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L'ISOLA IN CUCINA di Roberto Loddi de Santu ‘Engiu Murriabi : Ricette luglio 2019

 Culurgionis a spighitta o a pibioni de Sadali

Molte sono le regioni che rivendicano la paternità dell'invenzione del raviolo. Una delle più attendibili è  quella dei liguri, pare che i  ravioli, derivino da quelli genovesi ravieu “merlo”, sempre in Liguria li chiamavano anche "gè in preixun" (bietole in prigione), ovvero un piccolo contenitore di pasta, nel cui interno si celava il prezioso ripieno, il cui segreto degli ingredienti ogni famiglia custodisce gelosamente da generazioni.

Infatti il ripieno era  una scelta di ingredienti che variava a seconda della disponibilità economica familiare; da quelli degli avanzi di un  banchetto aristocratico a quelli settimanali di una comune famiglia contadina. Un'altra fonte sostiene che con il nome di “rabiola”  piccola rapa (denominazione medievale, la quale si associa molto probabilmente alle rape, le cui foglie, in origine, erano un ingrediente), in un documento del 1243, compare per la prima volta come specialità cremonese. Se ne parla anche in una lettera dell’arcivescovo Giraldo, presso Matteo Parigino, con il senso di “manicaretto”. Mentre un'altra ipotesi dice che la parola raviolo derivi da robiola (formaggio di capra), non a caso nell’acquese in Piemonte, chiamano il raviolo “raviola”. I Liguri, fino alla metà del’Ottocento consideravano i ravioli cibo di ricorrenza per il Capodanno e per il Carnevale. Quest’ultima festa è ricordata da un proverbio genovese: “L’urtimo giorno da Carlevà, de ravieu se ne fa unn a pansà”.  In Lombardia, fino ai primi del Novecento, corsero due modi di dire: “Andà in fumm de ravioeu” (di cosa o progetto, che svanisce) e “Battezzàa con l’acqua di ravioeu” (battezzato con l’acqua di cottura dei ravioli, che significa persona sciocca). Effettivamente, già in tempi molto lontani, si parla di scrigni di pasta con all’interno ripieni vari, già soggetti a una cucina elaborata. Indipendentemente da tutte le storie e le leggende scritte sul raviolo, il poeta genovese Bacigalupo, elogia l’ignoto inventore che afferma essere ligure. È vero, si parla di ravioli in tutta Italia, ma è altrettanto vero che anche la Sardegna vanta antiche trazioni con ricette che variano di paese in paese; come variano i  nomi di questi succulenti ravioli della cucina tradizionale isolana, tanto per citarne alcuni: culurgiones - detti anche - culurgionis - culurzones - culingiones - culurjones - culurgionis - culurxionis - o - culurjonis - crugixionis -  gugligliones - purulzoni - culuriones - culixonis - e via dicendo. A Sadali, suggestiva località fra il Sarcidano e la Barbagia di Seùlo al confine con l'Ogliastra, ogni anno, come ringraziamento a conclusione del raccolto e per favorire quello dell’anno successivo, viene dedicata una festa a questi deliziosi fagotti di pasta ripiena, dalla forma che va da quella quadrata a quella pizzicata - a spighitta - piccola spiga. Qualunque sia il formato, il ripieno varia da quello base di pecorino sardo freschissimo (uno - due giorni di stagionatura), a quello a base di patate, aglio e menta o - nepidedda - nepitèlla - nepetèlla - mentuccia selvatica, a quelli di ricotta, bietole selvatiche eda, zafferano tzaffanau, che deve essere rigorosamente di San Gavino (città dell’oro rosso). Il condimento indicato è  quello classico di pomodoro e basilico o con sugo d’agnello, di maiale e salsiccia o quant’altro e, a completare il piatto una immancabile generosa nevicata di pecorino e una macinata di pepe. Una antica tradizione vuole che si preparino i -  culurgiones de olluseu, tipici de Is Mortos - dei Morti a novembre, con grasso ovino e i - culurgiones de ollu ‘e porcu - grasso di maiale si preparino a Carnevale. Secondo una antica tradizione, i ravioli in Sardegna è  usanza offrirli come gesto di fratellanza, di affetto e di riguardo. Sono ritenuti un piatto rituale, allo stesso tempo caratteristici e sono definiti eccellenti per antonomasia come cibo conviviale.

Ingredientis:

per l’impasto: g 500 di farina di semola di grano  duro sardo, g 30 strutto, acqua e sale q.b. per il ripieno: g 800 di pecorino fresco acidulo non salato - casu friscu -, g 500 di bietole selvatiche - eda -, g 20 di strutto, 2 cucchiaiate di olio extravergine d’oliva, 1 spicchio d’aglio, 2 uova grandi o 3  medie, g 25 di farina bianca, zafferano San Gavino, noce moscata, una presa di sale e una macinata di pepe, per il condimento: 1 bella cipolla di - sa Zeppara - zona della Marmilla, 1 mazzetto di prezzemolo, kg 1 di polpa di pomodori freschi ridotta a poltiglia, 1 spicchio d’aglio, un ciuffo di basilico, vino bianco secco, pecorino stagionato grattugiato, olio extravergine d’oliva, sale e pepe di mulinello q.b.

Approntadura:

come prima operazione, disponi la farina setacciata a fontana sul ripiano  della madia, al centro tuffaci una presa di sale, lo strutto a temperatura ambiente e tanta acqua che si riveli necessaria per ottenere un impasto privo di grumi e malleabile, che lascerai riposare in luogo fresco per un ora coperto con un panno  da cucina. Nel mentre, lava le bietole, poi falle appassire con la sola acqua di sgrondatura, dopodiché strizzale e ripassale in padella con lo strutto, un  giro d’olio e l’aglio schiacciato. Non appena si saranno insaporite, allontanale dal fuoco, battile con il coltello e poni il ricavato dentro a una terrina assieme al formaggio tritato, le uova, la farina, una grattata di noce moscata, una macinata di pepe, una bustina di zafferano, una presa di sale e amalgama assieme il composto, che terrai da parte. Fatto, trita la cipolla con il prezzemolo e il battuto ottenuto fallo rosolare in un capace tegame di terracotta olla in un giro di olio e una spruzzata di vino. Evaporato, unisci la polpa di pomodori, l’aglio, il  basilico, una presa di sale, una macinata di pepe e prosegui la cottura dolcemente per circa tre quarti d’ora. Terminata questa operazione, tira la pasta a sfoglie sottili, con l’aiuto di un coppa pasta rotondo o un bicchiere, forma tanti dischi quanti ne consente la pasta, ritagli compresi. A questo punto, accomoda dei mucchietti di ripieno su ognuno e, ad uno ad uno, chiudi i dischetti pizzicandoli ai  bordi con il pollice e l’indice, così facendo otterrai i classici ravioli a spiga (questa operazione sarebbe opportuno farla il giorno prima) e man mano che li confezioni, allargali su dei panni da cucina infarinati e lasciali asciugare fino a quando  li dovrai lessare. Solo allora, tuffali in  abbondante acqua salata a bollore e appena al dente, scolali direttamente dentro al recipiente del condimento, cospargili  con una manciata di pecorino e falli saltare a fuoco vivace, giusto il tempo che occorre per fare insaporire gli ingredienti. Servili immediatamente con un ulteriore spolverata di formaggio e  una macinata di pepe.

Vino consigliato: Mandrolisai rosato, dal sapore asciutto, sapido con retrogusto amarognolo, armonico, vellutato e caratteristico.  

 

***

Is lunas de Serramanna

 

La Sardegna è un’ isola ricca di storia, di antiche leggende e curiosità che affascinano  ogni qualvolta vengono raccontate. Il popolo sardo vanta arcaiche tradizioni e usanze che cambiano da un paese all’altro, come cambiano i dialetti e i costumi. Per esempio, Serramanna è uno di questi, la cui cultura è di origine e condizione sociale contadina, tanto è vero che grazie all’esistenza di acqua in abbondanza, terreni coltivabili produttivi e le campagne pianeggianti che la circondano ha consentito lo sviluppo e la diffusione (oggi molto meno) di una pregiata selvaggina. Tutto questo da secoli, ha simboleggiato per gli abitanti locali, fonte di risorse e sostentamento concrete. Come accadde in tutta l’area dell’isola i paesi e le città, nascevano dapprincipio come pochi nuclei di famiglie sparsi a distanza uno dall’altro, successivamente, iniziarono ad aggregarsi e avvicinarsi sino a dare forma a centri abitati più o meno popolati e le varie testimonianze dei successivi passaggi di altri popoli, dimostrano quanto antichi siano. Col passare del tempo, ogni cultura ha lasciato la propria impronta e i gli abitanti di Serramanna ne hanno tenuto conto, raccogliendo il meglio di tutto quello che ha portato interesse ed emozione. Qualsivoglia sia l’autenticità degli albori, il paese vive con il nome di Serramanna dal 1224. Da allora, il paese di strada ne ha fatta, arrivando al tempo attuale, con un bagaglio di usi, costumi e tradizioni come l’arte culinaria, ricca di ricette tramandate di madri in figlie per l’appunto. Un significativo esempio è costituito da le lune di Serramanna - is lunas de Serramanna -, che è una delle tante ricette che Itala Testa nata a Serramanna in provincia di Cagliari,  ha pubblicato nel 1982, in due volumi “Cucina di Sardegna”, 500 ricette di cucina sarda, partendo da - is afforrus - gli antipasti, per raccontare i primi piatti più cari alle tradizioni dell’Isola, la carne, i pesci, i dolci, il vino, i liquori e i piatti più insoliti. La ricetta de - is lunas de Serramanna - l’autrice la volle dedicare al suo paese natale. Consiste in pizzette  di pasta ben lievitata, grandi da somigliare ad un piatto, poi fatte cuocere in padella con dell’olio e dello strutto, quindi fritte e condite con della salsa di pomodori. Questa salsa è ottenuta dalla lavorazione di pomodori nostrani (peraltro molto apprezzata dai consumatori sardi e da quelli del continente) in quanto prodotta dall’unica industria conserviera locale esistente in Sardegna che li trasforma in pelati, polpa pronta per pizza, conserve varie, concentrato e passati, raccogliendo la materia prima dalle campagne di tutta l’Isola. Le pizzette a questo punto vengono impreziosite con abbonante pecorino grattugiato e pepe macinato al momento. La squisita pietanza è, una ricetta povera con ingredienti del luogo e fa parte di quelle che a me appassionano particolarmente, tanto è vero che ho voluto cucinarla per poterla apprezzare in tutta la sua squisitezza.

Ingredientis:

g 500 di farina tipo 0, g 100 di farina di grano duro sardo, g 15 di lievito di birra freschissimo, acqua tiepida, 1 cucchiaino di zucchero comune q.b., mezzo bicchiere di olio d’oliva per l’impasto, 1 spicchio d’aglio, polpa di pomodori maturi ridotta a poltiglia, basilico, zafferano San Gavino, pecorino semi stagionato grattugiato per condire, olio o strutto per friggere, sale e pepe di mulinello q.b.

Approntadura:

per prima cosa, prepara un panetto crescente ponendo dapprima il lievito sbriciolato dentro a un recipiente di vetro, poi aggiungi duecento grammi di farina 0, un bicchiere d’acqua tiepida, un cucchiaino di zucchero e mescola bene tanto da amalgamarli, quindi poni il ricavato accanto a una fonte di calore e lascialo lievitare fino a quando in superficie non si sarà formata una schiuma densa come quella che appare in una pinta di birra subito dopo spillata. Metti una padella sul fuoco con dentro uno spicchio d’aglio schiacciato assieme ad un giro d’olio, la polpa di pomodori, un pizzico di sale, un ciuffo di basilico, un’idea di zafferano e fai insaporire la salsa a fiamma media per una mezz’ora circa. Impiegato il periodo occorso, allontana il recipiente dal fuoco e immediatamente disponi a fontana la restante farina 0 con quella di grano duro setacciate sul ripiano della madia, tuffaci al centro l’olio, una presa di sale, un bicchiere scarso d’acqua tiepida e con mosse efficaci impasta gli ingredienti per dieci minuti. Ottenuto una massa priva di grumi e malleabile, avvolgila a palla, accomodala dentro a un capace conca di terracotta - scivedda - xivedda - infarinato, applica sulla superficie un incisione a croce, avvolgi dunque il recipiente con una pellicola per alimenti, introducilo dentro al forno spento ma con la luce accesa e lascia lievitare per due ore (per assicurarsi una perfetta crescenza, l’ideale sarebbe quello di mettere l’impasto a lievitare la sera prima). Passato questo tempo, rimaneggia il composto, lavorandolo sulla spianatoia energicamente fintanto che sentirai la pasta scoppiettare. Solo allora raccoglila nuovamente a palla, sistemala un'altra volta dentro alla conca infarinata, incidila in superficie, avvolgila pure con dell’altra pellicola alimentare e sistemala nel forno spento, sempre con la luce accesa a lievitare per un’altra abbondante ora. Trascorsa, preleva pezzi d’impasto grossi quanto un pugno, stendi ogni pezzo sul piano di lavoro infarinato e con l’aiuto di un matterello, forma delle pizze rotonde larghe circa diciotto centimetri e spesse tre millimetri. Terminata questa operazione, friggi ogni pizza in abbondante olio e strutto bollenti e dal momento in cui risulteranno dorate, scolale ma mano su dei fogli di carta assorbente da cucina a perdere il grasso in esubero. Servile immediatamente condite con la salsa di pomodori (calda) tenuta da parte, un filo d’olio, una generosa nevicata di pecorino, una macinata di pepe e un calice di ottimo vermentino della cantina sociale di Serramanna, che agli inizi degli anni Cinquanta è stata la cantina più grande d’Europa.

Vino consigliato: Vermentino di Sardegna, dal sapore sapido fresco, acidulo con retrogusto leggermente

 

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