uomo-poeta Ghjasappe di Scanu?

Giuseppe Scanu, il suo vero nome, è nato il 14 di settembre del 1850 nello stazzo di Macciunitta, vicino ad Arzachena. La condizione della famiglia, come affermano i parenti che vivono a Tempio (fra questi, Sebastiano Scanu, cultore appassionato della poesia popolare in Gallura) era tanto modesta che il bambino, nato malaticcio, crebbe bevendo latte e succhiando lardo fin dai primi giorni di vita. Di poca salute fino ai vent’anni, diventò a un tratto forte e resistente; e così restò, dopo aver superato due infarti, fino alla morte. Iniziò a camminare a tre anni, ma a quattro compose la sua prima poesia improvvisata, ispirata da un robusto appetito:

“Chissu coccu è troppu mannu /e noi chi ni lu femu?/ E siddhu ci lu magnemu /a noi ci faci dannu?” (Questa spianata è troppo grande e noi che ne facciamo? Se ce la mangiamo ci farà male?).

Visse e lavorò in molti stazzi della Gallura, quasi sempre mezzadro di pupiddhi. Si chiamavano così i padroni degli stazzi più ricchi con i quali i mezzadri stabilivano sulla parola un rapporto di prestazione d’opera, mai scritto. Rapporto che durava fino a quando padroni e mezzadri andavano d’accordo. In caso contrario al mezzadro non restava che la scelta obbligata di riprendere la sua vita erratica alla ricerca di un altro padrone e di un altro stazzo da gestire. Il 24 giugno, giorno di San Giovanni, era la data stabilita dalla consuetudine per nuovi spostamenti e nuovi contratti.

Giuseppe Scanu visse dunque qua e là la sua lunga vita di pastor’angenu, al servizio cioè di diversi proprietari, alla ricerca di situazioni lavorative che garantissero almeno possibilità di sussistenza.

Morì a novant’anni, il 18 agosto del 1940, nello stazzo chiamato Li Brocchi, Vignola, in territorio di Aglientu.

Questa zona gli fu molto familiare e la cantò con particolare ispirazione, per la sua bellezza e anche perché visse là una parte della sua giovinezza, fin quando si sposò e andò a risiedere nella zona di Cuoni, sempre in agro di Aglientu. Fu proprio lì che apprese a leggere e a scrivere seguendo le lezioni saltuarie e improvvisate di un contadino tempiese che seminava il terreno intorno al nuraghe di Tuttusoni, a ghjuàgliu (dipendente che il padrone assumeva soltanto per i lavori legati al ciclo del grano, lu ‘jùu).

Dopo la morte, nel 1914, della moglie Tummea (Maria Domenica) Staccuneddu-Biosa, avvenuta a Finucchjaglia, altro stazzo di Vignola, si trasferì  per qualche tempo a Tempio, dove restò sei anni facendo l’eremitanu (custode di una chiesa), nel santuario dell’Immacolata Concezione, all’entrata di Tempio per chi viene da Palau. Proprio in questo santuario, a quanto si dice, un mattino presto il poeta trovò all’entrata un bambino appena nato che, allo stremo delle forze, riuscì appena con qualche gemito ad attirare l’attenzione di Ghjaseppa. Se ne prese cura per un po’ di tempo con vero rigore morale e schietto senso di carità, e lo affidò poi a una famiglia benestante molto legata alla chiesa.

Per il suo modo di parlare, pronto e ironico, o chissà per quale altro riferimento, gli amici lo chiamavano “Balla-Balla”. Il vero perché non lo sa neppure il nipote.

Il poeta Sebastiano Sanna, di Arzachena, scomparso da qualche anno, lo conosceva bene anche perché cantò spesso con lui in occasione di feste, di sagre comunitarie, soprattutto matrimoni. Lo ricorda come un uomo non molto alto, magro con pancetta pronunciata; suscettibile, più nel contradditorio che nella concordanza quando si scendeva sul terreno della schermaglia poetica. In una foto in possesso dei familiari si notano chiaramente i connotati del suo volto allungato e virile:occhi un po’ tristi, racchiusi tra le palpebre curiosamnete trinagolari,naso grande, baffi e barba poco curati, bocca stretta e volitiva. Portava il berretto, lu bunettu, in inverno, soprattutto quando andava a trovare i parenti a Pàmpana, una località sul fiume Coghinas, in agro di Bortigiadas; e, in primavera il cappello, lu simbréri, specialmente nelle feste, e quando stava a Tempio, ospite di altri parenti che abitavano nel rione di Lu Palunéddhu. Vestiva quasi sempre di velluto e di fustagno; in campagna usava spesso i gambali di cuoio. Parco nel mangiare e nel bere, aveva una sua abitudine cui restò sempre fedele: mangiava una volta al giorno e sempre a mezzogiorno.

Da vecchio visse per qualche tempo anche ad Arzachena, ospite di vecchi amici che andavano a prenderlo con il carro a buoi per trasferirlo da uno stazzo all’altro, dove veniva accolto sempre con grande entusiamo. Ripagava tutti con le sue ottave di rara fattura e di rara incisione connotativa.

Per la sua attività poetica si dichiarava alunno di Pétr’Alluttu. A dieci anni salì sul palco durante la festa di Santa Maria di Vignola dove Pétr’Alluttu sbaragliava alcuni poeti a colpi d’ottava e osò sfidarlo, invitandolo a vdersela con lui. Sculacciato dalla mamma per tanta sfacciataggine fu sollevato di peso da Pètr’Alluttu che se lo tenne vicino per tutta la gara.

Ma altre notizie su Ghjaseppa di Scanu ce le dà, non soltanto nel suo bel libro, ma anche chiaccherando e appellandosi alla sua straordinaria memoria, il nipote diretto, Bastiano Scanu, che del nonno paterno conosce vita e miracoli per averne sentito parlare in famiglia e per averlo conosciuto, anche se per breve tempo, nei suoi primi anni. <<Avevo quattro anni e mezzo il 18 agosto del 1940 – racconta -, quando per l’ultima volta vidi mio nonno: Minnannu ‘ecchju, mi aveva insegnato a chiamarlo, per distinguerlo dall’altro, di dieci anni più giovane, che io chiamavo Minnannu Nou. Minnannu ‘ecchju aveva vissuto con noi gli ultimi due anni. Ricordo che parlava calmo, con voce grave, nasale. Camminava lento, strisciando un po’ i piedi e appoggiandosi ad un bastone di legno chiaro, nodoso, dall’impugnatura ricurva e dallo zoccolo metallico.Ricordo quando illu caponi di lianti, nella parete di levante, della casa di Li Brocchi, seduto al sole sopra un’asse di legno, recitava sottovoce il rosario; oppure, inforcati gli occhiali dalle lenti rotonde e dalla montatura di metallo lucido, leggeva la Bibbia. Di tanto in tanto, dal vicino distaccamento di Torre Vignola, arrivava qualche militare. Mio nonno, seduto al solito posto, salutava con il braccio teso.

Molto spesso portava in testa un berretto di tessuto nero, morbido e lucido, simile al velluto, forse di pilulzu, di feltro. Indossava una giacca di velluto color nocciola, la cacciatora, la chiamavano, dalle grandi tasche  dentro le quali, non essendo un cacciatore, teneva alcuni oggetti per me meravigliosi: la pipa dal coperchio di metallo lucido bucherellato; lu buscinu, sacchetto di pelle morbiba contenente tabacco a foglia;lu pìzzicu, munuscola molla che usava per prendere le braci quando, seduto vicino al fuoco del camino, si accendeva la pipa; infine, una piccola tabacchiera di legno per lu tabacc’a nasu, il tabacco da fiuto. Mi promise, per farmi contento, che alla sua morte io avrei ereditato quelle meraviglie! Nel taschino del panciotto teneva, collegato ad una catenella di metallo lucido, un grosso orologio che egli a volte tirava fuori e me lo appoggiava ad un orecchio per farmi ascoltare il tic-tac. Invidiavo i suoi occhi piccoli e seri, illuminati qualche volta da un breve sorriso, e la sua barba bianca. Mi faceva credere, che in breve tempo sarebbe cresciuta anche a me.

Un giorno che in casa le donne facevano la salsiccia “a macchina” (prima, la salciccia s’insaccava inserendo una forcella di vimine all’inizio del budello,chiamata in gallurese stìccula, che ne teneva aperta l’imboccatura, consentendo l’introduzione della polpa tagliata a pezzettini) mamma mi mandò a lu caponi per dire a Minnannu di punì un muttu. Mio nonno disse pronto:

Cu’ la macchina so’ fendi / la salticcia saurita/ ed eu ni soc’aspittendi / alumanc’un’arrustita (Con la macchina stanno facendo la salsiccia saporita e io mi aspetto di averne una arrostita).

Un giorno di sole molto caldo, in estate, una delle mie sorelle si affacciò alla porta di mezzogiorno e disse seria:<<Minnannu è malatu>>. Mi affacciai anch’io incuriosito. Minnannu avanzava lentamente nel piazzale, sorretto da mio padre. Poi lo vidi coricato sul suo lettino. C’era della gente attorno e c’era mio padre che con una candela accesa faceva dei segni precisi vicino alla testa di minnannu. Poi nella stanza vidi delle donne che piangevano e una donna anziana mi portò in braccio al lettino, a basgià a minnannu, mi disse. Lo baciai e notai che il suo viso era freddo. Solo più tardi, forse il giorno dopo, notai il lettino vuoto e chiesi dov’era andato minnannu. Mi dissero che era andato in cielo. Mi chiesi come avesse fatto a volare in cielo, in quel cielo azzurro tanto in alto, e provai disappunto per non essere stato presente ad assistere a tale prodigio>>.

Per raccontare tutta la vita di Ghjaseppa di Scanu ci vorrebbe un libro a parte. Ma in fondo la sua vita era come quella delle altre persone che vivevano a quel tempo nella Gallura negli stazzi, sprattutto dei poeti. Ma il valore di 80 anni canzunendi e dei suoi curatori sta proprio nel fatto di aver salvato i suoi versi. Anch’essi raccontano la sua vita, anche se la si può chiamare “un’altra vita”. Perché la vita dei poeti è sempre un’altra: con il preciso dovere di rappresentare la realtà mettendoci qualche toppa per migliorarla, renderla più carica di speranza e di tollerante spirito comuntitario. Questo libro ha offerto ai lettori la mappa di questa nuovo statuto, virtuale ma non troppo, difficile da raggiungere, soprattutto oggi in cui sembra che tutto congiuri per nasconderlo ai nostri occhi.

Franco Fresi

 

 

 

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