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“L'ISOLA IN CUCINA” di Roberto Loddi de Santu ‘Engiu Murriabi – Ricette Febbraio 2020

 Su pani pintau o de coia de Santu Valentinu

Le origini di San Valentino risalgono a tempi molto antichi. Nacque a Interamma Nahars (nome latino dell’antica Terni del quale è il Santo patrono) nel 176 d.C. e morì da eroe a Roma nel 273. È noto che nella Roma imperiale, il 15 Febbraio si festeggiavano i Lupercalia in onore del dio Lupercus protettore delle messi e del bestiame. Si narra che alla vigilia di questa festa, era consuetudine che le ragazze in cerca di marito ponessero dentro ad un orcio un frammento di terracotta con impresso il loro nome, che poi venivano estratti a turno dai maschietti pretendenti. Questi, avrebbero fatto coppia durante tutto il tempo dei Lupercalia (festività romana che si commemorava nei giorni sventurati di febbraio, meglio definito come mese purificatorio), ballando e cantando il famoso inno "Lupercali fragilis".

Le coppie spesso si innamoravano e poi si sposavano. Nel 496 d.C. Papa Gelasio (Consacrato il 1° marzo 492), rimosse questa festa pagana dedicata al dio della fertilità Luperco, che si onorava il 15 febbraio e si manifestava in disaccordo assoluto con i principi della chiesa, sostituendola con quella di san Valentino vescovo, martirizzato dall'imperatore Claudio II il Gotico, in quanto univa in matrimonio giovani coppie alle quali l'imperatore aveva confutato il consenso (un'altra storia descrive però che a giustiziarlo sia stato l’imperatore Aureliano, succeduto a Claudio II).

Durante la prigionia sembra che Valentino si innamorò della figlia cieca del suo carceriere e con la forza del suo amore riuscì a donarle la vista. Prima della sua esecuzione, le scrisse un ultima lettera, firmandola “dal tuo Valentino", frase che è arrivata fino ai nostri giorni. Nonostante siano passati tanti secoli, questa festa ha sempre mantenuto il significato di celebrare il vero amore. San Valentino viene ricordato come il protettore degli innamorati e protettore degli epilettici, infatti il titolo di patrono gli fu attribuito nel Medioevo, poiché si riteneva che il 14 febbraio, giorno della sua festa, gli uccelli iniziassero a costruirsi il nido seguendo il risveglio della natura e dunque dell'amore.

A lui sono legate molte leggende che raccontano delle sue gesta. Una di queste narra di un giovane centurione romano di nome Sabino che, passeggiando per una piazza di Terni, vide una bella ragazza di nome Serapia e se ne innamorò follemente. Sabino chiese ai genitori di Serapia di poterla sposare, ma ricevette un secco rifiuto in quanto lui era pagano, mentre la famiglia della ragazza era di religione cristiana. Per superare questo ostacolo, la bella Serapia suggerì al suo amato di andare dal loro vescovo Valentino per avvicinarsi alla religione del suo casato e ricevere il battesimo, cosa che esso fece in nome del suo amore. Purtroppo, proprio mentre si preparavano i festeggiamenti per il battesimo di Sabino e per le prossime nozze, Serapia si ammalò gravemente di tisi. Valentino fu chiamato al capezzale della giovane donna oramai moribonda. Allorché, Sabino supplicò il Vescovo Valentino affinché non fosse separato dalla sua amata, perché la vita senza di lei sarebbe stata solo una lunga sofferenza. A quel punto, Valentino battezzò il giovane, ed unì i due innamorati in matrimonio e mentre che levava le mani in alto per la benedizione, un sonno beatificante avvolse quei due cuori, in tal modo da tenerli uniti per l'eternità.

Anche in Sardegna si parla di San Valentino e più precisamente se ne parla a Sadali - Sàdili - in provincia di Cagliari, in quanto è il Santo Patrono del luogo e si festeggia non nel mese di febbraio ma in quello di ottobre. Narra un’antica saga che un poveretto di Nurallao (paese in provincia di Cagliari) di professione girovago, era solito vagabondare da un paese all’altro, portando sempre con se una scultura che ritraeva San Valentino. Il caso volle che un giorno, mentre si dirigeva a Sadali (oggi in provincia di Cagliari, in passato era in provincia di Nuoro), stanco, accaldato e assetato fece una sosta nei pressi delle cascate e una volta dissetatosi, attratto dal forte profumo della macchia mediterranea, decise di fare pure un riposino. Svegliatosi, pronto per riprendere il cammino, fece il gesto di riprendersi la statuina, ma lo stupore fu immenso quando cercò di prenderla, perché  non riuscì a staccarla dalla roccia dove l’aveva posata. Così da quel momento il simulacro è custodito nella chiesa che i sadalesi innalzarono per venerare il Santo.

La festa di San Valentino è sempre stata sentita dai sadalesi, tanto che era usanza delle donne del paese, qualche giorno prima della ricorrenza, dedicarsi alle pulizie generali delle proprie abitazioni, in modo tale da poter ricevere con tutti gli onori gli ospiti durante i festeggiamenti. Inutile dire che per l’occasione si arrostivano carni, si cuoceva il pane - pane pintau o pane e coia - il pane bianco per i matrimoni - su moddizosu - pane soffice e si preparava ogni sorta di dolci, il tutto all’insegna della celebrazione. Sempre durante i festeggiamenti, la Confraternita guidava la processione condotta dal priore e le prioresse, di seguito il Santo portato in spalla, il parroco della chiesa con i chierichetti ed infine i fedeli. Terminato il giro del paese chiudeva la manifestazione la Santa Messa, dopodiché, proseguiva la baldoria cantando e ballando - su ballu sardu - il ballo sardo. Oggi, ancora come allora, si festeggia la ricorrenza, anche grazie all’impegno  del comitato organizzatore, dei vari Enti, le Associazioni promozionali e la Pro loco che ogni anno propongono nel mese di ottobre una sagra dedicata a San Valentino, Patrono di Sadali.    

Ingredientis:

kg 1,2 di fior di farina di gran  sardo, g 18 di lievito di birra, g 25 di zucchero comune, g 420 di acqua di fonte o acqua minerale naturale, g 18 di sale marino.

Approntadura:

a vantaggio della praticità casalinga, per la panificazione con il lievito di birra, bisogna procedere nel seguente modo: la sera prima, stempera g 8 di lievito dentro a un recipiente di terracotta assieme a mezzo bicchiere d’acqua tiepida e metà zucchero, poi unisci g 200 di farina - scèti - e mescola la miscela fino a quando il tutto si sarà amalgamato. Fatto, copri la ciotola con una pellicola e ponila a lievitare dentro al forno spento con la sola luce accesa per tutta la notte. Il giorno dopo, setaccia la  restante farina con il sale sul ripiano della madia, quindi forma una fontana, unisci il composto lievitato e la restante acqua a temperatura ambiente (la quantità d’acqua può variare da farina a farina), nella quale avrai sciolto il restante lievitò con l’altra metà di zucchero e lavora a lungo il tutto energicamente (ci vuole molto olio di gomito, altrimenti non si chiamerebbe pane di pasta dura), volendo accelerare i tempi, puoi utilizzare la macchinetta per tirare la pasta, impiegando  l’ingranaggio dei rulli più largo, in questo modo la farina si assorbirà omogeneamente e risulterà liscia e malleabile.  In  quest’ultimo caso, sovrapponi due strisce di pasta, poi avvolgile e forma dei rotoli che taglierai a pezzi di tuo piacimento. Scelta la misura, con l’aiuto di un matterello appiattiscili nuovamente e riavvolgili nel senso contrario, questa operazione va ripetuta diverse volte in modo tale da dare alla massa l’elasticità necessaria. Acquisito il risultato desiderato, modella il pane nelle forme che preferisci e con l’aiuto di pinzette e rotelle dentate - serettas - di forbicine, delle mani e una lama tagliente, inizia a pizzicare e incidere la pasta e con i ritagli, forma delle piccole rose con le foglie, realizzando così delle piccole decorazioni floreali, che incollerai alla base inumidita della composizione. Non appena avrai terminato le tue opere d’arte, ponile a lievitare un’altra volta dentro al forno spento, sempre con la luce accesa almeno sei ore. Trascorso questo tempo, togli il pane dal forno e sistemalo in luogo tiepido e privo di correnti d’aria, poi accendi il forno e portalo a 200°, dopodiché spruzza l’interno con dell’acqua tiepida (questo accorgimento permetterà la giusta umidità in cottura e allo stesso tempo renderà il pane più lucido), di seguito accomodaci il pane, avendo l’accortezza di cuocere per circa venti-venticinque minuti i formati più piccoli e poco più di mezz’ora quelli più grandi. Una volta cotto, lascia - su pani pintau o de coia de Santu Valentinu - pane decorato di San Valentino dentro al forno aperto per due minuti, quindi sformalo, disponilo su una gratella e una volta raffreddato posizionalo dentro a una corbula - crobi manna -, nella quale alla base avrai posto un telo bianco di pizzo.

L’abbinamento pane e vino non è azzardato, perché c’è sempre stato sin da tempi antichi e con il coccoi si abbina perfettamente un vino bianco come il Nuragus di Cagliari frizzante, dal sapore sapido, armonico, leggermente acidulo, gradevole e  asciutto.

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Tzippulas santuingesas de Carrasciari

Tanti sono i nomi usati per identificare le frittelle di Carnevale in Sardegna, per citare le più comuni: - zippuasa - zippuas - tzippulas - tzippullas - zipulas - cattas - frijoli -frisjoli o frisjoli longhi - che si differenziano dalle altre per il fatto che vengono preparate con l’ausilio dell’imbuto, formando così una sorta di spirale, che ricorda i “Churros” dei coloniali Iberici o per stare in tema isolano, la salsiccia arrotolata arrosto e altri ancora sono i nomi adoperati per identificarle. Cambiano i nomi e a seconda del paese varia qualche ingredienti ma, alla fine il prodotto non cambia, e… la loro fragranza è indiscutibile. Per parlare di frittelle (che erano di forma tondeggiante e potevano essere sia dolci che salate), bisogna tornare indietro nel tempo, difatti Il rustico Marco Porcio Catone nel suo “De agri cultura” parla di frittelle, amalgamando farina con formaggio fresco di pecora e “spelta” (Triticum spelta - farro grande o farro spelta tipo di cereale reperibile tutt’ora), bisavola qualità del grano. Tanto è vero che dappresso i Greci e subito dopo i Romani, in seguito alla conquista dell’Ellade  (regione della Tessaglia meridionale), erano in uso le stesse tradizioni alimentari, come per l’appunto il formaggio con il miele, l’abbinamento che da sempre viene adoperato in Sardegna, vedi - sas sebadas -. Le frittelle, le cita pure Marco Gavio Apicio, maestro culinario dell’Urbe, ponderato per la sua competenza, il più grande esperto di arte culinaria dell’antichità. Nel suo trattato di cucina ” De re coquinaria”, descrive la ricetta dei “Sala Cattabia - Riffreddi” piatti freddi, una sorta di antipasto a base di mollica di pane ammollata con acqua e aceto, poi mescolata a del formaggio, insaporita unitamente a dell’aglio, semi di coriandolo, menta e del pepe pestato. Poi con le mani unte si modellavano dei bocconi appiattiti, dando forma così alle frittelle, pronte per essere consumate. Sempre nell’antica Roma, le frittelle erano conosciute con il nome di “Frictilia” e la loro diffusione in breve tempo si estese nell’area mediterranea da loro conquistata. Durante il Medioevo, si preparavano le “Frittelle da imperatore” a base di formaggio di pecora fresco, albumi d’uovo, pinoli, farina, strutto e miele o cristalli di zucchero frantumati. Queste  frittelle, per via del colore dorato assunto in frittura, facevano ricordare le monete coniate dagli imperatori. Col passare del tempo, gli Ispanici perfezionarono le frittelle, variandone gli impasti con l’aggiunta di altri ingredienti tipo la scorza d’arancia, la sugna e le divulgarono in ogni dove andassero. Nel Sedicesimo Secolo, le frittelle presero una forma schiacciata e bitorzoluta preparate con farina, latte, uova, uvetta passa, canditi, pinoli e lievito per farle diventare gonfie in frittura e una volta scolate, ricoperte in abbondanza di zucchero o miele. Di continuo, furono i veneziani a preparare le prime frittelle durante il periodo di Carnevale ed erano quelle create da Bartolomeo Scappi all’epoca capocuoco al servizio di Papa Pio V, nonché personaggio reso famoso per avere scritto il trattato di cucina “Opera”. Da li al Settecento, il passo fu breve, le frittelle, anche grazie al contributo della Confraternita dei “Fritolieri”, veneziani si trasformarono notoriamente in simbolo della Repubblica Serenissima. Anche in Sardegna, la tradizione, vecchia come il tempo, vuole che le frittelle - zippuasa -, vengano preparate nel periodo di Carnevale - Carrasciari - e ogni paese ha la sua ricetta. Infatti in tale periodo, per le vie del paese è facile trovare le finestre delle abitazioni spalancate a causa dell’odore originato dal fritto, facendo fuoriuscire dei profumi di dolci davvero invitanti. Tanto per stare nella storia, a Luras, comune in provincia di Olbia - Tempio, era usanza donare i fragranti dolci  esposti sui davanzali delle finestre aperte, a tutti coloro che richiedevano l’obolo, ma solo le donne più anziane e competenti potevano concederli ed è così in parecchi paesi dell’Isola. Sta di fatto che proprio in uno di questi, secondo una arcaica leggenda,  si descrive che il penultimo giovedì  - giòbia - iovia - Jobia - dijous - prima dell'inizio della Quaresima, due pettegole - gommais - sas sant’uannis - pidancionas - scoviadoras - del vicinato, mentre sparlavano dell’uno e dell’altra, decisero di cucinare le frittelle, di friggerle assieme e smaniose di raccontarsi altre indiscrezioni - (troddius - pidus - is pidus - o meglio, - is pidus de sennora - che sono anche delle frittelline carnevalesche di forma rotonda vuote, dette - nues prena de bentu - nuvole piene di vento), del paese, non si erano accorte che avevano approntato una dose eccessiva di dolci e tra una chiacchiera… (scusate la digressione.. doppio senso che capita a proposito) si fa per dire e l’altra, stanche per la fatica si addormentarono, lasciando i vassoi delle frittelle sul davanzale della finestra, tenuta aperta per fare uscire il forte odore causato dall’olio utilizzato per la frittura. I giovincelli del rione che ci passavano davanti, vedendo tutto questo ben di dio e credendo (in buona fede…. s’intende) fossero state messe li apposta per servirsene (visto il periodo di baraonda), fecero man bassa  saziandosi a crepapelle. Le incaute donne, al loro risveglio non trovando più nemmeno una briciola - de zippuasa -, decisero che non avrebbero mai più preparato le frittelle insieme ma, ognuna a casa propria, in modo da non rimanere poi senza il giorno di Giovedì Grasso e così l’anno dopo, la festa venne chiamata - sa giobia de is gommais - il giovedì delle comari. Bella come storia vero? Vero, e come in tutte le belle storie, ognuna ha il suo lieto fine. Ogni anno in parecchi paesi dell’Isola, Associazioni preposte e Pro Loco organizzano sagre, feste con sfilate di carri allegorici, spettacoli folcloristici, ballo sardo e - mutetus cun trallallerus - canti e  improvvisazioni tipici in dialetto dei poeti sardi. E … dulcis in fundo, distribuzione gratuita - de zippuasa - tradizionali con vino nuovo a volontà. Insomma che dire… tutto avviene all’insegna dell’allegria, no!, no!, non è uno scherzo, tutto vero, anche se… a Carnevale ogni scherzo vale. 

Ingredientis:

g 500 di farina 0, g 200 di patate, 2 uova, 1 limone giallo e 1 arancia non trattati più il succo filtrato di 2 arance, g 15 di lievito di birra freschissimo, 1 cucchiaio di acqua fiori d’arancio, 1 bicchierino di Filu e ferru oppure villacidro, 1 bicchiere di latte fresco intero,  zafferano San Gavino, zucchero comune, olio per friggere, sale q.b.

Approntadura:

innanzi tutto, fai lessare le patate, poi pelale e passale allo schiacciapatate e versa il ricavato dentro a una conca - sciveddaxivedda - (prima bagnata con l’acqua bollente delle patate e subito dopo scolata) insieme alla metà della farina, lo zafferano -   tzaffanau - stemperato in poco latte, le uova sgusciate (c’è chi unisce prima i tuorli e in un secondo  momento gli albumi montati a neve ferma), le scorze grattugiate del limone e un arancio, quindi spremi tutti gli agrumi e il succo ottenuto filtralo e tienilo da parte. Unisci anche  una presa di sale, la grappa o il villacidro (se lo preferisci entrambi), l’acqua fiori d’arancio e il lievito di birra precedentemente fatto stemperare nel resto del latte tiepido assieme a un cucchiaino di zucchero. Ciò fatto, impasta accuratamente tutti gli ingredienti lavorandoli e sbattendo il composto con energia sul fondo della conca -scivedda - xivedda - per parecchio tempo; attingendo con le mani del succo d’agrumi, quello tenuto da parte fino a quando lo avrai incorporato tutto ed avrai raggiunto una massa consistente, elastica ed appiccicosa. Solo allora, avvolgi il recipiente con della pellicola per alimenti e di conseguenza poni a lievitare l’amalgama dentro al forno spento con la sola luce accesa almeno per tre ore. Trascorso questo tempo trasferisci l’impasto su un piano di lavoro leggermente infarinato e, poco alla volta con le mani unte d’olio, incorpora la restante farina lavorando il tutto energicamente (la pasta deve scoppiettare). Completata questa operazione, rimetti l’impasto nella conca e copri nuovamente il recipiente, sempre con la pellicola alimentare,  quindi lascialo lievitare un'altra volta, sempre dentro al forno spento con la luce accesa per un ora. Appena il periodo richiesto  sarà terminato, preleva piccoli pezzi di pasta con la punta delle dita unte con una miscela preparata con una parte di villacidro, una di succo d’arancia e una di olio e con l’aiuto dell’altra mano anch’essa unta, fai un buco al centro dando così la forma di una ciambella e man mano  che le prepari, poche alla volta, tuffale in abbonante olio bollente, allorché allarga il buco delle frittelle con l’aiuto di un ferretto o il manico di un mestolo di legno facendole roteare. Quando risulteranno belle gonfie e dorate, scolale su dei fogli di carta assorbente da cucina a perdere l’unto in eccesso. Cospargile di abbondante zucchero prima di servirle. Ma, sono buone anche a temperatura ambiente il giorno dopo… sempre che ne siano rimaste.

Vino consigliato: Moscato di Sardegna, dal sapore delicato, fruttato, tipico e dolce.

 

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