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“L'ISOLA IN CUCINA” di Roberto Loddi de Santu ‘Engiu Murriabi - Ricette Gennaio 2021

 Culurgiones ogliastrinus a sa spighitta e a su pibioni 

 
Non mancano di certo le storie, le leggende, né tanto meno le curiosità sul raviolo e le fantasie sulle sue origini. Si racconta che a dare il nome alla prelibata pietanza, nel Dodicesimo Secolo, pare sia stata una famiglia di Gavi Ligure in provincia di Alessandria, Raviolo, allora titolare di una trattoria con stallaggio. Tale famiglia in seguito diventò ricca e potente,  tanto è  vero che come marchio  della casata, mise un raviolo come blasone.

Un’altra leggenda vuole che i ravioli siano nati al sud e Guglielmo di Malavalle, noto anche come Guglielmo di Aquitania e San Guglielmo il Grande, consacrò i ravioli di crusca che gli furono serviti tramutandoli in una succulenta prelibatezza. Anche la leggenda di una modesta contadina risulta essere intrigante, basti pensare che l’umile donna ma dal cuore grande, voleva celebrare il Santo Natale con un piatto degno di tale occasione. A causa delle ristrettezze economiche preparò dei quadrati di pasta ripieni con verdure dell’orto, pochi avanzi di carne e del formaggio tipo raveggiolo (formaggio schiacciato), detto così perché pizzicava come i ravanelli. Ecco così nascere prima i raveggioli, poi ravioli.

Pensate che la narrazione sia finita qui? Eh no cari lettori!, una storia straordinaria riporta che già nella cucina babilonese, egizia, greca e romana si trovano piatti comparabili. Con certezza sappiamo che erano presenti nel Medioevo perché li cita il Boccaccio nella nota novella di Calandrino (Decamerone VII, 3), come se non bastasse, un documento datato 1182, parla di un contadino savonese intento a preparare un pasto con i ravioli. Il raviolo, in un passato remoto si chiamava anche "gè in preixun" (dal ligure bietole in prigione). C’è chi sostiene anche sia stata una trovata originale per utilizzare gli avanzi dei banchetti della nobiltà e chi, invece sostiene che col nome di rabiola, termine medievale che si riferisce forse alle rape le cui foglie, in origine, erano un ingrediente e risulta  pubblicato per la prima volta in un documento del 1243,  come piatto caratteristico cremonese.

Nel 1841 sono stati definiti “la più gradevole fra tutte le paste da minestra del mondo”. Difficile certificare quando e dove siano nati i ravioli, come impossibile dare una paternità a quello che il poeta e drammaturgo genovese Bacigalupo definì un “gastronomico portento”. È anche vero però che ogni regione li personalizza con un ripieno differente e che ovunque sono considerati il piatto della festa.

I “ravieu” liguri sono comunque identificabili, se non altro per la presenza delle boraggini, che insieme alla ricotta, il pecorino, le uova, la maggiorana, la menta e la noce moscata li rendono esclusivi.

In Sardegna vengono definiti così: - culurgiones - culingionis - culurzones - cullurzones - culurgionis - gurigliones - crullixonis - cruguxonis - e altri ancora. Per esempio - is culurgiones ogliastrinus a sa spighitta e a su pibioni - i ravioli dell’Ogliastra a forma di spiga con la punta terminale che li sigilla, sono il piatto simbolo della cucina tradizionale del luogo, ma oramai, tra una variante e l’altra, vengono cucinati in tutta la Sardegna. A seconda della zona cambia il nome, la forma, gli ingredienti che devono essere rigorosamente del territorio e anche l’esecuzione può essere differente. Per esempio c’è chi usa insieme alle patate la menta fresca - menta de arriu -, chi quella secca, l’aglio, oppure l’impiego del grasso animale, delle erbe selvatiche tipo il timo - armiddha -, la maggiorana - maiorana e - sa nebidedda - la nepetella, una varietà di menta selvatica con le foglioline piccole leggermente appuntite che ricordano quelle della maggiorana, come usano ad Ardauli (paesino di 867 anime circa in provincia di Oristano), al posto della classica mentuccia selvatica.

Il formaggio, che si diversifica in base alla stagione e a differenza di tutte le ricette isolane, nell’Ogliastrino deve essere rigorosamente fresco, deve essere di pecora, di capra o conservato in salamaoia - viscidu -, mentre in alcuni paesi dei dintorni  utilizzano - su cas' e vida - casu axedu o frue - formaggi in salamoia.

L’impasto viene preparato con della farina di semola di grano duro rimacinata finissima con l’aggiunta di farina bianca, acqua sorgiva tiepida e sale. Si possono trovare alcune varianti come accade per il ripieno, c’è chi aggiunge del vino bianco, chi dell’olio extravergine d’oliva - ozu armanu - ghermànu - o strutto - ozzu porchinu - ozu porchinu - ozu polchinu - ollu de proccu - o entrambi.

A Sadali in provincia di Cagliari, i ravioli per tradizione si preparano durante il mese d’agosto come segno di gratitudine per il raccolto agricolo terminato, per propiziarsi quello prossimo e come pietanza rituale per salvaguardare il nucleo famigliare dalle avversità.

Il 2 novembre i ravioli vengono preparati con l’aggiunta di - ollu seu - grasso ovino e consumati in ricordo degli estinti. Sta di fatto, che nella tradizione isolana non c’è Natale, non c’è Pasqua, ne tanto meno festa o grande occasione senza - is culurgiones -, che erano e sono oggetto di regalia come gesto d’affetto, devozione e riguardo. 

Ingredientis:

per l’impasto: g 300 di semola di grano duro rimacinata finissima, g 200 di farina bianca, vino  bianco secco, sale e acqua tiepida q.b. per il ripieno: 400 g di patate di Gavoi, g 150 di -  viscidu o cas' e vida -,  g 100 di pecorino grattugiato, mezzo bicchiere di olio extravergine d’oliva, 1 spicchio d’aglio, un ciuffetto di menta fresca, sale e pepe di mulinello q.b.

Approntadura:

come prima operazione, disponi a fontana le farine miscelate sul ripiano della madia e tuffaci al centro due cucchiai di vino, una presa di sale e tanta acqua tiepida che si riveli sufficiente per ottenere un impasto privo di grumi e malleabile, che terrai avvolto con un canovaccio infarinato in luogo fresco a riposare. Nel mentre, metti a lessare le patate e dopo mezz’ora, scolale, pelale, passale con l’apposito attrezzo e raduna il ricavato dentro a una terrina  che terrai da parte. Fatto, prendi un recipiente di terracotta - tianeddu - e piazzalo sul  fuoco con l’olio che hai in dotazione, l’aglio schiacciato e appena dorato, allontana il recipiente dal fuoco, poi elimina l’aglio, quindi tuffaci la menta ridotta a poltiglia e lasciala macerare fin quando l’olio si sarà raffreddato. Trascorso il tempo occorso, unisci l’intingolo alle patate, quindi aggiungi anche il pecorino e - su viscidu  -ben lavato, asciugato e tritato, una presa si sale, una macinata di pepe ed amalgama accuratamente gli ingredienti fino a ottenere un composto omogeneo e soffice che terrai da parte. Terminata questa operazione, tira a sfoglie non troppo sottili la massa e con l’aiuto di un bicchiere o un coppa pasta del diametro di circa otto - dieci centimetri, ritaglia tanti dischetti quanti ne consente l’impasto, ritagli compresi. Solo allora, inumidisci con dell’acqua un dischetto di pasta, allorché accomodaci sopra un mucchietto di ripieno, posiziona il dischetto nella mano tra il pollice e l’indice, socchiudendo il ripieno con i due lembi della pasta, ma senza farli aderire. Di seguito pizzica i due lembi con il pollice e l’indice dell’altra mano, prima a sinistra, poi a destra e prosegui così fino a chiuderli formando la classica punta lunga e affusolata, detta - su pibioni - e ottenere così la classica cucitura a spiga. Continua in questo modo fino al termine dei dischetti di pasta e man mano che li prepari, allargali sul piano si lavoro infarinato per farli asciugare. Terminata questa complessa operazione, lessa - is culurgiones - in abbondante acqua leggermente salata bollore e appena al dente, scolali direttamente in un recipiente contenete del sugo ristretto di pomodoro, preparato in precedenza, cospargili con abbondante pecorino e padellali velocemente a fiamma vivace, giusto il tempo che occorre per fare insaporire armonicamente tutti gli ingredienti. Servili immediatamente. Vino consigliato: Sardegna semidano Mogoro, dal sapore morbido, sapido, fresco e asciutto.

 

 

 

 

 

 

***

 

 

 

Sa cogonelda o Cogon'e'elda de Putumajore

 

Sono nato in Sardegna e mi sento orgoglioso di questa origine. Amo la mia terra, un isola meravigliosa, un angolo di pace, un paradiso incantato. Acque azzurre, boschi fioriti dove gli uccelli volano intorno a fantastici fiori. In questa terra a molti sconosciuta, vorrei tornare per non andarmene più via. Ed è proprio in questa terra che nascono i piatti schietti, preparati sapientemente e umilmente, con ingredienti poveri del territorio, ma ricchi di cultura e di storia. Piatti semplici, che sin dal tempo dei romani ai giorni  nostri, con la loro gloriosa storia resistono agli attacchi della cucina dell’era moderna.

Ogni volta che torno nella mia Sardegna, dove viveva la mia mamma, depositaria di saperi e sapori a cui ho fatto costantemente riferimento, la mia preoccupazione è quella di conoscere persone di una certa età per farmi raccontare storie fascinose legate al cibo, chiedendo loro ricette, aneddoti e origini. Come persona umile che mi ritengo, cerco sempre di apprendere ed accrescere il mio bagaglio culturale enogastronomico con grande curiosità. Bagaglio di conoscenze appreso anche grazie alle collaborazioni con Slow Food, Federazione Italiana Cuochi, Organizzazione Nazionale Assaggiatori di Vino ed altre associazioni specializzate. Tant’è che in un articolo pubblicato tempo fa sono stato definito l’alchimista di cucina antica, lo speziatore, il narratore e l’artista - s’alchimìsta de coxìna antigorìa, - su spetziadori - su naradori e s’artìsta -, il “maestro”, l’artista che racconta le sue ricette. Per Maxim Gorky, scrittore e politico russo: “è un artista colui che elaborando le proprie impressioni soggettive, sa scoprirvi un significato oggettivo generale ed esprimerle in una forma convincente”. Magari vi state domandando cosa c’entra tutto questo, beh, io mi sento nella pelle di quell’artista e vi assicuro che è una bella sensazione, quella di poter avere la possibilità di raccontare gli avvenimenti, gli aneddoti, le leggende che mantengono in vita una ricetta per millenni ed avere la possibilità così di condividere con i lettori le mie impressioni.

Già dal tempo dei romani la Sardegna era ritenuta il granaio d’Italia, sia per l’abbondante raccolto mietuto che per l’ottima qualità del grano ed era componente fondamentale e indispensabile per il sistema produttivo dell’impero, tanto da risolvere i problemi nei momenti di carestia.

Dato che la curiosità fa lo scienziato, tempo fa, curiosando tra vecchie riviste, libri antichi di cucina e pagine su internet, ha destato la mia curiosità il nome di una ricetta di Pozzomaggiore: - sa cogonelda - coconelda - cogon'e'elda de Putumajore - focaccina tipica sarda con ciccioli e uvetta, un paesino in provincia di Sassari nella regione del Logudoro. Dalle informazioni raccolte, devo dire che mi ha entusiasmato tanto da provare a cucinarla e scriverne le caratteristiche. - sa cogonedda - la focaccetta schiacciata, farcita con ciccioli - elda -, uva passa -  pabassa -, zucchero  è un dolce dal sapore arcaico che regala la felicità ai palati dei sempre più attenti consumatori.

Nella cultura contadina, una volta, quando si macellava il maiale, con il lardo dell’animale si cucinavano i ciccioli - siccioli gerdas - geldas -, dai quali si ricavava pure lo strutto che veniva utilizzato al posto dell’olio, in quanto quest’ultimo non tutti potevano permetterselo, a causa del suo elevato prezzo. Con questi ingredienti si preparavano le focaccette di Pozzomaggiore, ma in diversi paesi dell’Isola era usanza ed ancora lo è, di lavorare l’impasto del pane sul ripiano della madia lasciandolo piuttosto soffice. Una volta lievitato, si formano delle pagnotte, si farciscono con i ciccioli e anche con della frutta secca sminuzzata, poi si accomodano su delle teglie foderate con foglie di cavolo precedentemente sbollentate, quindi si fanno lievitare un’altra volta e infine si cuociono in forno. Così facendo, il pane acquisisce un sapore  e un aroma esclusivo conferitogli dalle foglie dell’ortaggio.

Paese che vai usanza che trovi, infatti esperte ma umili cuciniere, con queste derrate, sfornano fragranti focacce che nel Goceano chiamano - coccone e nel - Montiferru, covazzedda de gelda -. Nel pattadese le focacce con i ciccioli le chiamano - cozzilas d'elda -, mentre quelle che preparano per la tradizione delle feste di Ognissanti si chiamano - sas cochitas - e sono analoghe a quelle che chiamano - su misturu -,  che con l’aggiunta di patate rimangono più soffici. Invece nella maggior parte del Medio Campidano le focaccette si chiamano - costeddas cun gerda o gerdas -. In altre zone si conoscono come -  pane di jelda - cocchi ‘e jelda druccis - sas covazzedas de elda - cavazza - uciatini  -  e chissà con quanti altri nomi ancora.

Ingredientis:

g 600 di semola di grano duro sardo rimacinata, g 200 di farina bianca, g 12 di lievito di birra freschissimo, g 250 di ciccioli morbidi elda - ielda - jelda - belda - berda - gerda - gerdas, 1 cucchiaiata di strutto istruttu - struttu - ollu de proccu - ozu de pocu - ozu porchinu, g 150 di zucchero comune, g 200 di uva passa - pabassa -, la scorza grattugiata di un limone giallo non trattato, mezzo cucchiaino di polvere di scorza d’arance essiccate, vino  bianco dolce tipo moscatello - muscadeddu -, liquore a piacere, zucchero, farina, sale e acqua tiepida q.b. 

Approntadura:

per ottenere un ottimo risultato ed avvicinarsi alla ricetta antica, occorrerebbe utilizzare il lievito madre, ma in sostituzione è possibile usare quello di birra. Perciò, stempera il lievito dentro a un recipiente di ferro-smalto insieme a un bicchiere di acqua tiepida, un cucchiaio di zucchero e due cucchiaiate di farina bianca, utilizzando quella che hai in dotazione. Fatto, amalgama a modo tutti gli ingredienti, copri il ricavato con una pellicola per alimenti e infila il pentolino a lievitare dentro al forno spento, ma con la sola luce accesa, fin quando crescerà e in superficie si sarà formato uno strato schiumoso. Solo allora, disponi le due farine miscelate sul ripiano della madia e al centro tuffaci una presa di sale, mezzo bicchiere di vino, lo strutto, lo zucchero in dotazione, la scorza del limone, la polvere d’arancia, il lievitante e tanta acqua tiepida che si riveli sufficiente per ottenere un impasto privo di grumi, omogeneo e malleabile. Terminata questa operazione, raccoglilo a palla e sistemalo dentro a una conca di terracotta - xivedda - scivedda - infarinata, quindi incidi la superficie e collocala dentro al forno spento sempre con la sola luce accesa a lievitare per tutta la notte. L’indomani mattino, metti ad ammollare l’uva secca dentro a una ciotola, poi coprila a filo con del - filu e ferru - grappa sarda, o un’altro liquore di tuo gusto e tienila da parte.

A questo punto, rovescia la massa lievitata sul piano di lavoro infarinato, sgonfiala rimaneggiandola delicatamente ed allargala, allorché incorpora l’uva passa tenuta da parte ben scolata e leggermente infarinata, i ciccioli ed impasta il composto ancora per dieci minuti senza strapazzarlo. Subito dopo rimettilo dentro alla conca infarinata e introducilo un’altra volta nel forno con la sola luce accesa. Trascorsa un’ora, dividi l’impasto in quattro pezzi ai quali darai la forma di una pagnotta ovalizzata, man mano che le prepari sistemale sopra ad una  teglia foderata con un foglio di carta oleata e riponile a lievitare per l’ultima volta accanto a una fonte di calore priva di correnti d’aria, per tre quarti d’ora coperte con un canovaccio. Terminato il tempo richiesto,  appiattisci lievemente le focaccette con la pressione delle dita e passale in forno già caldo a 200-220° un quarto d’ora e a 180° per mezz’ora, tanto da farle diventare ben dorate, occorreranno tre quarti d’ora in tutto circa. Essendo  questo pane abbastanza grasso, per apprezzarlo in tutta la sua fragranza è meglio consumarlo caldo o tiepido.

Vino consigliato rosso: Alghero cagnulari, dal sapore armonico leggermente tannico e asciutto.

 

 

 

 

 

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