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La peste nera nella Sardegna di Mariano IV

 Un aspetto particolare, cui ho riflettuto in questo periodo di quarantena e di Covid-19, è su come si sarebbe potuta festeggiare la ricorrenza di “Sa Die de Sa Sardigna” in un momento così particolare, legandola, nello specifico, alla nostra storia sociale, culturale ed economica. Ebbene, avendo visto e letto di alcune celebrazioni promosse soprattutto da alcuni circoli sardi, sono rimasto alquanto deluso ed interdetto. Mentre, comunque, dal Consiglio Regionale della Sardegna e dalla voce del presidente Solinas emergevano, chiari e forti, gli inviti ad un senso comunitario ed identitario, come era stato quello del 28 aprile 1794; non così mi sono parse alcune celebrazioni avvenute via web da parte della diaspora sarda, più tese a custodire “su connottu” che a conoscere e perseguire “nuove strade di riflessione identitaria”, partendo, però, dalla storia, dalla nostra storia. E l'occasione c'era, visto che la Sardegna ha vissuto nella storia tanti periodi pestilenziali.

 

Da storico economico, poi, amante della mia terra, l'indagine non poteva non andare a ricordare un momento importante e drammatico della storia isolana: la  famosa peste nera trecentesca e le sue conseguenze sociali, economiche e politiche per la Sardegna di allora. Una terra che, sotto la guida di Mariano IV d'Arborea, e poi di Ugone e di Eleonora,  stava vivendo i suoi più alti aneliti d'indipendenza e di libertà nella lotta di emancipazione dall'influenza catalano-aragonese. Ebbene, quel periodo quasi centenario di conflitto, definito dagli storici la guerra “sardo-catalana” (1324- 1420), era coinciso con lo sbarco nell'isola di un altro “nemico”, non meno pericoloso dei catalani e degli aragonesi: la famigerata peste nera.  Per ricordare questi fatti, ho rielaborato, liberamente, alcuni passi tratti dal bel libro “Vita di Eleonora d'Arborea” della brava scrittrice sassarese Bianca Pitzorno.

Nel palazzo giudicale di Oristano, la famiglia De Serra-Bas aveva conosciuto il morbo già con la morte di madonna Costanza di  Saluzzo, nel 1348, rinchiusasi nel convento di Santa Chiara. E sono emblematiche le parole di Beatrice, sorella di Eleonora, che diverrà viscontessa di Narbona: “Sarebbe meglio che ignorassimo il morbo, facendo in modo che non fosse mai esistito”. Il fisico e medico giudicale arborense, don Ammirato, replica in questo modo ai donnicelli Ugone, Eleonora e Beatrice: “Se voi vi esporrete al contagio, non resterà nessuno in vita! Non avete visto i morti per le strade? Il cimitero nuovo, quello verso S. Giusta non ha più una fossa libera e l'ospedale di S. Lazzaro si riempie ogni giorno di moribondi. In tutta Europa il morbo uccide la gente senza fare distinzioni!” Non finirà mai questo flagello di Dio? E' bellissima, allora, l'invocazione che fa Eleonora, da piccola, al padre Mariano: “Perché nessuno dice al giudice di difendere Oristano da questo morbo? Lui é il principe di questa terra e tutti gli devono obbedire!” Eleonora considerava il padre alla stregua di una vera e propria divinità. Anche qua, la risposta di don Ammirato è “tranchant”: “La morte nera non risparmia nessuno. La spada di vostro padre non può niente contro di lei. Non si tratta di combattere catalani, aragonesi, Doria e Malaspina ribelli! Quando la morte nera é entrata per la prima volta nella vostra casa ed ha portato via il giudice Pietro, fratello di vostro padre, egli non ha potuto difenderlo anche se lo amava”.

Per quanto riguarda la peste nera, essa era comparsa nell'isola, portata da dodici galee genovesi provenienti dalla colonia ligure di Caffa, in Crimea. La Sardegna era uno degli ultimi scali di ritorno, prima di Pisa. Nell'isola, raccontano le cronache, il contagio fu irreversibile, passando di regione in regione. Le più colpite furono le città sul mare. In un anno, dal 1348 al 1349, sull'isola la peste uccise sei vescovi. Nelle terre di Mariano ed in quelle dei baroni vassalli d' Aragona morirono capitani e doganieri, maggiordomi, consoli, cancellieri e notai, gettando nel caos tutto l'apparato burocratico isolano. Pietro IV Il Cerimonioso, il re d'Aragona e l'acerrimo nemico di Mariano IV, chiese al papa Clemente VI di venire dispensato dalle decime e dalle rate che ancora gli doveva per l'infeudazione dell'isola, perché il danaro gli serviva per mandare nuove truppe in Sardegna.

A Cagliari non si estraevano più il sale dalle saline per mancanza di manodopera che lo trasportasse al mercato o agli ammassi regi. A Villa di Chiesa, odierna Iglesias, non si faceva più la vendemmia, né si torchiavano le olive. Bosa, Alghero e Sassari furono colpite fuori e dentro le mura. La Nurra, una volta molto popolosa, diventò un deserto incolto, un pascolo sconfinato per i pastori rimasti, macchia selvaggia e rifugio di lepri.

Anche ad Oristano la situazione diventò drammatica e, poiché le zone montane erano le meno colpite, Mariano si decise di trasferire l'amata Timbora, sua consorte, ed i figli nel Montiferru. Un ambiente ben diverso da quello della capitale arborense dove, per mesi e mesi, avevano dovuto sentire le campane delle chiese suonare  a morto, con le processioni notturne dei Flagellanti, i Fratelli Bianchi o Disciplinati di Gesù, cantando il Dies irae.

E veniamo a quel fatidico anno 1375, di un non meglio precisato giorno, in cui il morbo, prima potente alleato della causa sarda, cambia obbiettivo e si rivolge contro gli alleati di un  tempo. Siamo nell'assedio di Castel di Cagliari operato dai sardo-arborensi e fra le prime vittime, purtroppo, ci sarà proprio lui, Mariano d'Arborea. Quando lo trasportarono nella lettiga sul ponte levatoio di “Porta a mare” ad Oristano e poi, dentro, fino alle sue stanze del palazzo giudicale, Mariano sapeva ormai che era giunta la sua ora. Sapeva, però, di non avere sprecato invano tutto. Aveva allargato i confini del suo Regno a quasi tutta l'isola, mettendo alle strette i catalani e dando ai sardi leggi giuste per garantire una vita pacifica e civile. Si era, poi, creato una fama così grande da varcare il mare, andando anche in soccorso del Santo Sepolcro, grazie ad una importante corrispondenza intrattenuta con Caterina da Siena. Un sogno, il suo, quello di una Sardegna libera ed indipendente, che però, s'infranse, come anche quello della figlia Eleonora, contro il muro invalicabile della peste, la peste nera.

Anche Mariano avrebbe voluto essere come quell'eroico soldato descritto dall'amico poeta di Bitti, Giovanni Villa, nella sua recente e bellissima poesia “A sa terra amata”, composta proprio in occasione de “Sa die de Sa Sardigna 2020”.

“Esser cheglio che s'eroicu sordatu

Pro sa difesa de tottu su ch'asa

Vinas sa luche in die chi ti vasa

Sa notte isteddhada o vinas s'aurora

Pro istarepo chin tecusu ogn'ora

Solamente puramente poesia

Chi suspiret a sa Sardigna mia

S'amore de unu sardu dilliruatu”.

Anzi, Mariano era proprio quell'eroico soldato.

 

Gianraimondo Farina

Dipartimento di Studi Storici e Filologici

Università Cattolica del Sacro Cuore- sede di Brescia

 

 

 

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