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“L'ISOLA IN CUCINA” di Roberto Loddi de Santu ‘Engiu Murriabi - Ricette Settembre 2020

 Arrosu cun castàngia de aritzu e martutzu aresti

 E castanza e nuche e nuchedda, turrasa e tallerisi e pabia de forru, pisceddas de casu, discoso po pesare caso, acconcia cossu e acconcia paracquas - castagne, noci e nocciole, mestoli, taglieri e pale da forno, forme di formaggio, scodelle per il latte e per dare la forma al formaggio, riparo busti - farsetti (corpetti di pelle - cosso‘e peddhe -) e ombrelli. Questa era la sequenza di parole che pronunciavano in cantilena  i commercianti, percorrendo le vie dei paesi del Campidano per vendere la loro merce,  provenienti da Aritzo - cab’e susu - capo di sopra, con le sporte cariche  sulla groppa del proprio cavallo.

 

Infatti come si legge sul vocabolario sardo logudorese - italiano di Pietro Casu, illustre predicatore e poeta, i - castanzajus - venditori ambulanti di castagne, anticamente venivano in Medio Campidano a cavallo dalla Barbagia, dopo giorni e giorni di viaggio. Le povere bestie erano magre e dimostravano le fatiche e le privazioni del lungo cammino e si riposavano solo dopo avere venduto il carico sopportato durante il percorso sostenuto. Si presume però che per trasportare tutta la merce utilizzassero un carro attrezzato, con almeno un cavallo di scorta.

Ho ancora vivo il ricordo del sapore di quelle castagne, avevano un sapore indimenticabile, soprattutto quando mia mamma faceva le caldarroste - castanza - castàngia - arrostìa -. Dopo averle cotte le metteva in un cestino - crobi - con dei canovacci per tenerle al caldo, così si potevano sbucciare bene e le poneva al centro del tavolo. poi sistemava il braciere sotto al tavolo con la brace, io con i mie fratelli ci sedavamo tutt’intorno ponendo i piedi sopra alla sagoma di legno del braciere, per tenerli al caldo mentre mangiavamo le castagne arrostite con pochissimo vino - piriciòu - piriciòlu - binetu -. Si trattava di un vinello beverino o mescola (nell’antica Roma lo chiamavano Circumcisicium)  che i contadini bevevano tutti i giorni nei mesi molto freddi ed era ottenuto dalla rifermentazione delle vinacce con abbondante rabbocco d’acqua di fonte,  con l’aggiunta di zucchero e altro mosto appena torchiato.

Che bei tempi! Ricordo anche quando Mamma Albina con le castagne ci preparava il risotto, cucinato con il guanciale - grandua e il - martutzu - crescione: - arrosu cun castàngia de aritzu e martutzu aresti -.

Il crescione “Nasturzio - Nasturtium officinale” fa parte della famiglia delle Crocifere  e in dialetto sardo si pronuncia - martutzu - matutzu, matuzzu - martuthu -. Il crescione è una pianta aromatica officinale conosciuta fin dall’antichità, dal sapore pungente che ricorda quello delle foglie del ravanello. La pianta cresce nelle campagne, predilige i fossati, le core d’acqua, gli acquitrini e i fiumiciattoli con le acque trasparenti. Il crescione ha proprietà nutrizionali, fa bene all’organismo, ha la peculiarità di depurarlo ed è ricco di virtù afrodisiache. In gastronomia insaporisce risotti, minestre, zuppe, insalate ed è delizioso consumato in purezza, condito con olio extravergine d’oliva e sale. Come è arcaica la conoscenza del crescione, così è quella delle castagne, che erano già  utilizzate nell’antichità.

Infatti erano già note ai greci e ai romani, anche se soltanto nel Medioevo si hanno le prime testimonianze che certificano l’interesse sulla piantagione dei castagneti. Tanto è vero che, nell’undicesimo secolo, risulta da atti notarili che  la contessa Matilde di Canossa, potente feudataria, indica la disposizione geometrica delle piante proponendo il giusto spazio di coltura tra una pianta e l’altra. Nel tredicesimo secolo le castagne, vengono menzionate nei censimenti doganali di Firenze. Ma il primo a parlare della castagna (Castanea Sativa) in Europa, fu Senofonte  nel sesto secolo, che definì il castagno come “albero del pane”. In effetti i suoi frutti hanno per secoli rappresentato una delle principali fonti di sostentamento per le famiglie. Ogni anno ad Aritzo, le associazioni competenti organizzano un appuntamento dedicato alle castagne, con escursioni, mostre e degustazioni gratuite di caldarroste con vino novello a volontà.

Ingredientis:

g 320 di riso carnaroli di Sardegna, g 250 di castagne, 2 cipollotti, g 120 di guanciale sardo ridotto a poltiglia, g 60 di pecorino fiore sardo grattugiato, brodo vegetale, 4 rametti di rosmarino, vino bianco secco, un mazzo di crescione freschissimo, olio extravergine d’oliva, sale e pepe di mulinello q.b.

Approntadura:

prima di tutto, poni a lessare le castagne fresche incise in una pentola contenente acqua leggermente salata e falle cuocere per mezz’ora. Trascorso il tempo occorso, lasciale intiepidire, poi spellale, riducile a tocchetti (lasciane 4 intere per la guarnizione dei piatti) e metti il ricavato dentro a una ciotola. Fatto, trita i cipollotti e falli rosolare in un tegame insieme a un giro d’olio, il battuto di guanciale -grandua - e una spruzzata di vino. Evaporato, unisci il riso e lascialo sfrigolare due minuti, quindi bagnalo con una mestolata di brodo bollente, dopodiché aggiungi le castagne tenute da parte, un’altra mestolata di brodo bollente e continua la cottura per diciotto minuti, aggiungendo sempre brodo per mantenerlo all’onda. Un minuto al termine, incorpora il crescione - martutzu - ben lavato e spezzettato, il formaggio, subito dopo regola il sapore di sale, impreziosiscilo con una generosa macinata di pepe e fallo mantecare, prima di servirlo in piatti individuali, decorati ognuno con un rametto di rosmarino e una castagna.

Vino consigliato: Mandrolisai rosso, dal sapore asciutto sapido con retrogusto amarognolo, armonico  e tipico.

 

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Gintilla cun pudd’e mudregu e tzaffanau

 

Esaù barattò per fame la primogenitura con suo fratello Giacobbe per un tozzo di pane e un piatto di lenticchie, cedendo così sotto giuramento, i suoi diritti di primogenitura e ogni diritto sulle proprietà del padre. In questo modo suo fratello alla morte del genitore ebbe pieni poteri sul popolo ebraico. Da allora, circa quattromila anni, quando una persona si lascia corrompere per un nonnulla, si dice: ti sei venduto per un piatto di lenticchie. Nell’antica tradizione ebraica, ancora oggi come allora è usanza mangiare lenticchie in caso di un lutto, onorando così la memoria del povero Esaù, che per non morire di fame, stoltamente cedette a suo fratello la sua primogenitura. Infatti da quel tempo la lenticchia “Lens culinaris” è uno dei cereali rustici che ha ottenuto grande interesse e smercio nell’area del Mediterraneo, risultando la derrata più ambita sia in Grecia che a Roma, laddove Artemidoro di Daldi, illustre scrittore e fisico greco vissuto a Roma, sotto il regno di Antonino Pio e Marco Aurelio, nell’opera “Interpretazione dei sogni”, lega le lenticchie, come già detto, a un evento luttuoso.

Lo scrittore latino Gaio Plinio Secondo (Gaius Plinius Secundus) soprannominato Plinio il vecchio, le esalta per le qualità, per il contenuto nutrizionale e per il pregio di trasmettere serenità allo spirito. Si narra che, alla lenticchia viene accomunata la vicenda della colonna egizia di Piazza S. Pietro, collocata a Roma nel Primo Secolo per desiderio di Gaio Giulio Cesare Augusto Germanico detto Caligola. Infatti il monumento egizio, solcò tutto il mediterraneo su una imbarcazione da carico, ben custodito e stivato in mezzo a una marea di lenticchie, con le quali si preparava una sostanziosa minestra “puls-lentis”, da cui in seguito deriverà il nome “pulmento”, ovvero polenta, ma questa è tutto un’altra storia. Rimanendo ancora in periodo romano, la lenticchia era considerata fra i legumi più importanti, questo lo garantiva anche Lucio Giunio Moderato Columella, eccelso esperto d’agricoltura; a suo avviso tale legume è coerente e armonico con il susseguirsi delle stagioni, così come con il territorio, le usanze e le tradizioni, come ben descritto nel suo “De re rustica, primo secolo”. Col passare del tempo, le lenticchie ricomparvero nuovamente nel “mondo dei sogni”, portando fortuna e sfortuna, tutto questo succedeva seguendo l’emotività e la suggestione di chiunque mangiava le lenticchie.

Nel periodo medievale, i potenti governanti, insegnarono a cucinare e a consumare le lenticchie nelle tavole più dimesse e nelle mense dei conventi, dando in questo modo alle lenticchie una giusta collocazione sociologica, essendo questo un legume nutriente e reperibile sui mercati a prezzi vantaggiosi. Tant’è vero che in periodo rinascimentale erano talmente utilizzate in cucina, che il medico Petronio le identificò come cibo ideale per tutti coloro che volevano vivere una vita morigerata e salutare. Ma pare che non tutti fossero d’accordo, in realtà il Re Sole, faceva utilizzare le lenticchie per sfamare i cavalli del suo esercito, mentre Alexander Dumas nel suo trattato “Grand Dictionnair de Cuisine” (1873), sosteneva che le lenticchie fossero un legume di pessima qualità.

Oggi le lenticchie, dopo millenni di pellegrinaggi da una tavola all’altra e diverse consuetudini, dopo aver subito critiche spesso poco approfondite da diverse sponde ed elogi di diverso tenore, sono giunte a noi apprezzate e valorizzate pienamente. In modo particolare si cucinano a fine anno, legando questo legume ad augurio di buona fortuna e per salutare con i  migliori auspici l’anno che è in procinto di arrivare. Non a caso  è  facile trovare nei cesti natalizi un sacchetto di lenticchie assieme a uno  zampone o cotechino proprio in segno di  buon augurio. Anche in Sardegna le lenticchie sono molto apprezzate, infatti sono utilizzate in tantissimi piatti, ricchi di ingredienti genuini, in prevalenza di cultura contadina, ma sempre all’insegna di antiche tradizioni, con sapori mai perduti nel tempo e ricorrendo a prodotti generosamente offerti dal territorio. Non a caso le lenticchie con la beccaccia e lo zafferano - gintilla cun pudd’e mudregu e tzaffanau -, è una minestra alquanto ghiotta, non solo per la presenza del nobile pollame o selvaggina e - sa fregula sarda -, ma soprattutto per l’aroma inconfondibile conferitogli dallo zafferano – tzaffanau -, di San Gavino naturalmente!

Ingredientis:

4  beccacce pronte a cuocere, g 300 lenticchie sarde, 1 cipolla, 2 spicchi d’aglio, g 60 di  guanciale battuto a coltello, 1 cucchiaio di prezzemolo tritato, 1 mazzetto di bietola, un ciuffo di finocchietto, 1 carota, 2 patate, 4 pomodori secchi, 1 foglia di alloro, zafferano San Gavino – tzaffanau Santu ‘Engiu -, vino bianco secco, g 80 di fregola, g 70 pecorino sardo grattugiato, brodo vegetale, olio extravergine d’oliva, sale e pepe di mulinello q.b.

Approntadura:

poni in ammollo le lenticchie, lasciale ammorbidire per tre ore e subito dopo  risciacquale e falle lessare in una pentola con due litri di brodo, le bietole a listarelle, le patate a fettine e il finocchietto. Intanto, fai  rosolare le beccacce tagliate in quattro insieme al guanciale, un giro d’olio, 1 spicchio d’aglio, l’alloro, una spruzzata di vino e quando evaporato, unisci nel sughetto di cottura la cipolla con i pomodori secchi e la carota tritati. Lascia  cuocere l’intingolo fino a quando le beccacce risulteranno tenere, bagnandolo di tanto in tanto con del brodo bollente per evitare che la preparazione si asciughi. Fatto, aggiungi il prezzemolo, una bustina di zafferano, le lenticchie con il  loro  brodo - sa fregula -,  sale quanto basta e prosegui la cottura per un quarto d’ora. Passato il tempo, scodella la minestra con il suo intingolo dentro a delle ciotole di terracotta, quindi completale con un giro d’olio, una  generosa macinata di pepe, una nevicata di formaggio e servila immediatamente con  fette di pane tipo - civraxiu - di Sanluri abbrustolite e strofinate con l’aglio rimasto.

Vino consigliato bianco: Sardegna semidano Mogoro, dal sapore morbido, sapido, fresco e asciutto.

 

 

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