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“L'ISOLA IN CUCINA” di Roberto Loddi de Santu ‘Engiu Murriabi - Ricette Maggio 2021

 Sa timballa o timbatta’e latte de berbège

Fra le tante prelibatezze che gli iberici nel loro dominio in Sardegna 1479 - 1713 (avendo occupato l’Isola dopo gli aragonesi), hanno lasciato in eredità c’è anche il flan - dulce de leche -, ossia il flan di latte, dolce tradizionale preparato in tutta la Sardegna.

Mia mamma, donna dalle mille risorse e mio costante riferimento, mi ha trasmesso la ricetta, avuta a sua vola da mia nonna Giovanna, cuoca e dolciaia sopraffina della mensa dei minatori di Ingurtosu, paese appartenente al bacino minerario del Sulcis. Questo flan è conosciuto col nome di - timballa - (stampo di metallo in cui si cuociono budini dolci e sformati o pasticci salati), - sa timballa - o - timbatta’e latte - timballa ‘e latte - tumballa de latte - flan de latti - nel Medio Campidano. La cosa curiosa è stata quella che nel documentarmi sfogliando i miei libri, pagine in rete e pubblicazioni varie, a suscitare il mio interesse è stato il nome - martinette - (che tradotto in italiano significa: complesso, cumulo, massa), altro vocabolo utilizzato per indicare il flan di latte, appellativo peraltro a me sconosciuto. Il dolce fa parte della famiglia di quelli detti al cucchiaio, simili ai budini e ai crème caramel, infatti si presume che le fogge primitive di questo dolce provengano dall’antica Roma, in quanto a base di composti di uova, latte, farina e miele per dolcificare. All’epoca infatti non c’era netta separazione tra le preparazioni dolci e salate e presumibilmente erano di etimologia ellenica.

 

Inoltre le ricette a base di uova erano ritenute toniche e giovevoli ed ebbero la loro favorevole prosperità in epoca medievale. Tuttavia in tale periodo nell’area europea compaiono ricette nei trattati di cucina antica, come ad esempio nel “De Honesta Voluptate” di Platina, nel lontano 1476. Tante sono  le storie e leggende che da secoli si raccontano sulla nascita di questa piacevole crema. Una delle più fantasiose si riferisce al regno di Rosas della provincia di Buenos Aires, dove nel 1829, il dittatore locale Juan Manuel de Rosas, appena eletto governatore, e nonostante difendesse il movimento federalista, si prestò a raggruppare il potere politico della capitale.

Pare che un giorno nella residenza del militare, l’inserviente addetta alle cucine, mentre era intenta a preparare una “lechada” (nettare preparato con latte e zucchero fatto bollire fino a quando lo sciroppo inizia a imbiondirsi), dovette allontanarsi dai fornelli per andare nel pollaio a prendere delle uova. Rientrata in cucina, lo stupore fu quello di vedere la bevanda stracotta, tramutarsi in un composto bruciacchiato, dando così origine al famoso - flan de leche -. Analoga leggenda, ha origine nel Quattordicesimo Secolo in Normandia ed è quella di un cuciniere che mentre preparava la colazione, inavvertitamente fece bruciare il latte con lo zucchero destinato alla colazione di un distaccamento militare. In merito alle origini  del - dulce de lece -, Wikipedia cita un giornalista argentino che sostiene come il dolce in questione sia di origini cilene, progressivamente introdotto in Argentina, poiché con lo stesso - dulce de leche - si farciscono gli “alfajores”; coppia di biscotti imbottiti tradizionali sudamericani. A conferma di quanto sostiene il giornalista, l’architetto argentino Patricio Boyle ha dimostrato che nel 1620 il Collegio di Mendoza riportò nel registro delle spese, l’importazione di “dulce de leche chileno”. Tanti altri ancora sono gli aneddoti sparsi nell’immaginario legati a questo famoso dolce. Di una cosa però siamo certi, che chiunque abbia generato questo delizioso dessert, ci ha lasciato in eredità, un dono a dir poco miracoloso e, noi insaziabili peccatori da buoni - liccànzus -  ghiottoni che siamo, non potremmo mai ringraziare abbastanza la divina provvidenza piovutaci addosso. Meditate gente!

Ingredientis:

mezzo litro di latte fresco di pecora possibilmente appena munto, quattro uova freschissime, g 100 di zucchero comune, la scorza di un limone giallo non trattato, un cucchiaino di polvere di scorze d’agrumi essiccate, sale q.b. per il caramello: g 80 di zucchero comune, un cucchiaio di acqua e uno di succo filtrato di limone.

Approntadura:

fai imbiondire lo zucchero con qualche goccia di limone (evita di farlo scurire troppo perché risulterebbe di sapore amaro) dentro a uno stampo tipo savarin, oppure in un pentolino d’acciaio qualora decidessi di usare degli stampini monoporzione e lascialo raffreddare dentro agli stampi da te preferiti. Intanto versa il latte in un recipiente d’acciaio con la scorza del limone, una presa di sale, portalo ad ebollizione e una volta raffreddato filtralo e tienilo da parte. Passato il tempo, sguscia le uova dentro a una terrina, unisci lo zucchero, la polvere d’agrumi, il latte e frusta il composto fino a renderlo omogeneo e ben amalgamato. Terminata questa operazione, versa il ricavato dentro a otto stampini precedentemente caramellati (se invece preferisci servire il dolce a fette con la sua bagna, usa il savarin). Arrivati a questo punto, cuoci la preparazione a bagnomaria in forno già caldo a 180° per quaranta minuti circa o fino a che la crema si sarà addensata e dorata. Trascorso il tempo occorso, sforna i flan, lasciali raffreddare, poi mettili in frigorifero per qualche ora e toglili solo un quarto d’ora prima di servirli scaravoltati in piatti individuali, quindi decora ognuno con un ciuffo di menta selvatica - menta de arriu -, un grappolino di ribes e una nevicata di zucchero al velo.

Vino consigliato: Malvasia di Cagliari dolce, dal sapore alcolico con retrogusto di mandorle tostate.

 

***

 

 

Su suhu in brodu e ervehe

 

 

In Sardegna, è usanza che la pecora, una volta macellata sia immediatamente cucinata. C’è da dire però, che non tutte le famiglie potevano permettersi un ovile e di conseguenza tanto meno delle pecore. Ma coloro che la macellavano, dovevano  mangiarla in breve tempo, in quanto con c’era possibilità di conservarla con la refrigerazione. L’occasione per poterlo fare comunque avveniva in particolar modo  nel periodo della tosatura - tusorzu - che di solito avveniva e tutt’ora avviene in primavera o per lo meno prima dell’inizio dell’estate, in quanto le pecore in tale periodo vengono tosate.

Dopo la macellazione, si dividono le varie parti destinate a differenti cotture, per esempio lo stomaco - sa frente - brente - budello, viene riempito con il sangue precedentemente lavorato dentro a un recipiente con del sale e sbattuto energicamente con un apposito utensile di legno di ginepro, per evitare che si coaguli. Al liquido si aggiungono cipolle, timo sardo - armidda - armiddha -, mentuccia selvatica - menta de arriu -, sugna di suino e pane - carasau - sbriciolato - pimpidalla grussa -. Terminata questa operazione, si lega il budello e si pone a bollire, quando cotto si serve ancora caldo insieme a del - pane e fresa - o in mezzo a del pane tipo - spianada -.

Un'altra preparazione tradizionale è quella della treccia - codra - corda - horda -, che si cuoce in umido nel tegame grande di terracotta - tianu mannu -, assieme a delle patate. Altre parti della pecora si utilizzano per fare del bollito - ervehe a buddiu - o a - cappottu - cucinato con abbondanti cipolle, patate e nel gustoso brodo ottenuto, si intingono sfoglie di - pane carasau o fresa -. Il resto dell’animale (nello specifico, le cosce con una parte di costole) viene cotto alla brace o allo spiedo, e servito con rami di mirto dentro a - sa sippa - maizzoba - (vassoio tipico sardo di sughero).

Un altro piatto caratteristico molto antico è - su suhu in brodu e ervehe - pastina in  brodo di pecora -, cucinato nell’entroterra isolano, la minestra di - suhu - pastina preparata in casa con la sfoglia sottilissima, in brodo di pecora fa parte della cucina agro pastorale, approntata con ingredienti molto poveri e semplici.

Ma in Sardegna si preparano tantissime minestre con il brodo di pecora e in tante si utilizza il finocchietto selvatico, i pomodori secchi, gli odori dell’orto e i più svariati tipi di pasta quali: - fregula - pillus - filindeus - tanto per citarne alcuni; ottenendo così delle gustose preparazioni che riscaldano l’anima… non solo lo stomaco. Questo a conferma di quanto in Sardegna si possano unire alla tradizione piatti molto semplici, accattivanti, da sempre all’insegna della genuinità e della salvaguardia del territorio, rendendoli incomparabili e allo stesso tempo di grande fascino.

Ingredientis:

per il brodo: 1 spalla di pecora ben sgrassata, 1 bella cipolla di Zeppara - zona della Marmilla -, 4 pomodori secchi ben dissalati, 1 gambo di sedano, 2 carote, 1 ciuffo di prezzemolo, un mazzetto di finocchietto selvatico, vino bianco secco, sale q.b. per la pasta: g 200 di farina di grano duro sardo, sale e acqua tiepida, farina per lo spolvero q.b. pecorino stagionato  grattugiato, aglio per strofinare il pane, olio extravergine d’oliva, pepe di mulinello q.b.

Approntadura:

taglia la carne in pezzi grossolani e tienila da parte, poi sbuccia la cipolla, pulisci le carote e il sedano, quindi taglia gli odori a pezzettoni e tuffa il ricavato dentro a un recipiente d’acciaio insieme a un generoso giro d’olio. Fatto, lascia rosolare il soffritto qualche minuto, poi aggiungi la carne e un attimo dopo spruzza la preparazione con del vino. Quando evaporato, aggiungi tanta acqua quanta ne occorre per coprire abbondantemente la carne, allorché, unisci al brodo i  pomodori secchi, il prezzemolo e il finocchietto legati con dello spago per alimenti, un cucchiaino di sale e prosegui la cottura fino a quando la carne si staccherà dall’osso. Intanto, disponi la farina a fontana dentro a una conca, aggiungi un pizzico di sale e acqua tiepida necessaria per ottenere un impasto liscio e malleabile, che lascerai riposare per mezz’ora. Terminato il tempo d’attesa, stendi la pasta sottilmente con l’aiuto dell’apposita macchinetta sfogliatrice e le sfoglie ottenute, infarinale bene, arrotolale su se stesse e con una lama affilatissima, taglia la pasta in filini sottilissimi - suhu - e man mano allargali su una spianatoia ben infarinata ad asciugare. Terminata questa operazione,, cola il brodo in un altro recipiente (tenendo la carne e le verdure al caldo che servirai come secondo piatto), portalo ad ebollizione, tuffaci la pasta e appena al dente, versa la minestra dentro a delle scodelle, cospargi ognuna con abbondante pecorino, una macinata di pepe e servi immediatamente a piacere con triangoli di pane tipo - coccoi - o - civraxiu - abbrustoliti e leggermente strofinati uno spicchio di aglio.

Vino consigliato: Mandrolisai rosato, dal sapore asciutto, sapido con retrogusto amarognolo, armonico, vellutato e caratteristico.  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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