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A Saronno convegno su Antonio Pigliaru e Michelangelo Pira

 Due momenti di approfondimento storico e culturale hanno inaugurato a Saronno, nell’Hotel della Rotonda, nel pomeriggio di sabato 27 aprile, le due Giornate nelle quali i 18 Circoli sardi della Lombardia aderenti alla F.A.S.I. (Federazione Associazione Sarde in Italia) hanno celebrato la dodicesima edizione de “Sa Die de Sa Sardigna” (Festa del Popolo Sardo).

Una breve rievocazione storica delle cause della sollevazione del 28 aprile 1794 e dei moti antifeudali; e il convegno: “Antonio Pìgliaru e Michelangelo Pira, ovvero la cultura al servizio dell’autocoscienza e del riscatto della comunità sarda”.

 

I lavori sono stati introdotti dai saluti di Luciano Aru, presidente del Circolo “Grazia Deledda” di Saronno, Alessandro Fagioli, sindaco della Città di Saronno, Giuseppe Tiana, coordinatore della Circoscrizione Centro Nord dei circoli sardi, Serafina Mascia, presidente della F.A.S.I. e Tonino Mulas, presidente onorario.

Nella sua relazione Paolo Pulina, vicepresidente e responsabile Cultura/Informazione della F.A.S.I. ha ricordato che “Sa Die de sa Sardigna”, “la festa del popolo sardo” è stata stabilita con una legge della Regione Sardegna nel 14 settembre del 1993, in ricordo del 28 aprile 1794, data della (temporanea) cacciata pacifica dei piemontesi dalla Sardegna nel contesto dei moti antifeudali del triennio rivoluzionario sardo (1794-1796).

La data del 28 aprile 1794 ha un profondo significato storico nell’itinerario che segna le tappe dell’anelito alla libertà civile e all’autonomia politica nell’animo del popolo sardo; ma ha anche una grande valenza, simbolica e culturale, perché è per tutti i sardi il momento speciale (trasfigurato giustamente anche in mito) in cui si è potuta fondare la loro unità contro l’oppressore “esterno”, “estraneo”, quindi “straniero”.

Quel giorno, conosciuto come quello dell’“emozione popolare”, i cagliaritani in rivolta accompagnarono sulle navi – pacificamente ma con chiara fierezza e fermezza – i piemontesi (compreso il viceré); tutta gente forestiera che aveva preso possesso e governo dell’isola da quando l’Austria aveva ceduto la Sardegna ai Savoia con i trattati di Londra (1718) e dell’Aia (1720).

La protesta aveva per bersaglio il trattamento offensivo che era stato riservato ai miliziani sardi che qualche anno prima avevano difeso sia Cagliari sia La Maddalena (tra coloro che avevano posto l’assedio a quest’ultima c’era anche il giovane Napoleone Bonaparte) dagli attacchi dei francesi, desiderosi di diffondere gli ideali di libertà rivoluzionaria cominciata il 14 luglio 1789 con l’assalto della Bastiglia.

Senza quella spontanea difesa, compiuta per onorare il vincolo della fedeltà giurata a casa Savoia, il feudalesimo in Sardegna – ha sottolineato Pulina - sarebbe stato abbattuto almeno 50 anni prima di quanto poi storicamente si è avverato.

In questo contesto rivoluzionario è d’ obbligo la citazione di due nomi: Francesco Ignazio Mannu (autore del canto Su patriota sardu a sos feudatarios, che da “Sa Die 2018” è diventato inno ufficiale della Sardegna,) e soprattutto Giommaria Angioy, pervenuto fino alla carica di giudice della Reale Udienza, definito da qualche studioso “il più illustre martire laico sardo”, protagonista dei moti antifeudali del triennio rivoluzionario sardo (1794-1796).

È molto importante che oggi il popolo sardo (insieme con gli emigrati nell’Italia continentale e nel resto del mondo) – ha detto Pulina - riconosca questo giorno famoso e di festa solenne per ricordare uno dei periodi storici alti di significato e di idealità. La lezione della storia ci ha insegnato che, come in quelle giornate dell’aprile 1794, le conquiste e i diritti non arrivano in dono e si possono ottenere solo con il contributo unitario del popolo sardo: quindi insieme a tutti gli emigrati sardi, che metaforicamente vogliono rappresentare uno dei quattro mori, finalmente senza benda sugli occhi, che compaiono nello stendardo sardo».

La relazione su “Antonio Pigliaru: Cosa vuol dire essere Maestri”, è stata fatta da Antonio Delogu, già docente di Filosofia morale, Università di Sassari.

«Nel cinquantenario della morte- ha detto Delogu -  non si può non ricordare Antonio Pigliaru, l’intellettuale più prestigioso della Sardegna della seconda metà del Novecento. Nel 1964 Mario Berlinguer gli scriveva: “Carissimo Pigliaru, sei sempre la guida degli intellettuali impegnati nell’isola”.

Docente di Filosofia del Diritto e di Dottrina dello Stato nell’Università di Sassari, Pigliaru ha praticato la filosofia non come gioco dell’intelligenza, come esercizio contemplativo, ma come disciplina morale e intellettuale, come presa di coscienza di sé, come responsabilità di contribuire alla crescita etico-politica della società, come testimonianza quotidiana di un impegno civile cui non ci si può sottrarre. Perciò Pigliaru è stato un formatore di coscienze, un alto esempio di impegno culturale dentro e fuori dell’Università. Ricordava il Giovanni Gentile che diceva: “Chi non è in grado di sentire la santità del luogo in cui insegna (maestro, docente di scuola media, docente universitario) non è un educatore”.

Aveva un alto concetto dello Stato democratico come res-publica, cioè come cosa e casa di tutti, intendeva la democrazia come fine e come metodo di progressiva riappropriazione della sovranità da parte di tutta la società. La democrazia, per Pigliaru, più che una tecnica è una morale in quanto dovere di autentica responsabilità alla partecipazione al progresso della comunità politica. In questa prospettiva, l’autonomia regionale non è una alternativa esterna allo Stato ma piuttosto un momento essenziale della riforma dello Stato. L’opera fondamentale di Pigliaru è senza dubbio La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico (1959) in cui ha dato una lettura della comunità dei pastori delle zone interne della Sardegna di assoluta rilevanza per comprendere le cause strutturali del fenomeno del banditismo.

Di Pigliaru, tra l’altro, non si può sottacere il cristianesimo intensamente vissuto, per il quale la persona è integrale tensione morale e i bisogni fondamentali dell’individuo sono l’eguaglianza, la libertà, la solidarietà. Se la crisi che caratterizza l’attuale momento storico è prima di tutto crisi spirituale e morale, l’insegnamento di Pigliaru è di assoluta attualità in quanto appello alla coscienza che non si piega alle opinioni dominanti, al conformismo che rende passiva la vita individuale».

La relazione su “La questione sarda alla luce degli strumenti teorico-critici di Antonio Pigliaru e Michelangelo Pira” è stata affidata a Federico Francioni, già docente di Storia e Filosofia nei Licei.

«Bisogna richiamare in primo luogo – ha detto Francioni - l’importanza dell’analisi di Antonio Gramsci sulla questione meridionale. Il Mezzogiorno non è certo un tutto indifferenziato per Gramsci, il quale distingue accuratamente tre sezioni: Napoletano, Sicilia e Sardegna. È sufficiente, fra i diversi fattori, la dinamica demografica per distanziare nettamente l’area di Napoli da una Sardegna attraversata da correnti e costanti di spopolamento e di sottopopolamento. Considerazioni analoghe si possono sviluppare nel confronto fra Sardegna e Sicilia.

Purtroppo le pagine gramsciane non hanno impedito a storici e studiosi di cadere nell’errore che fa confluire la questione sarda nel magma indifferenziato di quella meridionale. Anche in “Ichnusa”, la rivista diretta da Antonio Pigliaru, il riferimento al meridionalismo, come ha dimostrato Salvatore Tola, appare predominante.

Tuttavia il testo-chiave di Pigliaru, La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico (1959), dimostra abbondantemente la distanza del tessuto socioeconomico e socioculturale sardo da un agnosticismo etico, così funzionale al prosperare della mafia.

A Pigliaru va riconosciuto il merito di aver esaminato con grande cura le norme di un ordinamento giuridico “altro” che, nella contrapposizione allo Stato, conduce inevitabilmente la comunità della Barbagia ad uno scontro autodistruttivo.

Per quanto riguarda l’antropologo Michelangelo Pira – ha detto il relatore - sono molto interessanti le pagine che ha dedicato al problema della scuola. Nella sua opera La rivolta dell’oggetto (1978), Pira fa ricorso al concetto di scuola impropria per focalizzare quanto si poteva proficuamente apprendere nel contesto agropastorale sardo tradizionale, non caratterizzato da una profonda divaricazione fra natura e cultura. A partire dalla critica al modo capitalistico di produzione, enucleato da Marx, Pira sviluppa il concetto di un nuovo modo scolastico di produzione, incardinato sull’alternanza fra lavoro produttivo e studio. Il rifiuto della scuola classista e discriminante conduce Pira, influenzato dai movimenti e dalle lotte degli anni Sessanta e Settanta, non solo alla prospettiva di un’educazione politecnica, ma anche di un’istruzione in grado di inglobare e rendere ufficiale l’insegnamento della storia, della lingua e della cultura sarda, dal ciclo delle elementari all’Università».

La relazione su “Antonio Pigliaru, Michelangelo Pira, la rivista ‘Ichnusa’ e gli anni dell’ ‘impegno’ ” è stata fata da Salvatore Tola, studioso della cultura sarda.

«Il primo numero di “Ichnusa” – ha ricordato Tola - fu stampato dalla tipografia Gallizzi di Sassari nel novembre del 1949: elegante nella veste grafica, mostrava distacco dai problemi della Sardegna, e dava della realtà isolana una visione contemplativa e folkloristica. Antonio Pigliaru, che figurava come direttore responsabile, era ancora impegnato nel percorso intellettuale e politico dalla ideologia fascista, di cui come tanti si era nutrito negli anni giovanili, all’apertura verso la democrazia. La sua modernità affiora nel saggio che, nel primo numero, pone l’esigenza di “sprovincializzare la provincia”.

La vera e propria “Ichnusa” – ha proseguito Tola - si rivelò nella seconda fase, dal 1956. Scomparsi o ridotti ai margini i collaboratori legati alla vecchia concezione, Pigliaru è ora affiancato da giovani che vogliono con lui seguire una linea culturale concreta: l’avvocato Giuseppe Melis Bassu, il magistrato Salvatore Mannuzzu, il professore Manlio Brigaglia.

Tra i temi che fecero la loro comparsa in questa seconda fase è da ricordare la scuola, perché sin dal 1954 Pigliaru (figlio di una maestra) aveva coinvolto Manlio Brigaglia nella redazione di una piccola rivista, “Scuola in Sardegna”.

Quando poi la rivista maggiore riprese a uscire, col numero 10, fece spazio ai temi più scottanti della realtà isolana del tempo: la “questione sarda”, e il suo rapporto con la più vasta “questione meridionale”; in parallelo si discuteva delle prospettive del “Piano di rinascita” che doveva essere attuato secondo gli impegni del Governo nazionale.

L’attenzione venne poi rivolta ai problemi della stampa e a quelli della cultura. Né venivano trascurate le opere letterarie: in primis il Diario di una maestrina di Maria Giacobbe, che faceva luce tra l’altro sul ruolo della scuola nei paesi “difficili” dell’interno.

Nell’estate del 1960 la rivista “Ichnusa” entrò in una nuova e ancora più decisiva fase: gli studi per l’attuazione del “Piano di rinascita” erano a una fase cruciale, si avvertiva l’urgenza di intensificare il lavoro in quella direzione. Fu coniato lo slogan «Una cultura moderna per una Sardegna moderna, una cultura autonomista per una Sardegna autonoma»: intendendo che la rinascita dovesse essere la migliore espressione e realizzazione dell’autonomia.

Pigliaru e compagni seguono, insieme all’evolversi della pianificazione, i problemi sempre scottanti della condizione isolana: il riaffiorare del fascismo a Sassari; la recrudescenza del banditismo nel Nuorese; l’opera di Salvatore Cambosu e il primo romanzo di Salvatore Mannuzzu; la “rivoluzione” dei “giovani turchi” capitanati da Francesco Cossiga; il film Banditi a Orgosolo di Vittorio De Seta.

Michelangelo Pira fu un collaboratore importante della rivista negli anni centrali della seconda e della terza fase: ne assecondava la linea seguendo i propri interessi intellettuali e arrivando anche a qualche provocazione riguardo ai temi più caldi sul tappeto. La sua maggiore provocazione venne da un articolo del 1961, Discorso sui quarantenni, nel quale esprimeva l’idea di una sorta di “rottamazione” della politica e della cultura, che doveva consistere nel mettere da parte gli ultraquarantenni, compromessi col fascismo, per lasciare spazio alle giovani generazioni».

Nella foto di Marinella Mirinino da sinistra: Giuseppe Tiana, Salvatore Tola, Antonio Delogu, Federico Francioni, Serafina Mascia, Alessandro Fagioli (sindaco di Saronno), Paolo Pulina, Tonino Mulas.

P.P

 

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