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Giornata della Memoria 2021: “L’erba non cresceva ad Auschwitz”

 Nell’imminenza della celebrazione della Giornata della Memoria 2021, e quindi del 76° anniversario della data della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz (che segna simbolicamente la liberazione dell’Europa dal tallone nazista), sui giornali italiani si sono lette notizie come queste: «Giornata della Memoria: secondo un’indagine Eurispes aumentano i negazionisti dell’Olocausto del popolo ebraico. Credono che la Shoah non sia mai esistita, negano la storia e gli eventi dell’Olocausto».

 

Come reazione emotiva alla diffusione in Italia, in Europa e nel mondo  di queste concezioni razzistiche e revisionistiche che negano la realtà di fatti storicamente ben documentati, personalmente sono andato a rileggermi un volume scritto da una sarda sulla realtà dei campi di sterminio nazisti. Mimma Paulesu Quercioli (Ghilarza, 1926-Milano, luglio 2009), nipote di Gramsci in quanto figlia della sorella Teresina, ha raccolto nel 1994 quattro testimonianze di donne che hanno vissuto l’esperienza tragica dell’imprigionamento nei lager nazisti nel volume “L’erba non cresceva ad Auschwitz” (Mursia editore, presentazione di Gianfranco Maris, presidente dell’ ANED, Associazione Nazionale degli Ex Deportati; prefazione della studiosa di psicologia Silvia Vegetti Finzi; 150 pagine comprese quelle con le terribili illustrazioni fotografiche della ferocia nazista. Come si può arguire dalle due copertine qui riprodotte, successive alla prima edizione, il libro è stato più volte ristampato e questo testimonia il fatto che l’opera ha suscitato l’interesse di  varie generazioni di lettori),

Quando fu internata ad Auschwitz, Arianna, figlia di un ebreo ungherese, riparato con la famiglia da Fiume a San Daniele del Friuli, arrestata con i genitori, quattro sorelle e due fratelli, aveva undici anni; mentre le altre tre ne avevano rispettivamente diciotto (Loredana, operaia alla Borletti e poi alla Caproni, fabbriche nelle quali aveva preso parte agli scioperi politici contro il fascismo e contro l’occupazione nazista), ventitré (Teresa, originaria di San Martino dall’Argine, in provincia di Mantova, sacrificatasi per salvare la sorella più grande, Maria, impegnata a Milano nel movimento clandestino di Resistenza), venticinque (Zita, appartenente a una famiglia di ebrei ungheresi trapiantata in Italia, ma arrestata in Ungheria con la madre, la sorella e il suo bambino di otto anni). In mezzo a tanti nomi di paesi e città italiani che hanno visto la persecuzione razziale e l’allineamento gregario dell’esercito italiano alle mire espansionistiche di Hitler, non manca un riferimento a Pavia ed è un cenno che ingentilisce per poche righe il quadro raccapricciante delle condizioni di sopravvivenza in cui erano costretti i deportati. Quando Zita fu trasferita nella fabbrica metallurgica di Lippstadt (dove era obbligata a fare il tornitore, in piedi tutto il giorno, con le mani sempre a bagno nell’acqua e soda), vi trovò un gruppo di ragazzi italiani, internati militari, con i quali familiarizzò subito. Leggiamo ciò che scrive la Paulesu: «Uno di loro, un certo Luigi Fossati di Pavia, avendo individuato il suo reparto, invece di andare direttamente a prendere servizio quando entravano per il loro turno, faceva una deviazione e passava da lei. Le portava una calderina con le patate cotte, la posava in un angolo, le strizzava l’occhio e andava. I ragazzi si rifornivano di patate e di altri viveri andando a rubare; infatti gli internati militari avevano maggiori possibilità di movimento dei politici. Nascondevano le patate rubate sotto le assi del pavimento della loro baracca; ma un giorno i tedeschi scoprirono i loro traffici e proprio il Fossati fu portato al campo di punizione. Quando tornò era magro e pallido. Chissà quante botte gli avevano dato! Comunque, al suo rientro in Italia, Zita seppe che anche lui era tra i sopravvissuti. È questo uno dei pochi gesti di umanità citati dalle quattro sopravvissute. Il resto è una sequenza ininterrotta di sevizie bestiali subite da vittime colpevoli solo di essere ebrei o zingari o oppositori politici, insomma colpevoli solo di appartenere a una minoranza.

Dal racconto di Loredana: «Spesso al mattino sulla spianata davanti alle baracche, in mezzo al fango e ai sassi (l’erba non cresceva ad Auschwitz …), vedevamo dei cadaveri, ma non ci facevamo più caso, quella era la normalità del lager. Coglie nel segno questa osservazione di Silvia Vegetti Finzi: «Dalla conclusione di queste biografie si capisce che la salvezza risiede, per chi ha così ingiustamente sofferto, nella possibilità di consegnare ad altri, ai figli, ai nipoti, il dono della sua vita, altrimenti cancellata dal tempo. Grazie all’Associazione ex deportati, alcune hanno trovato la forza di uscire dall’isolamento e dal silenzio, ma non è stato facile. Dopo la rilettura, bisogna riconfermare un ringraziamento a Mimma Paulesu Quercioli, che con la pazienza tipica dell’insegnante abituata a gestire situazioni emotivamente difficili (ha operato per molti anni per il recupero di bambini portatori di handicap) è riuscita a far parlare Arianna, Loredana, Teresa, Zita e a far conoscere, attraverso il suo umile lavoro di mediazione narrativa, le loro storie, che quindi non possono essere né ignorate né tantomeno dimenticate».

Contro il negazionismo purtroppo in aumento, la Giornata della Memoria 2021 ci sprona a fare nostre le determinazioni di Zita: «Da quando ha saputo che vanno sorgendo dei movimenti che vogliono negare la realtà di quanto è accaduto. Zita non può più rifiutarsi di andare nelle scuole, se la salute glielo consente. Non può sopportare, ad esempio, che si dica che l’Olocausto non c’è mai stato: l’Olocausto e le persecuzioni nazista sono storia. La storia di un regime, di una guerra terribile e di milioni di uomini e di donne che hanno perso la vita per la libertà».

Paolo Pulina

 

 

 

 

 

 

 

 

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