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“L'ISOLA IN CUCINA” di Roberto Loddi de Santu ‘Engiu Murriabi – Ricette Dicembre 2019

 Sa petta o petza imbinada cun sa salza

Questo antico piatto fa parte della cucina agropastorale dell’Isola, in particolare della zona di Suni (alto oristanese) e di tutto l’altopiano della Planargia. Area che da sempre vive dei prodotti derivati dall’agricoltura e dalla pastorizia. Tradizionalmente, i pastori allevano il bestiame allo stato libero sui prati  incontaminati del territorio, che oltre a fornire il latte vaccino od ovino, dal quale si produce il - casizolu -, con la sugna - ollu de porcu - dei maiali i condimenti e con la carne infine si preparano succulenti pietanze. Fra le tante, quella della - petta o petza imbinada cun sa saltza - piatto tipicamente invernale a base di carne di maiale, battuta a coltello o tritata, come avviene per la pasta della salsiccia, fatta macerare per diversi giorni nel vino, anche fino a una settimana, poi servita una volta cotta con la sua salsa. Si narra che molto tempo fa, quando in Sardegna avvenivano i furti di bestiame (ma potrebbe essere una leggenda), per nascondere la carne macellata ai ladri, i pastori la stivavano dentro a delle botti o mastelli di legno colmi di vino, onde evitare che andasse in putrefazione. Probabilmente era il metodo di conservazione più indicato, oltre a quella dell’essiccazione, quello sotto sale o quello degli insaccati, anche perché all’epoca questi erano i metodi naturali, essendo sconosciuta la tecnologia del freddo.

 

Ecco spiegato l’arcano della ricetta della - petta o petza imbinada cun sa saltza -, che comunque oltre a prevedere la macerazione nel vino, alla marinata si aggiungeva anche dell’aceto, giusto per dare quella leggera nota acidula alla preparazione e che allo stesso tempo compensava la dolcezza della carne. Il comune di Suni, (il cui nome deriva da Asùni, che significa custode di cavalli, buoi e asini), in collaborazione con la Confraternita del Santissimo Rosario e Santacroce, organizza ogni anno, qualche giorno prima del Santo Natale, una sagra dedicata a - sa petta o petza imbinada cun sa saltza -,  che viene servita con fette di pane - chivalzu - civraxiu - raffermo e  vino nuovo locale a fiumi. Per chi fosse interessato a maggior informazioni, può contattare la signora Franca Mocci, presso il comune di Suni (che ringrazio per la preziosa consulenza e gentilezza). Questa preparazione ricorda un antico piatto ottocentesco alessandrino, della zona di Spinetta Marengo in Piemonte, “la ciapilaia”, a base di carne di cavallo tritata a coltello, marinata  e cotta nel vino rosso, ricetta legata al bandito Maino della Spinetta, che nel periodo napoleonico si era autoproclamato “Re di Marengo e imperatore delle Alpi”. Sempre in tema di sagre, anche a Magomadas, nel mese di settembre (in sardo - cabidanni - e - cabudanne -, dal latino “caput anni” inizio dell’anno, cioè capodanno in corrispondenza dei primi lavori del mondo agreste. Questo metodo di calcolare il tempo era stato avviato dai Bizantini, che avevano usato metodologicamente un calendario analogo a quello degli Ebrei. Infatti, in Sardegna, la sequenza dei lavori nei campi era anticipato a settembre. Il Comune in collaborazione della Proloco di Tresnuraghes e della Associazione Polisportiva Magomadese, con l'associazione Santa Maria del Mare, organizza un appuntamento annuale dedicato a - sa petta imbinada -… Non mancate gente!

Ingredientis:

kg 1,5 di polpa di maiale o di manzo ma l’ideale sarebbe l’utilizzo della carne di cavallo intorno al collo - arrebugliusu -, 2 bottiglie di vino rosso tipo cannonau, aceto di ottimo vino rosso, 3 spicchi d’aglio, un mazzetto di timo sardo - armidda -, 1 carota, 1 gambo di sedano, 2 pomodori secchi ben dissalati, 2 foglie di lauro, un ciuffo di rosmarino, 2 bacche di ginepro marino, 1 cucchiaino di pepe in grani, g 80 di guanciale sardo - grandua - ridotto a poltiglia, 2 cipolle di - sa Zeppara - zona della Marmilla -, farina bianca, olio extravergine d’oliva, sale  e pepe di mulinello q.b.

Approntadura:

per prima cosa sgrassa la carne che hai scelto, poi battila a coltello riducendola a piccolo spezzatino e accomodala dentro a un recipiente d’acciaio, quindi unisci la cipolla a pezzi, l’aglio, la carota, il  sedano, il lauro, le bacche di ginepro pestate, i grani di pepe, il timo, il rosmarino, il  vino e una cucchiaiata di aceto. Fatto, copri il recipiente e ponilo in luogo fresco per 3 giorni, permettendo così alla carne di marinare perfettamente, aggiungendo altro vino qual’ora la carne lo assorbisse. Quando sarà trascorso il tempo, scolala dentro a un colino e lasciala sgocciolare per bene, allorché versala su di un  canovaccio e asciugala, dopodiché filtra la marinata e per renderla più digeribile portala ad ebollizione e tienila da parte. Terminata questa operazione, infarina leggermente lo spezzatino, subito dopo prepara un trito finissimo con la cipolla della marinata, la carota, il sedano, l’aglio, il timo, il rosmarino, i pomodori secchi e il battuto ottenuto ponilo dentro a un ampio recipiente con un generoso giro d’olio, il guanciale e lascialo rosolare un paio di minuti. Solo allora,   tuffaci la carne e falla insaporire un momento amalgamandola al soffritto, dopodiché bagna il tutto con quattro mestolate di marinata bollente. Arrivati a questo punto,  regola il sapore di sale, impreziosiscilo con una macinata di pepe e continua la cottura dolcemente a recipiente coperto, fino quando la carne si sarà spappolata, sempre mescolando per evitare che si attacchi sul fondo. Nel caso in cui il sughetto dovesse restringersi, aggiungi poco alla volta dell’altra marinata bollente. Servi la preparazione caldissima con il suo fondo di cottura cremoso, su fette di pane raffermo tipo - chivalzu - civraxiu - leggermente agliato, oppure con spianata sarda.

Vino consigliato: Cagnulari, dal sapore pieno, morbido, intenso e persistente, con evidenti note di confetture di frutti rossi e ciliegia marasca.

 

***

 

Su gattòu o  gattòs de mendula de Paschixedda

 

Molteplici sono le ipotesi circa la sua provenienza. In un testo spagnolo della metà del Quattrocento si parla di croccante, lasciandoci pensare che la sua nascita sia avvenuta proprio nel Paese Iberico. Il capo cuoco dell’Ambasciatore d’Inghilterra Francesco Chapusot ne “La cucina sana, economica ed elegante” prima edizione Torino 1846, descrive a pagina 129, “Un mandorlato (nougat) scrosciante da fare scorrere piano, piano dentro a una forma a capriccio, unta d’alcun poco olio e prosegui così fin quando la forma sia piena. Trasmesso eccellente per la fine di un pranzo. Lo zucchero e le mandorle divengono di uno scrosciante graditissimo”. Il croccante di mandorle (in inglese nougat - nugat - no gat, in italiano torrone - mandorlato - croccante) lo cita anche Giovanni Nelli nel suo trattato di  gastronomia universale “Il Re dei cuochi” (1880 seconda edizione), alla voce 1858 scrive: “Con questo croccante si fanno tempietti, casucce ed ogni sorta di oggetti che riescono di facilissima esecuzione”. Pellegrino Artusi menziona il croccante alla voce 617 nel suo famoso libro di ricette “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”, dove scrive: “Versatelo a poco per volta in uno stampo qualunque, unto prima di burro od olio e pigiando con un limone contro le pareti, distendetelo sottile quanto più potete”. Mentre in Sardegna pare siano stati i Savoia a trasmettere l’arte della preparazione del croccante. Non tutti sono d’accordo però, infatti c’è chi sostiene che questo dolce sia nato nel Milleduecento nel sud Italia, dalla variazione di un dolce arabo preparato con miele, spezie e mandorle. Comunque sia, tra storie e leggende il - gattòu -, chiamato anche - gattò - gattòs - gatò - catò - dal francese gâteau è un dolce a  base  di mandorle tostate, miele e zucchero (anche se il gattò in varie Regioni d’Italia è una preparazione salata a base di riso, di patate, di cavolfiori o altro) ed è tipico della cucina antica tradizionale sarda. Il - gattòu - viene preparato principalmente in occasione delle feste natalizie e nelle grandi occasioni, quali matrimoni, battesimi, comunioni, cresime e quant’altro. Ricordato e reso famoso anche grazie alla scrittrice e traduttrice italiana Maria Grazia Cosima Deledda, nata in Sardegna e vincitrice del Premio Nobel per la letteratura nell’anno 1926, che lo cita nel romanzo La via del male' (1896), definendolo come "piccole costruzioni moresche di mandorle e miele" e in alcuni suoi scritti menzionando: “… donne in costume, attillate, che recavano sul capo torte e gattòs”. Con il  - gattòu - un tempo, era tradizione riempire  degli appositi stampi di latta a forma di pesce. Mia zia Iside (esperta dolciaia di San Gavino) mi diceva che questa operazione voleva essere una forma di rispetto nei confronti delle credenze, che ancora oggi esistono come quella di mangiare di magro. E di conseguenza il dolce poteva essere consumato anche in occasione della cena - sa nott’e xèna - della vigilia. A Selargius invece, il – gattòu - ancora oggi lo preparano come dolce nuziale ed è lo stesso che si preparava un tempo in occasione di - sa coja  antiga -, il rito dell’antico matrimonio selargino; una cerimonia suggestiva, dal sapore antico di una gloriosa tradizione secolare che non tramonterà mai.

Ingredientis:

kg 1,2 di mandorle già pelate, g 800 di miele, g 500 di zucchero comune, 2 cedri maturi non trattati, confettini colorati, zucchero al velo, albume d’uovo, limoncello q.b.

Approntadura:

cospargi un piano di lavoro in marmo con il succo dei cedri filtrato, poi passa le mandorle per un minuto in acqua bollente, quindi scolale, asciugale e tagliale a filetti (se lo preferisci lasciale intere e non farle nemmeno sbollentare. Deciso la scelta, falle tostare dentro a una teglia foderata con un foglio di carta oleata in forno già caldo a 150° per qualche minuto. Fatto, poni su fuoco dolce un recipiente dal fondo pesante (il recipiente ideale è il polsonetto di rame di adeguata capacità) e tuffaci all’interno il miele, dopo cinque minuti, lo zucchero in una versione più moderna è contemplata l’aggiunta di una cucchiaiata di limoncello) e quando cominciano a caramellare, unisci poche alla volta le mandorle (otre alle mandorle in diverse regioni utilizzano le nocciole, il sesamo, le arachidi, i pistacchi e pinoli), mescola il tutto in continuazione con un mestolo di legno dal manico lungo, fino a quando il tutto si sarà ben amalgamato, prestando parecchia attenzione per evitare di bruciarti e quando il composto sarà diventato di un bel colore dorato, rovescia l’impasto sul piano di marmo che avevi inumidito con il succo dei cedri. Arrivati a questo punto, allargalo comprimendolo con l’aiuto dei due mezzi cedri o un matterello dello spessore di un centimetro circa, subito dopo taglialo a rombi velocemente con un coltello a lama pesante, in modo da evitare che il caramello si solidifichi. Terminata questa operazione, a piacere decora il - gattòu - con dei confettini colorati - tragera - tragea - dragea - oppure con i classici disegni utilizzati nell’arte pasticcera sarda con della ghiaccia a base di zucchero al velo, albume d’uovo e liquore.

Vino consigliato: Malvasia di Settimo San Pietro dolce, dal sapore alcolico con retrogusto di mandorle tostate.

 

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