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“L'ISOLA IN CUCINA” di Roberto Loddi de Santu ‘Engiu Murriabi - Ricette Marzo 2021

 Angioni cun cancioffa de Samassi

Furono gli arabi ad introdurre in occidente il carciofo “Kharsuf”, cardo commestibile, ma pare che greci, romani e persino gli egizi già lo conoscessero.

Teofrasto, filosofo e botanico greco, attorno al 300 a.C., nella sua “Storia delle piante”, parla di “cardui pineae” alludendo alla somiglianza di forma del carciofo con certe pigne e la descrizione delle caratteristiche, delle proprietà e le ragguardevoli virtù sembrano proprio ricondurre ai carciofi.

Nello stesso secolo, nel trattato di agricoltura dell’antichità “De re rustica”, Lucio Giunio Moderato Columella, scrittore latino di origini spagnole del primo secolo d.C. chiama il carciofo col nome latino Cynara, destinato a restare nella denominazione botanica ufficiale e conferma che a quel tempo era comune la coltivazione della pianta sia a scopo medicinale che alimentare.

 

Una suggestiva leggenda narra che Cynara, un’incantevole fanciulla dalla folta chioma color cenere, fece innamorare Giove, ma la moglie Giunone si accorse del capriccio del marito  e la mutò in una pianta di carciofo. Un’altra storia racconta che fu Giove ad invaghirsi della bella Cynara e siccome il padre di tutti gli dei aveva un pessimo carattere, al rifiuto delle sue attenzioni trasformò la ninfa in un carciofo.

“La pianta che punge”, fu poi  catalogata da Linneo nella famiglia delle Composite con il nome di Cynara cardunculus.

Nella raccolta di ricette dell’antichità romana “De re coquinaria” attribuita a Marco Gavio Apicio, fra cavoli, rape, bietole, lattughe, carote, navoni, porri, zucche, zucchine e cetrioli, si parla anche di cuori di carciofo che, a quanto pare, i romani apprezzavano molto. Lo stesso Apicio li preparava cuocendone i cuori in acqua e vino per poi pestarli con farro, insaporendoli con pepe e garum e legandoli con uova, facendone specie di salsicce guarnite con pinoli, da grigliare avvolte nell’omento.

Plinio invece nel suo trattato “Naturalis Historia”, riteneva che i carciofi fossero originari della Sicilia, anche se su questa notizia ci sono dubbi.

Apprezzate varietà pare venissero coltivate in zone fertili, fra le quali anche in particolari territori dell’isola siciliana. In Italia il carciofo si diffuse intorno al XVI secolo, ma era noto sin dall’inizio del Trecento. Inizialmente non ebbe grandi riscontri gastronomici e ancora all’inizio del Cinquecento l’Ariosto scrive: “che durezza, spine e amaritudine molto più vi trovi che bontade”. Nonostante il poco successo iniziale e la totale assenza del carciofo nei ricettari, compare successivamente sempre con più frequenza nei trattati di cucina del XVI secolo. 

La sua coltivazione e divulgazione e poi andata estendendosi sempre più con incremento di produzione e numerose varietà che vanno dal Verde di Romagna al Violetto di Venezia o di Chioggia e di Catania, al romanesco mammola. Nella varietà spinosa troviamo il re per eccellenza, lo “Spinoso Sardo” e sempre in Sardegna la varietà “Tema”, il verde delicato ligure e il verde di Palermo. Il carciofo cynara (Cynara scolimus L.) è il genere più noto e comprende diverse specie spontanee, tutte originarie del bacino del Mediterraneo scoperte attorno ai secoli XV e XVI.

La coltura del carciofo si diffuse prima in Toscana, Caterina dei Medici, li adorava fino a farne indigestione e Carlo Emanuele I di Savoia arrivò a ipotizzare una “politica del carciofo”, usando il carciofo come metafora, resta famosa la sua frase: “l’Italia è come un carcioffo che bisogna mangiare foglia per foglia”.

Nonostante non si abbiano conferme certe sulla sua divulgazione, in Sardegna il carciofo spinoso pare sia stato coltivato sin dalla fine dell’Ottocento, primi Novecento, anche se è dalla fine degli anni cinquanta del secolo scorso che la produzione è stata abbastanza significativa e tale da soddisfare le richieste del mercato settentrionale.

Nel mese di febbraio del 2011 la Comunità Europea ha riconosciuto il marchio di denominazione origine protetta al carciofo spinoso di Sardegna.

A Samassi, piccolo ma importante centro agricolo del Medio Campidano, leader nella coltivazione del carciofo, ogni anno nel mese di marzo, viene dedicato al re dell’orto, sua maestà il carciofo un’ importante appuntamento con l’intento di valorizzarlo come eccellenza dell’agroalimentare sardo.

Il carciofo è uno degli ortaggi che presenta il più alto contenuto di fibra e di ferro. Ottimo disintossicante epatico, il carciofo contiene anche la cinarina, un principio attivo in grado di influire direttamente sulla coleresi e sulla diuresi. La radice ha ottime capacità diuretiche, impiegata sotto forma di decotto con vino bianco è utile nei casi di gotta,  calcolosi epatica, itterizia e reumatismi.

In cosmesi l’acqua di cottura può essere utilizzata per sciacquare i capelli dopo lo shampoo per rinforzarne il bulbo. La presenza di insulina lo rende efficace anche per le diete dei diabetici ed è ricco di sali minerali e di vitamina A.

In cucina il carciofo trova molti impieghi da vero protagonista, come per esempio fritto alla giudia, pastellato, cucinato al forno, trifolato in padella, brasato, lessato, in insalata con la bottarga - buttariga - di muggine di Cabras, in fricassea con il capretto e tante altre ricette ancora.

Che dire del carciofo: una vera miniera di proprietà e al chiaro di luna può sembrare una rosa… con le spine naturalmente!.

Ingredientis:

kg 2 di spalle d’agnello sardo, 8 carciofi spinosi di Samassi,  1 limone giallo non trattato, una cipolla di - Zeppara - (esteso territorio florido della Marmilla), 3 spicchi di aglio, 4 pomodori secchi - pibadra - piarra - ben dissalati,  rosmarino, un mazzetto di prezzemolo e uno di timo, un ciuffo di foglie nuove di mirto tenerissime, vino bianco giovane tipo vernaccia, brodo vegetale, olio extravergine d’oliva, sale e pepe di mulinello q.b.

Approntadura:

prima di tutto, pulisci attentamente i carciofi, prestando parecchia attenzione per non pungerti con le spine, elimina le foglie esterne più dure e tagliali a spicchi, poi elimina la barbetta, le eventuali spine rimaste nel cuore dell’ortaggio e mano a mano tuffali dentro a un recipiente contenente una soluzione di acqua e succo di limone, oppure con alcuni gambi di prezzemolo, questo accorgimento serve per non fare annerire i carciofi. Terminata questa operazione, rifila la carne eliminando le parti grasse e l’eventuale timbro rosso impresso dal veterinario nella macellazione, quindi riducila a tocchi regolari, accomodala dentro a un recipiente d’acciaio assieme a dei rametti di rosmarino e di timo,  bagnala con del vino bianco e tienila da parte a marinare. Intanto, trita finemente la cipolla con i pomodori secchi, gli aghi di un rametto di rosmarino, le foglie di mirto e il battuto ottenuto, fallo appassire dentro a un ampio tegame di terracotta - tianu mannu - unitamente ad un generoso giro di olio. Trascorso qualche minuto, aggiungi due spicchi di aglio schiacciato, la carne sgocciolata dalla marinatura e lasciala rosolare da ambo le parti, in modo  da sigillarla per evitare la fuoriuscita degli umori, dopodiché bagna l’agnello con una cospicua spruzzata di vino. Evaporato, allunga la preparazione con del brodo bollente e prosegui la cottura dolcemente a recipiente coperto per circa un’ora, aggiungendo dell’altro brodo, qualora il fondo di cottura tendesse ad asciugarsi. Quando manca un quarto d’ora circa, regola il sapore di sale e impreziosiscilo con una lodevole macinata di pepe, allorché aggiungi all’agnello i carciofi scolati tenuti da parte, avendo l’accortezza di posizionarli tutti sopra alla carne, questo accorgimento servirà per permettere ai carciofi di assorbire tutti gli aromi e umori del sughetto, cospargili immediatamente con il prezzemolo ed il restante aglio tritati molto finemente, una presa di sale, un ulteriore macinata di pepe e una mestolata di brodo. Copri il recipiente e prosegui la cottura. Quando i carciofi si riveleranno cotti al dente, scoperchia il tegame e lascia restringere parzialmente la salsa, subito dopo servi la vivanda in piatti individuali con i carciofi, il tutto impreziosito con parte della sua salsa ristretta.

Vino consigliato: Cannonau Istiga  di Arbus, dal sapore asciutto e morbido, caldo, con ottima struttura, persistente, giustamente tannico e armonico, secco, dal tipico retrogusto amarognolo.

 ***

 Su coccoi cun s’ou de Pasca Manna

Per cercare di comprendere  la storia dell’origine e della celebrazione della Pasqua, ricorrenza che accomuna le due più importanti religioni monoteiste: il Cristianesimo e l’Ebraismo, occorre tornare indietro nel passato e indagare nella storia.

La Pasqua cristiana: il nome Pasqua proviene dal latino Pascha e dall'ebraico Pesah. È la massima festività della liturgia cristiana, perché celebra la passione, morte e resurrezione di Gesù Cristo. Il fatto che Dio Padre decise di riportare in vita suo figlio Gesù, crocifisso senza colpe, per i credenti significa che condivise il progetto di vita. L'aiuto ai più bisognosi, la solidarietà, la fraternità e l'amore per il prossimo, tanto da sacrificarsi per questi ideali. La datazione della Pasqua è fissata nel Nuovo Testamento nel quale è scritto che Gesù fu crocifisso alla vigilia della Pasqua ebraica.

All’inizio del cristianesimo, i fedeli di origine ebraica celebravano la Resurrezione di Cristo subito dopo la Pasqua ebraica, che veniva calcolata in base al calendario lunare babilonese e cadeva ogni anno in un diverso giorno; mentre i cristiani di origine pagana celebravano la Pasqua ogni domenica. Nacquero così gravi controversie all'interno del mondo cristiano, che si risolsero nel 325 con il concilio di Nicea, in cui si stabilì definitivamente che la Pasqua doveva essere celebrata da tutta la cristianità la prima domenica dopo la luna piena seguente l'equinozio di primavera. Inoltre nel 525 si stabilì che la data doveva essere fra il 22 marzo e il 25 aprile.

La Pasqua ebraica: è una ricorrenza di notevole importanza anche per gli ebrei. Originariamente si ipotizza fosse una festa agropastorale celebrata dai popoli  nomadi del vicino oriente, quando le tribù semite si stabilirono territorialmente  si trasformò in una festa dell’aia, in cui si offrivano le primizie della mietitura dell'orzo, attraverso la cottura del pane azzimo.

Mosè diede un nuovo significato a questa festa, perché la fece coincidere con la fuga del popolo ebraico dall'Egitto. Nel capitolo 12 dell'Esodo, Mosè ordina ad ogni famiglia, prima di abbandonare l'Egitto, di sacrificare un capo di bestiame, agnello, pecora o capra senza difetto, di un anno di età e di segnare col suo sangue gli stipiti e il frontone delle porte delle case. I membri delle famiglie consumarono il pasto in piedi, con il bastone in mano, pronti per la partenza, che avvenne in quella stessa notte, dopo che l'angelo di Dio passò per uccidere tutti i primogeniti egiziani, risparmiando i primogeniti ebrei le cui abitazioni erano segnate col sangue.

Nel corso dei secoli, il rituale della Pasqua, pur sottoposto a variazioni e a modifiche, rimase sostanzialmente sempre uguale e la festa è tuttora celebrata da tutti gli Ebrei con la massima solennità e con la durata di sette giorni. Fu nel corso di una celebrazione pasquale che Gesù Cristo, secondo la narrazione evangelica, istituì il sacramento dell'eucarestia. Oggi la Pasqua cristiana viene festeggiata dopo un periodo di astinenza, si tratta infatti della Quaresima, che dura 40 giorni e va dal mercoledì delle Ceneri al Sabato Santo, cioè il sabato prima di Pasqua. Un rito molto diffuso in Spagna e in diverse città italiane è quello della Processione del Cristo Morto, che si svolge di solito il Venerdì Santo.

La Pasqua - sa Pasca Manna  - in Sardegna è un avvenimento ricco di tradizione e  devozione molto sentito, una festa arcaica che si svolge con cerimonie solenni, intensi e commoventi momenti di preghiera e di cori molto coinvolgenti, in quanto sanno dare attimi di grande emotività che scandiscono e fanno rivivere i passaggi della passione di Cristo.

Ecco perché,  tra le cerimonie  più intense e suggestive  che si svolgono in Sardegna, c’è quella della Settimana Santa che, nel solco dell’influenza iberica, si propone anche nel rione di Santacroce - Santaruxi - a San Gavino Monreale. L’arcaico cerimoniale - de - su Scravamentu -, ovvero l’atto di deporre Gesù di Nazareth dalla croce, che viene riproposto ogni anno il Venerdì Santo per iniziativa della Confraternita di Santacroce, da circa 270  anni.

La storia narra che il crocifisso utilizzato per il cerimoniale sia stato scolpito dal falegname  Francesco  Melis nel 1745 e il materiale utilizzato  per costruire la Croce fosse in legno di ginepro - tzinnìbiri -, materiale non facile da lavorare, in quanto granitico ma resistente nel tempo. La sera del Venerdì Santo - Cenàbara Santa -, quando il simulacro di Gesù viene deposto dalla Croce per essere poi condotto in processione con grande devozione e raccoglimento, accompagnato dall’aria struggente del canto sacro in lingua sarda - limba sarda - lìngua - foeddu -, sino alla chiesetta di Santacroce - Santaruxi - Santagruxi -, in attesa del glorioso  momento della rinascita.

È un bagliore infantile, ancora presente nella mia memoria e tutto avviene limpido come allora e ha come punto fermo la chiesetta di Santa Croce, da dove la cerimonia prende le mosse. Il Cristo Risorto percorre le vie del paese, abbellite per l’evento mediante migliaia di bandierine colorate, appese da un balcone all’altro e cosparse di fiori, con la Confraternita della quale mio nonno paterno era orgogliosamente affiliato, che precede la processione portando i “sette simulacri” che, nel linguaggio popolare vengono chiamati “Santi Misteri o Sacri Misteri” e muovono incontro - S’incontru - alla Madonna.

Durante la Settimana Santa sempre a San Gavino, come in tanti altri luoghi dell’Isola, si svolgono diversi riti che rievocano la Passione di Cristo: il parroco del paese, assieme a due chierichetti, passa a benedire le case. In questo periodo si consuma l'agnello cucinato in svariati modi, si distribuiscono uova sode colorate, con la curiosità della sorpresa,  dolci a forma di colomba e l’immancabile pane con l’uovo - coccoi de ou - coccoeddu - coccoieddu cun s’ou - coccoi de Pasca - su caccoi de Pasca - come lo chiamava mia nonna paterna. La tradizione vuole che, ancora oggi come un tempo, si regali il pane di Pasqua ai parenti e agli amici per esprimere auspici di speranza, di fertilità, fortuna e le palme intrecciate artisticamente con il ramoscello d’ulivo in segno di pace ed augurio di una buona Pasqua.

In passato le famiglie più modeste non potendosi permettere l’uovo nel pane, ricorrevano all’impiego delle mandorle, addolcendo in questo modo la mancanza dell’uovo in modo semplice e gustoso.

La festa della Pasqua, oltre ai significati e alle motivazioni religiose, è legata al risveglio della natura, il passaggio dalla stagione fredda a quella calda e al prepotente affermarsi della luce. L'evento ha sempre avuto risonanze nel mondo agreste ed è legato ad un'antica celebrazione con cui veniva festeggiato l'arrivo della primavera tramite le offerte di ringraziamento, con il rituale delle primizie del campo, dell'orto e sacrifici di agnelli. Oggi come in passato si ritrovano sulla tavola le spighe di grano tramutate in pane, le erbe profumate, l'agnello simbolico e le irrinunciabili uova. 

Le uova sono il simbolo della vita e della rigenerazione e sono presenti in molte culture antiche.

L'uovo è appunto simbolo della vita che si rinnova ed è auspicio di fecondità. Con il passare dei secoli le uova sono diventate di cioccolato, una vera leccornia per il palato, un po’ meno per il portafoglio, visto il costo; ma che ci volete fare, anche un piccolo uovo non deve mai mancare  nelle  tavole pasquali imbandite con ogni ben di Dio e in mancanza delle uova di cioccolato ci sono sempre quelle sode di gallina che allietano la compagnia e sono sempre di buon auspicio, come i miei auguri di buona Pasqua che porgo assieme alla redazione del Messaggerosardo nel mondo a voi tutti cari affezionati  lettori.

Ingredientis:

g 700 di farina di semola fine di grano duro sardo, g 300 di farina di grano duro sardo rimacinata, g 60 di strutto, 2 cucchiai di olio extravergine d’oliva, g 150-200 di lievito madre – bainzu - su fromentu - g 500 di acqua tiepida leggermente salata, g 30 di zucchero comune, g 18 di sale fino, 10 uova freschissime, farina di semola per lo spolvero q.b.

Approntadura:

come prima operazione, ammorbidisci in poca acqua fatta intiepidire il lievito madre - su fromentu - bainzu - (in mancanza utilizza 15 grammi di lievito di birra). Fatto, ponilo dentro a un canestro - canisteddu - nel quale avrai messo un telo infarinato di orbace - obracci -, tessuto di lana a trama grezza difforme, caratteristico della Sardegna, con abbondante farina. Trascorsa un’ora, disponi le due farine setacciate insieme al sale sul ripiano della madia, forma  un cratere e al centro tuffaci l’acqua che hai in dotazione inzuccherata, l’olio, lo strutto, il lievito e lavora a lungo con energia gli ingredienti fino a quando avrai ottenuto un impasto liscio e malleabile che lascerai riposare nuovamente dentro al canestro infarinato e coperto, in luogo tiepido  e privo di correnti d’aria. Dopo circa un’ora, rimaneggia la pasta stirandola, sbattendola e impastandola con vigore a lungo sul ripiano della madia, se occorre,  inumidisci la massa con altra acqua tiepida sin tanto che avrai raggiunto un risultato accettabile. Solo allora trasferisci l’impasto dentro ad un’ampia conca - scivedda - xivedda - e con tanto olio di gomito, strapazzalo, appiattiscilo e riavvolgilo, poi forma una palla, quindi spolverala ancora con della farina, coprila e lasciala riposare sempre in luogo tiepido e privo di correnti d’aria. Non appena il composto avrà raddoppiato il proprio volume, dividilo in dieci panetti, dai ad ognuno la forma che desideri utilizzando un coltellino affilato - arrasoiedda o gottededdu de pesai -, un paio di forbicine e una rotella dentata, una volta modellato i panetti, accomodaci in mezzo un uovo e con gli avanzi di pasta della modellazione dei pani forgia dei cordoncini, con i quali andrai a decorare e a sostenere come in un abbraccio le uova, quasi a simboleggiare quello di due persone che si vogliono bene e allo stesso tempo a  evitare che il calore del forno non faccia scurire troppo il guscio delle uova. Man mano che li prepari, sistema i coccoietti distanziandoli fra loro dentro a una  o due teglie foderate con carta oleata e spolverate di farina di semola,. Terminata questa operazione, ricoprili e falli lievitare ancora una volta per un’ora e mezza circa.  Passato il tempo occorso, passali in forno già caldo a 220° per dieci minuti e a 200° per quaranta minuti o fino a quando i coccoietti non sono diventati di un bel colore dorato. Cinque minuti prima del termine della cottura, estrai i coccoietti dal forno e pennella la superficie di ognuno con dell’acqua calda, così facendo otterrai una bellissima lucidatura del pane, riponilo dunque in forno e lascialo asciugare giusto il tempo rimasto che avevi a disposizione.

Vino consigliato: Arborea trebbiano secco, dal sapore  fresco leggermente acidulo, armonico  e asciutto.

 

 

 

 

 

 

 

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