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Rilettura di “Assandira”, il romanzo di Giulio Angioni

 Dopo il successo riscosso alla 77ma edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia (dove è stato presentato Fuori Concorso in Sala Grande il 6 settembre)  il film “Assandira” di Salvatore Mereu dal 9 settembre è proiettato nelle sale italiane.
Dal 16 al 20 settembre, in collaborazione con la FASI (Federazione delle Associazioni Sarde in Italia), il regista Salvatore Mereu e il protagonista Gavino Ledda hanno introdotto la proiezione del film a Torino, Milano, Firenze, Bologna, Roma.

 

Il film “Assandira” di Salvatore Mereu è liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Giulio Angioni (pubblicato nel 2004 dall’editrice Sellerio di Palermo nella collana “Il divano”).

Nel risvolto del libro si precisa: «Questo giallo prende il nome da un agriturismo, gestito da un figlio, ritornato con moglie da un’emigrazione lontana, e da un padre pastore, meta di turisti in cerca di una teatrale e impudica ricostruzione dell’antica vita agro-pastorale, che viene dato alle fiamme per consumare un vero e proprio dramma di difesa identitaria, mostruosa mescolanza di moderno ed arcaico».

Io mi auguro che il successo del film, già registrato tra spettatori sardi e non sardi, induca alla lettura o rilettura del romanzo di Angioni. Io ho ripreso in mano il libro e, naturalmente, quando ho riletto, alle pagine 94 e 95, della «specie di comizio» tenuto dal magistrato inquirente  sulle cause degli incendi in Sardegna («è ora di smetterla con questa vecchia idea dell’incendio estivo come problema criminale, come se d’estate qui molti fossero presi dalla mania del fuoco, come se  cose combustibili ci fossero soltanto a ferragosto, e non anche a natale e a capodanno») non ho potuto non ripensare a una polemica che su questo tema  avevo avuto con Angioni.

Nell’agosto 1993 Angioni, in un articolo ospitato con grande evidenza nella prima pagina de “La Nuova Sardegna”, esprimeva in sostanza una tesi riassunta nel titolo «Siamo tutti possibili incendiari nelle estati sarde» e nel concetto «Parlare sempre di dolo ci deresponsabilizza».

In quei giorni ero in vacanza nel mio paese natale, Ploaghe, e,  non condividendo la posizione espressa dall’illustre antropologo culturale, scrissi di getto (“a caldo”, è il caso di dire) e tempestivamente consegnai di persona alla redazione del quotidiano sassarese un intervento in dissenso, intitolato polemicamente “La colpa non è del cerino acceso”, ovviamente con debita firma e anche con l’indicazione della qualifica “giornalista pubblicista di origine sarda”.

Raccontavo che qualche giorno prima nel Golfo della Marinella eravamo stati in tanti a notare che in un bosco visibile dalla spiaggia erano scoppiati contemporaneamente numerosi, distanziati focolai che naturalmente il vento (vedi il caso, in quel giorno particolarmente furioso) aveva attizzato impetuosamente e impietosamente.

Perché escludere a priori che piromani assoldati potevano avere interesse, creando panico e terrore, a dirottare lontano dalla Sardegna le correnti turistiche?

Perché considerare peregrina l’ipotesi degli anni post-bellici per cui il fuoco veniva spiegato «come uno stratagemma delle compagnie di assicurazione per convincere i contadini ad assicurare le messi»?

Da quel che mi risultava, non era neanche raro il caso che i freni mal funzionanti di qualche convoglio ferroviario avessero fatto sprizzare scintille che avevano innescato fiamme alimentate poi dal forte vento.

Senza ingenerose generalizzazioni, non mi sentivo neanche di escludere a priori che qualche pastore o contadino non si fosse attrezzato adeguatamente per evitare l’estendersi incontrollato di fiamme accese per bruciare porzioni limitate di pascolo o di sterpaglie.

Concludevo dicendo che certo esisteva (ed esiste) una responsabilità collettiva per lo scatenarsi degli incendi boschivi nei mesi estivi in Sardegna e nelle altre regioni siccitose del Mediterraneo ma non bisognava (e non bisogna) neanche trascurare di punire esemplarmente le colpe individuali.

Furono pubblicate decine di opinioni in merito alle tesi di Angioni ma non la mia. Pazienza: si vede  che la mia qualifica non era sufficientemente autorevole o che le mie osservazioni erano “fuori dal coro”.

Nel settembre dello stesso anno, nella collana de “I pamphlet di Condaghes”, Angioni fece uscire un librino (48 pagine) col titolo “Libello contro gli incendiari” che in copertina ne riassumeva la  tesi di fondo: «Sono oscuri “complotti incendiari” a mandare in fumo ogni anno migliaia di ettari in Sardegna? oppure dare la colpa a sconosciuti piromani è una scusa per allontanare le nostre  responsabilità?». (A pagina 4 ci sono le stesse parole che, dieci anni dopo, nel romanzo compariranno alle pagine 94-95: le ho citate prima).

In questo opuscolo Angioni usava parole “di fuoco” soprattutto, ma non solo, contro coloro che  continuavano ad avere in testa «l’antica idea del pastore incendiario e del campagnolo reso improvvisamente piromane dal solleone»; prendeva di mira anche chi, privilegiando la «teoria onniesplicativa del dolo»,  andava alla «ricerca dei piromani in agguato».

Nell’ estate del 1994, in vacanza in Sicilia, seguii attraverso i giornali e la televisione e attraverso le telefonate ai parenti (finché fu possibile) il dramma dei paesi e dei luoghi colpiti dalle fiamme devastatrici nella zona della Sardegna (il Logudoro) di cui sono originario: Ploaghe innanzi tutto  (ottocento capi di bestiame, soprattutto pecore, arsi in centinaia di ettari di pascoli distrutti), Osilo, Chiaramonti, Nulvi, Campomela, ecc.

Appresi che erano stati arrestati lavoratori stagionali della forestale incolpati di aver attizzato qualche esca incendiaria in preda a rancori per torti subiti o magari per garantirsi future opportunità lavorative nelle operazioni di rimboschimento (ovviamente anche sulla concretezza di questi peraltro diffusi sospetti Angioni nel suo “libello” si era mostrato molto scettico). 

I fatti insomma – a me sembrava – avevano dato ragione a chi modestamente suggeriva di non addossare le colpe a cause non imputabili all’uomo (il sole, il vento) e a responsabilità collettive che assolvevano a priori comportamenti devianti di tipo individuale.

Il mio scritto “La colpa non è del cerino acceso” fu cortesemente pubblicato nel n. 18 della rivista diretta dal compianto Tito Orrù “Bollettino Bibliografico e Rassegna archivistica e di studi storici della Sardegna” (Quaderno 1994, n. 18, distribuito nei primi mesi del 1995) insieme a un articolo

in cui le tesi esposte da Angioni nel suo “libello” venivano riassunte – con piena condivisione –

da Alessandra Carta. La quale, in chiusura, mi chiedeva: «Ora, prof. Pulina, anche ammettendo che di incendi dolosi come quello da lei descritto se ne verifichino ogni anno, le sembra poco se la nostra rinnovata coscienza civica ci aiutasse a salvare anche pochi ettari di Sardegna? Perché continuare a svestire scandalisticamente la nostra bella?». 

Ad Alessandra Carta – ammesso che abbia modo di leggere questo articolo – vorrei dire (ora per allora) che la ringrazio per l’attenzione e rispondo che naturalmente sono d’accordo in linea di principio con lei.

Ho conosciuto Giulio Angioni alla presentazione da parte di Tonino Mulas, presso il Centro Sociale e Culturale dei Sardi a Milano, in Via Foscolo, del suo romanzo “Una ignota compagnia” (ambientato in una Milano degli anni ’80 del Novecento, è storia di due giovani migranti, un bianco e un nero, che  si imbattono l'uno nell'altro).

Di Angioni (Guasila, 28 ottobre 1939 – Settimo San Pietro, 12 gennaio 2017) ho sempre avuto la massima stima come antropologo culturale e come scrittore e ho sempre valorizzato, con riconoscenza, il suo interesse per Giovanni Spano (specialmente per i “Proverbi sardi” da lui raccolti) a tal punto da aver fatto diventare il canonico ploaghese un personaggio di uno dei racconti, “Scemà Israel”, della raccolta intitolata “Millant’anni” (2002).

Paolo Pulina

 

 

 

 

 

 

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