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“L'ISOLA IN CUCINA” di Roberto Loddi de Santu ‘Engiu Murriabi - Ricette Agosto 2020

 Sas lorighittas de Mragaxiori cun bagna de caboniscu

Sas lorighittas da loriga -, che in dialetto sardo significa orecchino - anello, ma anche anello inteso come quello fissato sui muri delle stalle ai quali legavano i tori o, l’anello posto al naso degli stessi (questo accorgimento serviva per averne il controllo). Si tratta di una qualità di pasta unicamente confezionata a mano. Infatti, mani esperte, esclusivamente femminili le preparano utilizzando ingredienti del territorio come la farina di semola di grano duro sardo, acqua di fonte e sale.

 

La loro forma si ottiene manualmente, attorcigliando due fili di pasta tirati a mano, lunghi circa venti, venticinque centimetri e grossi quanto lo sono gli spaghetti, si avvolgono attorno a tre dita (indice – medio – anulare, ma c’è  chi le prepara soltanto con l’indice e il medio), facendo due giri e si attorcigliano facendo roteare la pasta tra i pollici e gli indici, sfregandoli come quando si fa il gesto di chiedere dei soldi, così facendo i fili di pasta si attorcigliano ottenendo una forma di treccina - lorigas -appunto.

Questa antica tradizione che richiede una particolare manualità nella realizzazione, pone in risalto la cucina di un tempo, sempre espressa con la semplicità delle nostre genti, ricca di ricette non banali, lasciate in eredità e serbate meticolosamente di generazione in generazione. Le - lorighittas - fanno parte di questo patrimonio sopravvissuto. Il tipico formato di pasta prodotto esclusivamente a Morgongiori - Mragaxiori  - in provincia di Oristano, sito alla base della parete sud del Monte Arci ed è immerso in mezzo ad una estesa selva di prosperosa macchia mediterranea. Il paese è rinomato pure come “città delle pietre”, questo perché cinto da primitivi costoni rocciosi, modellati dalla forza possente del vento, che da sempre soffia sull’Isola,  nel luogo in cui si innalza una incantevole figura maestosa, chiamata “Testa del guerriero”.

Per Morgongiori, le - lorighittas -, esprimono le caratteristiche del prodotto e l’identità esclusiva del posto, attraverso narrazioni,  tradizioni, gestualità e mettendo insieme tutti questi pregi, ne scaturisce un amalgama di emozioni che solo le donne del luogo ancora oggi riescono a trasmettere.

Una leggenda racconta che una ragazza innamorata e non ricambiata, aveva creato le prime - lorighittas - per sedurre l’uomo del quale si era invaghita. Oggi le - lorighittas - sono reperibili tutto l’anno in tutta l’Isola, ma un tempo era il piatto che si preparava per la festa di Ognissanti  ed il sugo era quello cucinato con la carne di gallo.

Con lo stesso intingolo in altri paesi del Medio Campidano si condivano (tuttora) gli spaghetti - spaghitus mesànus - maccarrones -, con l’aggiunta di zafferano, in questo modo come si usa a San Gavino Monreale, meglio conosciuto come “città dell’oro rosso” per la sua importante produzione nazionale di zafferano - tzaffanau -. Va ricordato che sin da tempi remoti, per l’importante produzione di grano, la Sardegna  ha incessantemente occupato un ruolo di primaria importanza, tanto da essere stata definita il granaio dei Fenici prima e dei Romani successivamente, questo a dimostrazione del fatto che nell’Isola si coltivava già da tempo il grano, insieme ad altri cereali di eccellente qualità. Ma nonostante le varie influenze, Fenicie, Cartaginesi, Puniche, Arabe, Ebraiche e altre ancora, non si ha una prova certa di chi abbia lasciato una traccia sulle varie tecniche di lavorazione della semola.

Gli Arabi per esempio, è vero che diffusero nel Mediterraneo il couscous, ma è altrettanto vero che non sostarono per molto tempo in Sardegna, perciò non lasciarono un segno tangibile sia nelle usanze, sia nella cucina. Mentre migliaia di Ebrei al tempo dell’imperatore Tiberio furono condotti con la forza in Sardegna, perciò è probabile, siano stati proprio loro a portare tecniche di lavorazione differenti, anche se non è da escludere che il modo di lavorare la semola alla fine possa essere stata una scoperta casuale delle massaie sarde.

Il filosofo e storico Benedetto Croce 1866 - 1952 di Pescasseroli (Abruzzo), annotava in uno dei suoi taccuini personali, come già 1600 a Napoli la pasta venisse chiamata “Pasta o maccheroni di Cagliari” a testimonianza indiscutibile che per produrla si utilizzava farina di qualità superiore. Sta di fatto che le donne morgongioresi, ancora oggi per preparare le - lorighittas - utilizzano farina di ottima qualità: farina di semola di grano sardo trigu saldu, per rimarcare tutta la bontà di questa pasta. Ogni anno a Morgongiori, nel mese di agosto, associazioni preposte dedicano alle – lorighittas - una rassegna con degustazioni di vini e birre, laboratori e tant’altro ancora. Il tutto all’insegna della convivialità… Partecipate gente!

Ingredientis:

per la pasta: g 600 di farina di semola di grano sardo, g 360 circa di acqua di fonte, mezzo cucchiaino di sale, per l’intingolo: un galletto ruspante pronto a cuocere, una bella cipolla di Zeppara (vasta zona della Marmilla), un ciuffo di timo fresco, un mazzetto di prezzemolo, uno spicchio d’aglio, mezzo chilo di polpa di pomodori freschi, g 80 di pecorino di media stagionatura grattugiato, zafferano San Gavino, vino bianco secco tipo nuragus, brodo, strutto, olio extravergine d’oliva, zucchero comune, sale e pepe q.b.

Approntadura:

inizialmente disponi la farina setacciata dentro ad una conca - sxivedda - scivedda -, poi aggiungi poco alla volta l’acqua salata (la quantità d’acqua può variare a seconda del tipo di farina utilizzata), quindi lavora l’impasto per qualche minuto, dopodiché trasferiscilo sulla spianatoia infarinata e con energia tira la pasta a lungo con il palmo di una mano, lavorandola energicamente fino quando sentirai l’impasto scoppiettare e il composto si sarà ben amalgamato. Fatto, avvolgilo con una pellicola per alimenti e ponilo in frigorifero a riposare almeno per un ora. Trascorso il tempo, preleva dei piccoli pezzi di pasta e assottigliali sulla spianatoia  fino a quando otterrai degli spaghetti lunghi poco più di venti – venticinque centimetri (le massaie moderne per accelerare i tempi utilizzano, il rullo per gli spaghetti della nonna papera… ma non è la stessa cosa), allorché arrotolali sul dorso dell’indice e dito medio formando così un anello e, subito dopo facendo roteare all’interno la pasta con l’aiuto del pollice e l’indice di ambo le mani,  otterrai  le - lorighittas - intrecciate.

Man mano che le confezioni adagiale dentro a un canestro distanziandole l’una dall’altra. Terminata questa operazione, lascia asciugare le - lorighittas - per qualche giorno al sole, prima di riporle dentro a delle buste trasparenti (tipo quelle utilizzate per le caramelle) oppure a delle buste di carta per alimenti. Si conservano a lungo anche in frigorifero. Il giorno che decidi di cucinare le lorighittas, prepara l’intingolo in questo modo: riduci a piccoli tocchi regolari il galletto che terrai da parte. Trita la cipolla finemente insieme al timo, il prezzemolo e il ricavato fallo stufare in un recipiente di terracotta - grexonera - grassanera - schiscionera - ischiscionera - friscionera - dal catalano, ma anche - sciacuera - strexu - sattaina - sattania -cassarolla - con l’aglio, una noce di strutto e un giro d’olio, allorché spruzza il soffritto con mezzo bicchiere di vino e lascialo sfumare. Evaporato, unisci lo spezzatino di galletto e lascialo rosolare, bagnando man mano con poco brodo vegetale bollente. dopo una mezzora di cottura, aggiungi la polta di pomodoro ridotta a poltiglia, un cucchiaino di zucchero, un pizzicone di sale, una generosa macinata di pepe e prosegui la cottura fino a quando la salsa si sarà ristretta e risulterà vellutata. Solo allora aggiungi una presa di zafferano diluito in poco brodo e intanto che il sugo cuoce, poni sul fuoco una marmitta colma d’acqua, appena accenna il bollore aggiungi il sale e subito dopo la pasta e quando al dente, scolala direttamente dentro a una zuppiera preriscaldata, condiscila con il sugo di galletto e cospargi le – lorighittas - col pecorino. Servile fumanti.

Vino consigliato: Cannonau di Sardegna rosato, dal sapore sapido, tipico  e asciutto.

 

 

 

 

 

 

***

 

S’àbba dulche de is angelus o binu de murta

 

 

 

Nell’Ottocento, in Sardegna e in Corsica, preparavano una bevanda parecchio gradevole, prodotta attraverso la fermentazione  di vino con bacche di mirto e miele: - àbba dulche de is angelus o binu de murta - acqua dolce degli angeli o vino di mirto. Nel periodo medievale invece, l’industria dell’erboristeria  (dal francese herboristerie, a sua volta derivato del latino herbula - erbetta che, indicava la raccolta delle piante spontanee o coltivate) dell’epoca, utilizzavano i fiori di mirto per far nascere da questi, un’essenza aromatica che veniva chiamata acqua degli angeli - acqua dell’angelo o acqua angelica. Il Mirto “Myrtus Communis L.” è una pianta arbustiva sempreverde, tipica della macchia mediterranea, appartiene alla famiglia delle Myrtaceae  e i suoi frutti generalmente sono a bacca scura, ma ne esiste anche  una qualità a bacca non scura (color bianco rosaceo, rare e localizzate in specifiche parti dell’Isola). Entrambe sono descritte già da Dioscòride (medico e botanico greco che svolse la sua professione a Roma ai tempi di Nerone), noto per avere scritto in greco un trattato sulle erbe in ben cinque volumi, il “De Materia Medica”. Sempre dal greco, emerge una curiosità: il nome che origina la pianta del mirto trae il suo nome dalla parola “myron” che significa profumo, per la particolare sostanza odorosa che emana nel momento in cui si sfregano le foglie.

Lo storico romano Tito Livio, sosteneva che Roma nacque proprio nel luogo in cui si trovava una pianta di mirto. Sempre i romani, consideravano il mirto simbolo d’amore e allo stesso tempo lo reputavano di potere afrodisiaco.

Secondo la leggenda il termine “myrtus” deriverebbe dal nome della giovane Myrsine, una fanciulla dell’Attica (regione storica della Grecia) invincibile nelle gare ginniche. Si narra che, dopo aver battuto un coetaneo durante una gara, l’atleta venne privata della vita da un amico di quest’ultimo. Commossa la dea Pallade trasformò il corpo privo di vita in un esile arbusto che nominò, appunto, Myrsine, ritenendolo così gesto d’amore e di purezza. Il mirto era sacro alla dea Venere: una leggenda racconta infatti  che la dea dopo aver fatto un bagno in mare, usci nuda dall’acqua e per nascondersi dagli sguardi indiscreti dei satiri (confraternita di esseri che vivevano per lo più nel bosco, circondati da una natura selvaggia, spesso insieme alle ninfe), si apprestò a nascondersi velocemente dietro ad un cespuglio di mirto e, sempre stando a quanto racconta la  mitologia, pare che Afrodite (la Venere dei Romani) dopo lo sguardo di Paride si avvolse con una ghirlanda fatta con rami fioriti di mirto. Un'altra storia fantastica asserisce che anche nell’antica Roma conoscevano ed apprezzavano le qualità straordinarie del mirto,  tanto da far riappacificare i Romani con i Sabini, dopo che questi ultimi subirono l’astuto stratagemma attuato per rapire le loro donne. La purificazione con i germogli di mirto, creò le condizioni per una ritrovata armonia, tanto che in segno di riconoscenza ne furono piantati due alberi ai piedi del Campidoglio. E non solo, i Romani, lo donavano in premio ai guerrieri valorosi, notizia che si trova negli scritti di Plinio, anche  i Greci usavano il mirto per cingere il capo dei vincitori nei giochi olimpici e tanto per capire quanto era importante il mirto allora, Dionisio dovette donare una rigogliosa pianta carica di frutti all’Ade (nome del dio che regnava sull’oltretomba) per poter riportare indietro la madre. Era inoltre proibito porlo sull’altare della Bona Dea (Grande Madre), moglie di Fauno (figura della mitologia romana, poi fatto corrispondere al Satiro dei greci) che trovandola eccitata dal vino la punì colpendola ripetutamente con verghe di mirto al punto da toglierle la vita. Questo fatto, determinò l’esclusione del mirto e l’atteggiamento ostile verso il vino durante le gare Dionisiache. Il mirto - mutta - murta -  in sardo, era una pianta cara ai poeti, era considerata emblema di gloria e d’amore e i fiorai confezionavano corone per gli eroi. Mentre nell’Antico Testamento è citato in quanto in Israele con i rami di mirto si preparavano ghirlande da donare alle spose. Secondo altre leggende arabe, Adamo avrebbe portato con se dal paradiso terrestre, un ramo di mirto in ricordo della vita felice trascorsa senza peccato e gli Egiziani se ne adornavano durante le festività. Un'altra storia racconta che Columella, Plinio e Palladio introdussero tecniche di preparazione del vino con le bacche del mirto, da servire in  brocche panciute durante i  momenti conviviali e Catone lo cita insieme ad altri  vini, che venivano preparati a scopo medicamentoso.

Nel medioevo il mirto raggiunge il massimo della considerazione, tanto che fu largamente  utilizzato dai medici e in cucina la faceva da padrone. impreziosendo tantissime vivande e aromatizzando vini e bevande.

Il poeta Ugo Foscolo lo cita tra i suoi sonetti, usandolo come sinonimo stesso del sentimento amoroso.

Il mirto oggi viene utilizzato nell’industria liquoristica, in quella dolciaria, in cucina e in tante altre preparazioni, a conferma di quanto sia importante questo straordinario frutto. A Telti, in provincia di Olbia-Tempio, gli Enti preposti, in collaborazione con Associazioni e Pro Loco, ogni anno intorno alla seconda metà di agosto, promuovono una rassegna dedicata al mirto di Sardegna, ricca di eventi, rievocazioni e degustazioni.

Ingredientis:

kg 1 di bacche di mirto non nero (bacche color bianco rosaceo sono molto rare e localizzate in specifiche parti dell’isola) sane e mature, litri 1 di alcol per pasticceria, g 500 di zucchero comune, g 300 di miele d’agrumi, 6 litri di vino tipo vernaccia.

Approntadura:

una volta raccolte le bacche, lavale velocemente e subito dopo asciugale con dei canovacci da cucina, poi allargale dentro a un - crivu - cesto, crivello fatto con giunco, usato per setacciare, impiegato anche per essiccare i pomodori o le olive al sole, quindi ponile al sole per un paio di giorni ad appassire. Trascorso il tempo, versa le bacche di mirto dentro a una damigianetta di vetro, allorché unisci l’alcol e il vino, chiudi ermeticamente il recipiente e mettilo in cantina al buio per quaranta giorni, avendo l’accortezza di scuoterlo almeno ogni  tre giorni. Trascorso il periodo di macerazione, filtra il tutto, facendo colare il succo dentro a un capace contenitore d’acciaio, idoneo a contenere il liquido. A questo punto, con l’apposito torchio pressa le bacche, poi filtra il ricavato e uniscilo al liquido, quindi copri il pentolone con un coperchio e tienilo da parte. Fatto, preleva cinque mestolate di vino macerato e versalo dentro a una pentola, allorché aggiungi lo zucchero, il miele e fallo scaldare dolcemente fino e quando avrai ottenuto uno sciroppo trasparente. Raffreddato, aggiungilo al vino e con un mestolo d’acciaio giralo in modo che la miscela si mescoli omogeneamente. Solo allora, travasa il nettare dentro a delle bottiglie ben lavate ed asciutte e man mano che le imbottigli chiudile ermetiche e mettile da parte. Terminata questa operazione, accomodale in cantina al fresco e al buio.

Il vino è pronto dopo un mese di riposo.

 

 

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