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“L'ISOLA IN CUCINA” di Roberto Loddi de Santu ‘Engiu Murriabi - Ricette Luglio 2021

 Lilleddas cun pimpirida atturrada de pani bècciu

 La varietà di pasta che esiste in Sardegna è davvero molto importante e variegata, viene prodotta con la semola di grano duro sardo - trigu saldu - curcusa - e la pasta ottenuta risulta essere di eccellente qualità. Non a caso nel 1600 in Campania, a dimostrazione del fatto che il pregio delle farine prodotte nell’Isola era già apprezzata e conosciuta da  secoli, la pasta era chiamata con l’appellativo “Pasta di Cagliari”.

 

Fatta questa premessa, - is lilleddas cun pimpirida de pani bècciu atturrau - pasta lievitata appiattita tipo medaglioni con briciole di pane raffermo tostate è una ricetta che fa parte della cucina e cultura agropastorale della Planargia -  Pianàlza -, area che si trova tra la bassa valle del fiume Temo e il versante settentrionale del Montiferru nell’oristanese. Le - lilleddas - non è una pasta secca simile a tanti altri formati,  ma si tratta di una qualità particolare, perché viene preparata come un tempo, utilizzando farina di semola di grano duro sardo con l’aggiunta del lievito madre - fromentu - madrigga - e tanta manualità  che consente di ottenere un impasto privo di grumi, con le bolle che scoppiettano durante il rimesto della pasta -  ciuexiri -, insomma, è lo stesso procedimento utilizzato nella lavorazione del pane.

Pane che una volta si faceva mediamente ogni dieci giorni e siccome non tutti possedevano un forno a legna, la cottura avveniva in quello utilizzato dalla comunità e le massaie per individuare il proprio pane, su ogni forma applicavano un segno di riconoscimento. Quindi, ogni volta che si panificava, una parte dell’impasto veniva tenuto da parte dentro a un  recipiente di terracotta - tianedda - scivedda - o - xivu, proprio per confezionare le -  lilleddas - (una pasta simile si usava già nel Medioevo “de lasanis”). Tale impasto veniva inumidito con acqua intiepidita per renderlo più morbido e per facilitare la formazione dei dischetti appiattiti e allargati con la roteazione e pressione dei pollici insieme agli indici delle mani (la stessa procedura utilizzata per preparare - sas pellizzas -  del pattadese e anche - sas origgias-  o - orilias de padre),  una vera, grande opera di arte culinaria.

Una volta lessati venivano conditi con un intingolo semplice a base di pomodoro e pecorino grattugiato. Anche se nelle famiglie meno agiate la stessa ricetta veniva modificata, sostituendo il pecorino grattugiato con la mollica di pane duro sbriciolata e tostata.

Una curiosità, sembra che - sas lilleddas - siano parenti delle più famose – sebadas -, in quanto, anche se  non  sono  farcite con il  formaggio,  si possono friggere ugualmente in abbondante strutto o olio d’oliva e una volta dorate, scolate su fogli di carta assorbente a perdere il grasso eccedente, subito dopo irrorate con del miele o cosparse di zucchero e servite. Preparate così, queste sublimi dolcezze insieme ad altre tipiche prelibatezze vengono cucinate nel periodo di Carnevale ma, anche solo fritte e spolverate di sale diventano una degna alternativa al pane comune. L’associazione culturale tradizioni popolari San’Elia di Magomadas in provincia di Oristano, nel  mese di agosto di ogni anno, dedica una sagra a - sas  lilleddas  - con  dimostrazione pratica di cucina nella piazza del paese.

Ingredientis:

per la pasta: g 650 di farina di semola di grano  duro  sardo, g 95 di lievito madre –frommentu -, g  372 di acqua sorgiva, g 13 di sale, per il condimento: 3 cipollotti, un mazzetto di prezzemolo, g 100 di  guanciale, 1 spicchio d’aglio 3 pomodori secchi  ben dissalati, g 600 di polpa di pomodori ridotta a poltiglia,  vino  bianco secco, g 120 di mollica di pane tipo - civraxiu - raffermo, 1 ciuffo di timo sardo - armidda -, brodo, olio extravergine d’oliva, noce moscata, pecorino grattugiato, sale e pepe di mulinello q.b.

Approntadura:

prima di tutto, riduci in  briciole il pane, poi falle tostare con un filo d’olio in una padella assieme al timo sgranato e appena abbrustolite allontana il recipiente dal fuoco e tienilo da parte. Fatto, disponi a fontana la farina sul ripiano della madia e al centro tuffaci il sale, l’acqua tiepida che hai in dotazione, il lievito madre ed amalgama gli ingredienti fino a ottenere un impasto malleabile, liscio e omogeneo che lascerai riposare spruzzato d’acqua, dentro a un recipiente di terracotta - tianedda - xivu - a riposare in luogo fresco. Nel frattempo, trita i cipollotti con parte del germoglio verde - pillonazzu -, il prezzemolo, i pomodori secchi e poni il trito ottenuto dentro a un capace tegame di terracotta insieme a un giro d’olio, il guanciale battuto a coltello e una spruzzata di vino. Quando evaporato, unisci l’aglio schiacciato, la poltiglia di pomodori, una presa di sale, una grattata di noce moscata, una macinata di pepe e prosegui la cottura per un’ora circa, aggiungendo eventualmente del brodo vegetale bollente, qualora la preparazione tendesse ad asciugarsi. Trascorso il tempo indicato, poni una  marmitta sul  fuoco (se possiedi il caminetto poni il recipiente colmo d’acqua sul fuoco sopra al treppiedi - trébini -), poi con le dita delle mani inumidite d’acqua preleva dei pezzi di pasta non più grossi di una noce, con la pressione dei pollici e degli indici, appiattiscili e allargali formando una sorta di medaglioni sottili di circa cinque - sei centimetri di diametro e man mano che li prepari tuffali nella pentola d’acqua salata a bollore, lasciandoli cuocere fino al termine dell’impasto (per quanto possa sembrare strano, la pasta tuffata prima, al termine della cottura manterrà la stessa consistenza di quella tuffata per ultimo). Appena al dente, scola la pasta dentro al recipiente del sugo, aggiungi una manciata di pecorino e padella il tutto velocemente a fiamma vivace, giusto il tempo che occorre per fare insaporire armonicamente gli ingredienti. Servi immediatamente - sas lilleddas - cosparse con il pecorino rimasto e le briciole di pane tostate tenute da parte.

Vino consigliato: Carignano rosso del Sulcis, dal sapore , vinoso, gradevole e intenso.

 

***

Tallutzas de coxia a s’antiga

 

 

Is tallutzas de coxia a s’antiga -, è un formato di pasta preparato con l’impasto lievitato residuo dalla panificazione settimanale, ricavato con dei piccoli pezzetti di pasta delle dimensioni una nocciola, appiattiti poi con la pressione del palmo della mano sulla coscia, che ricordano le orecchiette pugliesi, le orecchie di frate - origas de padre - e anche i - curzettu stiò - croxetti - di origini liguri ma anche un piatto tipico di Carloforte in Sardegna.

In Liguria si hanno tracce di questa pasta dalla fine del Duecento così come in Provenza è conosciuta con il nome di “croset”.

Giovanni Rebora (1932-2007), docente, scrittore e grande esperto di storia e cultura dell'alimentazione (personalmente conosciuto durante un master di cucina organizzato dalla piccola tavola dello Slow Food di Alessandria, della quale facevo parte), nel libro “La civiltà della forchetta”, riporta l’itinerario di questa originale pasta. Attualmente è ancora in uso in tante aree della Liguria (dove li preparano in circostanze di matrimoni, dedicando agli sposi i corzetti con le loro iniziali intagliate nello stampo che li timbra), a Carloforte e nei paesi confinanti con il Piemonte.

In Sardegna - is tallutzas - sono di origine antica e nella cultura contadina hanno mantenuto sia la forma che  la preparazione manuale in uso ancora oggi. - Is tallutzas - ricordano il procedimento delle lasagne “de lasanis” tipo di pasta tagliata a losanghe in uso durante il Medioevo. Una volta lessata in abbondante acqua bollente, veniva scolata molto al dente poi condita con formaggio pecorino stagionato, mentre pepe, spezie fini e zucchero erano ingredienti prerogativa dei signori. Il trattato di cucina “Liber de coquina” 1304-1314 circa, con quello dell'Anonimo Meridionale, contenevano una selezione di ricette, tra le più utilizzate nel quattordicesimo secolo nelle cucine della corte degli Angioini di Napoli e tra le altre, c’era la “deanis” - “de lasanis”.

Questa era preparata con pasta lievitata e nel Medioevo era il tipo di pasta più cucinato, mentre durante l’impero romano era tradizione servire alla mensa quotidiana le “lagane”, menzionate peraltro dal gastronomo romano Marco Gavio Apicio vissuto sotto Tiberio, nel suo trattato “De re coquinaria”.

Di una pasta simile se ne parla pure a Siddi, un grazioso paesino di origine Romana di circa 800 abitanti, in provincia di Cagliari, immerso nel centro della Marmilla, regione famosa per essere stata uno dei più importanti granai dell’antica Roma e attualmente una delle zone più produttive di grano Senatore Cappelli, importato in Sardegna agli inizi del 900.

In questa vasta e florida area di terreni ricchi di sostanze organiche, sorse la Giara di Siddi “Pranu de Siddi”, dal latino volgare “Casilli” che significa piccolo agglomerato di abitazioni, insieme di casolari. Col passare del tempo mutato in Hasili - Sili - oggi Siddi. Qui le massaie preparano le - tallutzas - ancora come un tempo, utilizzando parte dell’impasto del pane - cocccoi - pane tondo, preparato con lievito madre, acqua di fonte e sale.  Considerato che i ritagli di pasta residui tendono sempre a rassodarsi per via del contatto dell’aria, e per evitare di buttarli, dato che in cucina tutto è prezioso, le massaie  rimaneggiano questi ritagli formando delle sfere grandi come nocciole e le appiattiscono con la pressione del  palmo di una mano sulle cosce, ottenendo così le - tallutzas de coxia - còscia -.

Nella versione moderna ci si avvale dell’utilizzo della “nonna papera” o del matterello per spianare la pasta e quindi con l’aiuto di un coppa pasta o un bicchierino da liquore danno forma alle - tallutzaz -. Questa procedura un tempo era considerata un gesto rituale di tutto rispetto e le donne dei rioni erano solite ritrovarsi in casa di una o dell’altra e tra un - mutetos - ritornelli in dialetto sardo e una - ciacciarrada - crastulla - chiacchierata, passavano il dopo pranzo, sino a tardi e delle volte l’intera giornata, per preparare le - tallutzas -, considerate vera pasta delle feste.

Da non dimenticare i vari intingoli utilizzati per insaporire - is tallutzas - che di solito erano quelli a base di salsa di pomodori e pecorino per le famiglie meno agiate e per chi aveva più possibilità, preparati con la carne degli animali da cortile, oppure con quelli della porcilaia o dell’ovile - medau -, ma anche con i prodotti dell’orto e della campagna. 

In fin dei conti, serve veramente poco per fare qualcosa di buono: pomodori, - tallutzas -, pecorino, un pizzico di creatività e il piatto è pronto. E chi non mangia con me… Pasta lo colga!.

Ingredientis:

per la pasta; g 400 di farina di grano sardo rimacinata, acqua tiepida di fonte e sale q.b. per l’intingolo: una bella cipolla rossa di - Zeppara - (florido territorio della Marmilla), 2 pomodori secchi ben dissalati, un ciuffo di prezzemolo, g 200 di - purpuzza - carne di maiale battuta a coltello  ma senza il finocchietto o - sattitzu friscu - salsiccia fresca, vino rosso, g 500 di polpa di pomodori freschi ridotta a poltiglia, uno spicchio di aglio, un ciuffo di basilico e uno di timo sardo - armidda - zafferano San Gavino,  brodo vegetale, olio extravergine d’oliva, g 80 di pecorino grattugiato, sale e pepe di mulinello q.b.

Approntadura:

disponi la farina setacciata sul ripiano della madia, forma una fontana e al centro tuffaci tanta acqua leggermente salata che si riveli sufficiente (un bicchiere circa) ad ottenere un composto privo di grumi e malleabile, che lascerai riposare coperto in luogo fresco per un ora. Nel mentre prepara l’intingolo nel seguente modo: trita finemente la cipolla assieme ai pomodori secchi, il prezzemolo e il ricavato ponilo ad appassire dentro a un capace recipiente di terracotta - tianu mannu - insieme a un generoso giro di olio e dopo qualche minuto spruzza il soffritto con mezzo bicchiere di vino. Evaporato, tuffaci la carne e lasciala rosolare per una decina di minuti, subito dopo unisci la poltiglia di pomodori, l’aglio e prosegui la cottura dolcemente a recipiente semi coperto per una mezz’ora, aggiungendo del brodo bollente qualora la preparazione tendesse ad asciugarsi. Trascorso questo tempo, aggiungi il basilico spezzettato, il timo sgranato e tanto sale quanto ne occorre per insaporire la salsa. Fatto, prosegui ancora la cottura, sempre a fuoco lento per un altro quarto d’ora e  quando mancano pochi minuti al termine, impreziosisci il condimento con una presa di zafferano e una macinata di pepe, dai una mescolata, allontana il recipiente dal fuoco e tienilo al caldo. Arrivati a questo punto, rimaneggia la pasta tenuta da parte e forma tante  palline quante ne consente la massa, dopodiché appiattiscile con la pressione del palmo di una mano contro  la coscia (scegli tu quella destra o quella sinistra… si fa per dire), sulla quale avrai posto un panno da cucina leggermente infarinato per favorire l’operazione. Se invece vuoi sveltirla, poni le palline ad una ad una sopra al tagliere infarinato e con l’aiuto di un batticarne liscio sempre infarinato premi le palline fino ad ottenere dei dischi di un diametro di 5-6 centimetri (puoi mettere la pallina di pasta anche tra due fogli di carta oleata infarinata) e uno spessore di 3-4 millimetri. Man mano che prepari i dischetti, allargali su dei canestri foderati con dei panni bianchi da cucina ben insemolati ad asciugare. Una volta terminato l’impasto, lessa le - tallutzas - in abbondante acqua salata a bollore e non appena cotte al dente, scolale direttamente dentro al recipiente del sugo tenuto al caldo e padella velocemente il tutto, giusto il tempo che occorre per insaporire gli ingredienti. Portali in tavola fumanti cosparsi con il pecorino, un’ulteriore macinata di pepe e un filo di olio.

Vino consigliato: Monica di Sardegna superiore dal sapore sapido con tipico retrogusto asciutto.

 

 

 

 

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