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Presentato a Pavia il romanzo storico “La grammatica di Febrés”

 Nel pomeriggio di sabato 16 novembre, nella sede sociale, il Circolo culturale sardo “Logudoro” di Pavia ha presentato il romanzo di Nicolò Migheli “La grammatica di Febrés” (Arkadia edizioni).

Come in ogni romanzo storico i riferimenti di fiction, di invenzione creativa, sono frammisti ad avvenimenti e personaggi reali, nel caso specifico relativi al Settecento.

 

Il libro è anche un avvincente “romanzo giallo”, ma, come ha confermato l’autore alla fine dell’incontro, così come avvenuto in Sardegna nel corso delle varie presentazioni, anche a Pavia relatori ed uditori si sono concentrati non sulla struttura dell’intreccio (che ben favorisce – questo lo riconoscono tutti – una lettura, per quanto possibile, tutta d’un fiato) sulle questioni “intriganti” che oggi pone l’uso della lingua sarda.

D’altra parte il protagonista del romanzo è Andrés Febrés (Manresa 1734 – Cagliari 1790), gesuita catalano, missionario, linguista, autore di una grammatica della lingua mapuche (la lingua parlata dagli amerindi che tuttora vivono tra il Cile e l’Argentina), costretto a operare fra Perù e Cile in un periodo in cui per la Compagnia di Gesù «tirava una brutta aria».

Dopo essersi rifugiato per qualche periodo a Imola e a Roma, approda in Sardegna, vivendo, sotto il falso nome di Bonifacio d’Olmi, da ricercato – soprattutto a causa dei suoi scritti critici contro il papa e il re di Spagna – : nell’isola, ci dice la scheda editoriale, «si cimenterà nella stesura di una grammatica della lingua sarda e entrerà in contatto con i circoli illuministici locali, tenendo sempre una distanza da idee radicali e anticristiane».

Il discorso a Pavia è stato introdotto dalla presidente del “Logudoro” Paola Pisano, nata a Gonnosfanadiga, laureata in Lettere, con alle spalle un impiego nella pubblica amministrazione, appassionata di storia locale ma anche elaboratrice di un progetto, “Contus de nonna mia”, che intende far raccontare in sardo dalle donne del circolo, ma anche dalle sarde non iscritte, le storie, i racconti, le espressioni, i motti, le imprecazioni che l’immaginazione popolare, molto ricca e fiorita in Sardegna, ha costruito su personaggi o eventi storici particolari.

Il coordinatore dell’incontro Lucio Casali (già Professore Ordinario di Malattie dell’Apparato Respiratorio presso l’Università di Perugia), che fa parte del Consiglio direttivo del “Logudoro”, è innamorato della Sardegna (per alcuni anni ha svolto la sua attività professionale a Nuoro), dove ha casa, tanti amici e tante relazioni e quindi una miniera di aneddoti da raccontare. Ha riconosciuto che l’intermediazione di una collaboratrice “indigena” che poteva riferire in limba ai pazienti le informazioni da lui date in italiano, gli è stata di grande aiuto. Casali, amante del sardo ma anche del dialetto pavese, ha citato un recente editoriale scritto in sardo proprio da Migheli per inquadrare la distribuzione territoriale delle varianti della lingua sarda.  

Insomma, come si intuisce, un vero e proprio invito a nozze per Migheli che ha esordito ricordando la distinzione formulata da Noam Chomsky tra dialetto e lingua: quest’ ultima è tale perché ha alle spalle una flotta e un esercito, quindi uno Stato.

Fino al primo decennio del 1400, la Sardegna, infeudata da Bonifacio VIII nel 1297 alla Corona di Aragona, era indipendente: Martino il Giovane, l’ultimo re catalano aragonese che sconfisse l’esercito giudicale sardo nella battaglia di Sanluri (30 giugno 1409), è morto in terra sarda di malaria il 4 luglio 1409, venticinque giorni dopo la battaglia (nella cattedrale di Cagliari si trova il mausoleo in suo onore) e per i catalani fu l’inizio della fine all’interno della Corona d’Aragona.

Il sardo aveva dignità di lingua: in sardo, in modo che tutti potessero capirla appieno,

è scritta la “Carta de logu” di Eleonora d’Arborea datata fine del XIV secolo (caratterizzata da molte norme in difesa delle donne), e rimasta in vigore fino a quando venne sostituita dal Codice feliciano nel 1827.

Secondo Migheli, c’è molta demonizzazione sul periodo della Sardegna spagnola, molto è dovuto agli storici italiani dell’Ottocento, però come scrisse Benedetto Croce: «Sotto gli spagnoli stava male anche la Spagna».

Certo, nell’età spagnola gli spazi del sardo nel campo della normativa si ridussero notevolmente, ma il sardo come lingua si è perso veramente con i regi biglietti di Bogino nel 1760, quando l’italiano venne imposto nelle scuole e nell’amministrazione pubblica. Nel Settecento l’imposizione dell’italiano fu anche necessitata dal bisogno che avevano i piemontesi di rompere il rapporto culturale con la Spagna. Il sardo veniva indentificato come lingua troppo vicina a quelle iberiche.

Parallelamente, in Spagna, il problema delle lingue nasce con l’arrivo dei Borboni e con i Decreti di Nueva Planta (1707-1716) che abolirono la Corona di Aragona e il catalano nei documenti e nella scuola: conseguenze furono l’abolizione delle autonomie locali e l’imposizione della lingua castigliana nell’uso ufficiale dello Stato.

In Italia, sicuramente, il colpo di grazia al sardo come lingua è stato assestato dal fascismo e poi dalla televisione.

Storicamente, per collegarsi alla grammatica di Febrés – di cui è rimasto solo l’indice –, è stato Matteo Madao (Ozieri, 1733 – Cagliari, 1800) il primo che ha scritto una grammatica del sardo: nel 1782 pubblicò uno studio scientifico sulla lingua sarda dal titolo “Il ripulimento della lingua sarda lavorato sopra la sua analogia colle due matrici lingue la greca e la latina”.

Pragmaticamente, secondo Migheli, l’unica possibilità reale di sopravvivenza del sardo come lingua è il suo insegnamento e uso nelle scuole. Una tematica che ha appassionato a Pavia anche i cultori delle varianti dialettali locali.

Ha già testimoniato a questo proposito Migheli: «I piccoli miracoli di padre Febrés. Nel Circolo “Logudoro” di Pavia la presentazione de “La grammatica di Febrés” ha dato luogo a una ricca discussione sulle difficoltà che incontrano le lingue locali. I pavesi presenti hanno raccontato di come il loro dialetto sia stato inibito dalla scuola, dai ceti istruiti, dalla modernità. Un fenomeno identico al sardo che pure ha dignità di lingua. L’imposizione dell’italiano standard vissuta come “civiltà” mentre la parlata locale viene relegata alla vergogna e alla povertà».

Paolo Pulina

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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