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“L'ISOLA IN CUCINA” di Roberto Loddi de Santu ‘Engiu Murriabi – Ricette Giugno 2020

 Cantai su drucci a Santu Anni

Non si dica mai che in Sardegna non avvengano feste con ricorrenze in onore di Santi e sagre a tutela dei prodotti del territorio. Infatti, ogni anno tali manifestazioni sono innumerevoli e riescono sempre a suscitare il consenso e l’interesse dei numerosi partecipanti. In particolare durante il periodo estivo, sono un mezzo efficace e di colore a supporto delle varie manifestazioni promosse per il turismo dalla Regione Sardegna e dagli Enti Locali. Tanto per citare una di queste manifestazioni, a Quartu Sant'Elena, in provincia di Cagliari, ogni anno si rinnova la festa campestre dedicata a - Santu Anni - San Giovanni Battista. 

L’iniziativa è coordinata dalla “Obreira” società - comitato di San Giovanni e ogni anno, puntualmente, si rinnova per opera dell’arcaico rito - de sa mesa - il tavolo, che illustra pubblicamente al popolo il bando e la scelta - De S’Obrieri -, vale a dire la nomina del presidente dell’organizzazione, che   ha l’incombenza di allestire la manifestazione dell’anno successivo. Secondo la tradizione, se nel cerimoniale di - sa mesa, non beni fattu S'Obreri -, in sostanza non viene eletto un nuovo capo, l’elezione si rimanda al ventiquattro giugno, giorno della ricorrenza della nascita di San Giovanni Battista, che viene ricordato e onorato con una messa nella chiesetta campestre di Sant’Andrea, fedele discepolo di San Giovanni. Qualora, se nemmeno in questa occasione l’elezione  ha esito positivo, lo statuto prevede che sia lo stesso presidente dell’anno in carica a programmare la manifestazione dell’anno successivo.

Durante i festeggiamenti, l’usanza vuole che vengano cantati i dolci - cantai su drucci -, per mezzo dei leggendari - mutettus -, genere di canti eseguiti con cori e accompagnati con chitarra, fisarmonica e - launeddas - tipo di flauto a canne di diverse lunghezze,  ricorrenti nelle occasioni di baldoria tra ragazzi nelle gite e negli spuntini - spuntinus - cene o feste tra amici.  Gli onori tributati a - Santu Anni - sono di antica tradizione e le sue origini risalgono ad un culto pagano praticato dai Fenici, nel periodo della loro presenza nell’Isola, in cui sette ragazze vergini venivano sacrificate. Secondo la storia, - S’Obrieru - lorganizzatore della festa, nel mese di marzo seleziona - scioberara - sceberara - isceberara - seberara - sceddara -, sette ragazze che saranno chiamate - traccheras - e successivamente caricate sul carro carru agricolo dalla forma della prora di una barca, preparato per l’occasione con tutti gli ornamenti di rito,  per prendere parte alla celebrazione e trasportare le caste fanciulle promesse a - Santu Anni - San Giovanni. La tradizione vuole che - S’Obrieru -, prelevi le sette fanciulle nelle rispettive case e queste una volta caricate sul carro - sa tracca -, salutino i parenti intonando un – trallalleru -, ritornello di un canto improvvisato chiamato - mutettu -, per poi avviarsi verso la chiesetta campestre di Sant’Andrea, accompagnatati da - is brechis - una lunga carovana di carrozze e carri trainati da cavalli. Conclude la processione il barroccio, il carro che trasporta i dolci: - gatòs – gattòs - tzaccarrosu - tostàu - croccante di mandorle caramellate e - pirichittus de bentu - “periquillos” dallo spagnolo, che sono dolcetti leggeri, vuoti dentro a base di farina, uova, strutto - ozzu polchinu -, zucchero e successivamente glassati – incappaus -, ricevuti in dono dalle maestre pasticcere. Le donne che hanno preparato questi dolci con passione, cura e devozione, durante la manifestazione li offrono a tutti i presenti accompagnati con del buon vino moscato locale - muscau - muscadeddu de domu - o malvasia - mallavasia - marvasia - dolce di Settimo San Pietro

Ingredientis:

kg 1,3 di mandorle sarde già sgusciate, g 800 di miele d’agrumi di Montevecchio, g 500 di zucchero comune, 2 cedri maturi non trattati, confettini colorati, zucchero al velo, albume d’uovo, limoncello o un altro liquore di tuo gusto q.b.

Approntadura:

cospargi un piano di lavoro in marmo con il succo dei cedri filtrato, poi passa le mandorle per un minuto in acqua bollente, quindi scolale, asciugale e tagliale a filetti (se lo preferisci, lasciale intere e non farle nemmeno sbollentare). Deciso la scelta, falle tostare dentro a una teglia foderata con un foglio di carta oleata in forno già caldo a 150° per qualche minuto. Fatto, poni su fuoco dolce un recipiente dal fondo pesante (il recipiente ideale è il polsonetto di rame) e tuffaci all’interno il miele, dopo cinque minuti, lo zucchero, una cucchiaiata di liquore e, quando cominciano a caramellare, unisci poche alla volta le mandorle, mescola il tutto in continuazione con un mestolo di legno dal manico lungo, fino a quando il tutto si sarà ben amalgamato, prestando parecchia attenzione per evitare di bruciarti. Non appena il composto sarà diventato di un bel colore dorato, rovescia l’impasto sul piano di marmo che avevi inumidito con il succo degli agrumi, allorché allargalo comprimendolo con l’aiuto di due mezzi cedri o un matterello dello spessore di un centimetro circa, subito dopo taglialo a rombi velocemente con un coltello a lama pesante, in modo da evitare che il caramello si solidifichi. Terminata questa delicata operazione, a piacere decora - su gatò – gattou - con dei confettini colorati - tragera - tragea – dragea -, oppure con i classici disegni utilizzati nell’arte pasticcera sarda, con della ghiaccia a base di zucchero al velo, albume d’uovo e liquore.

Vino consigliato: Malvasia dolce di Settimo San Pietro, dal sapore alcolico con retrogusto di mandorle tostate.

 

***

Su àmbulau campidanesu

La cucina sarda affonda le proprie radici sin dai tempi della preistoria a quella nuragica, lasciando all’Isola un patrimonio gastronomico incredibile, anche se per esperti del settore pare sia una cucina dimessa e poco rinomata. Forse sconosciuta lo è anche agli stessi sardi, non a caso quando si parla di ricette si è soliti elencare le più classiche, cioè quelle che si cucinano nel quotidiano e si ripropongono  durante tutto il periodo vacanziero: l’immancabile maialetto allo spiedo, l’agnello nelle più caratteristiche preparazioni, - is malloreddus - is culurgionis - nei più svariati  nomi locali, - sos sebadas - e altre ancora ma, così non è. La Sardegna, vanta un repertorio culinario talmente ampio che sembra persino impossibile poterlo descrivere tutto, ricette dai profumi e dai sapori antichi, che da millenni vanno a braccetto con la storia e con la cultura. Sarebbe bello e interessante, intraprendere tutti insieme un viaggio alla scoperta delle vie enogastronomiche di quella cucina antica, semplice ma raffinata, ancora a molti sconosciuta e trasmetterla in forma oggettiva e chiara a tutto il mondo intero.

Come è sempre bello, poter trasmettere alla gente gli usi, i costumi, le tradizioni, l’operosità delle persone e, l’ospitalità e la riservatezza degli isolani che risulta essere un’icona indelebile da sempre. In Sardegna e per la precisione nell’area del Medio Campidano e nel Sulcis Iglesiente, si prepara un piatto dalle origini molto antiche, tanto da farle risalire al periodo della preistoria, si tratta di - su ambulau - s’àmbulau de farri – o - suppa de farre -, un piatto a base di  brodo di manzo, semola d’orzo (il cereale più antico della storia), cipolla selvatica - cibudda aresta - chipudda agreste -, grasso di bue che ha il potere di conferire alla pietanza un sapore delicato, erbe aromatiche e aceto di vino. - S’ambulau - è una minestra caratteristica, particolarmente saporita e in più occasioni viene consumata come pasto unico. Questo piatto tipico è una preparazione simile alla polenta (dal latino puls) che viene però preparata solo con la semola d’orzo macinata  a pietra, al posto della più comune  farina gialla. Non a caso Catóne, Marco Porcio, detto il Censore (lat. M. Porcius Cato, detto anche Censorius, Priscus, Superior o Maior per distinguerlo dall'Uticense), - uomo politico (234-149 a. C.) dell'antica Roma; nel suo trattato “De Agricoltura”, unico scritto dell’autore arrivato fino a noi, parla di puls punica e nel 198 fu anche pretore in Sardegna, dove ebbe modo di risanare tutti i “male fatti” procurati dai suoi predecessori. Comunque sia, l’orzo “Hordeum vulgare o Hordeum sativum”, appartiene alla famiglia delle Graminacee e nell’evolversi dei vari passaggi della storia ha sempre avuto rilevanza importante nell’alimentazione. Basti pensare che le prime coltivazioni risalgono al 7000 a.C. e durante degli scavi archeologici effettuati nella regione siriana di Tel Mureybat, sono stati riportati alla luce chicchi d’orzo risalenti all’8000 a.C. ma, ritrovamenti dello stesso aspetto sono stati rinvenuti anche in altre aree dell’Asia Minore, della Palestina e della Mesopotamia. Mentre le prime tracce sulla coltivazione del cereale, risalgono al 2800 a.C. e dai ritrovamenti di alcune ceramiche della dinastia “Hsia”  (è la prima dinastia descritta nelle cronache cinesi), risalenti al 1500 a.C. circa le quali raffiguravano dei chicchi d’orzo che piovevano dal cielo dentro a una scodella, tanto che nell’immaginario degli agricoltori cinesi, vedevano il cereale come emblema della potenza maschile.  

Ingredientis:

g 350 di farina di semola d’orzo, g 150 di midollo di bue, un mazzetto di erba cipollina selvatica - cibudda aresta - chipudda agreste -, 1 cipollotto - cibuddittu -, brodo di manzo, aceto di ottimo vino bianco, un mazzetto di timo sardo - armiddha -, zafferano San Gavino - tzaffanau Santu ‘Emgiu -, pecorino grattugiato, pane raffermo tipo - civraxiu - di Sanluri, 2 spicchi di aglio,  rosmarino, sale e pepe di mulinello q.b.

Approntadura:

monda, pulisci, lava accuratamente l’erba selvatica che deve essere fresca di taglio, possibilmente raccolta nella mattinata, poi pulisci anche il cipollotto, tenendo il suo  verde e trita il tutto finemente. Fatto, versa il   soffritto  dentro a un capace recipiente di terracotta dalle pareti alte olla assieme a un giro d’olio, il midollo e fai rosolare il battuto con due cucchiai d’aceto. Evaporato, versa cinque mestolate di brodo e portalo ad ebollizione. Solo allora, unisci pian piano a pioggia la semola d’orzo e prosegui la cottura dolcemente per venti minuti circa, sempre mescolando con una frusta o un cucchiaio di legno per evitare la formazione di grumi. Una volta che la polenta si sarà inspessita, aggiungi il restante aceto, la metà del timo tritato che hai in dotazione, mezzo cucchiaino di sale, una generosa macinata di pepe, una bustina di zafferano stemperata in un  mestolino di brodo  bollente, quindi amalgama insieme tutti gli ingredienti e prosegui la cottura per una mezz’oretta a fuoco lento, mescolando la minestra di tanto in tanto e qual’ora tendesse ad addensarsi troppo, aggiungi dell’altro brodo bollente (tieni presente che la giusta densità è  quella di una polenta morbida da mangiare col cucchiaio). Passato il tempo richiesto, scodella - su ambulau - bollente dentro a delle terrine di coccio assieme a delle fette di pane - civraxiu - sanlurese, abbrustolite e strofinate leggermente con l’aglio. Prima di portare in tavola, completa la minestra con una nevicata di formaggio (facoltativo), un ulteriore macinata di pepe, un filo d’olio, un ciuffo di rosmarino e il timo tenuto da parte.

Vino consigliato: Monica di Sardegna frizzante, dal sapore sapido, con tipico retrogusto asciutto.

 

 

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