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“L'ISOLA IN CUCINA” di Roberto Loddi de Santu ‘Engiu Murriabi - Ricette Agosto 2021

 Pàni pistau in brodu de pégura o pàni buddìtu  de Bonorva 

 
Bonorva - Bonòrva o Bonòlva - dal latino "Bonus Orbis" - “buona terra” oppure dalla radice latina urbs, urbis, di conseguenza “città buona”. È un paese che conta meno di 3500 abitanti (ma lo stesso territorio fu densamente popolato in epoca nuragica), posizionato nella regione storica del Logudoro e nella sub-regione del Meilogu, che si trova in provincia di Sassari, nel luogo in cui c’è l'altopiano di Campeda e ai suoi piedi la florida pianura di Santa Lucia.

In Sardegna nel 238 a.C. inizia la dominazione romana e Bonorva, diventa una provincia di età repubblicana e imperiale, nello stesso periodo nel quale il console Lucio Cornelio Scipione sconfigge a Olbia l’esercito dei cartaginesi comandato dal condottiero Annone, figlio di Bomilcare che muore in battaglia.

Durante il medioevo Bonorva vive sotto il comando del giudicato di Torres, accolto nella suddivisione amministrativa dei giudicati di Costavalle, l’allora capoluogo di Rebeccu (importante centro del Meilogu decaduto in seguito alla crescita di Bonorva), ora unica frazione del comune di Bonorva, dove il nucleo abitato secondo una leggenda non doveva superare le 30 case e  attualmente è una borgata del paese.

Nell’area circostante di Bonorva, nasce poi un’altra dimora signorile, Turchiddu e, successivamente i Malaspina la conquistano e ci vivono sino il termine dei giudicati.

L’archeologo, linguista ed etnologo Giovanni Spano, soprannominò Bonorva, la Siena sarda, per la purezza dell’idioma sardo-logudorese che viene pronunciato nel paese.

Bonorva è un centro contadino e agro pastorale, dove la vita in campagna è sicuramente dura e faticosa, ma la terra  è anche severa e incantevole, oltre a regalare eccellenti prodotti che vanno dai cereali agli ortaggi di qualità e vantare vigneti che producono vini di pregio.

La pastorizia e l’allevamento delle pecore, ma anche di capre, di maiali  e di cavalli, hanno ruoli importanti, questi ultimi in passato erano i mezzi di trasporto più utilizzati, sia per spostarsi da un paese all’altro, sia come mezzo di trasporto insieme a muli e  asini.

Con il latte si produceva ieri come oggi un ottimo formaggio con diversi gradi stagionature e pezzatura, mentre con la macellazione del maiale i norcini con la  collaborazione delle cuoche casalinghe continuano a produrre appetibili salumi e con il grasso “l’olio dei poveri”.

Nello stesso tempo i contadini con la loro fatica giornaliera continuano a coltivare i campi ricoperti di bionde spighe di grano e da quelle distese spuntano i colori accesi di tanti papaveri che seducono lo sguardo e invogliano il desiderio di rimanere soli con se stessi.

Raccogliere i frutti che la terra in ogni stagione offre generosamente e saperli trasformare in ricchi e deliziosi “bottini” che regalano al palato sensazioni indimenticabili, come il grano macinato e reso semola e  dopo una lunga e laboriosa lavorazione ricambiata in pane. Quel pane che ha un sapore unico, un aroma intenso quasi struggente e che conserva tutto il sapore autentico del passato.

Il - zichi - è un pane preparato con farina di grano duro con forma arrotondata e sottile di pochi millimetri, morbido che diviene croccante dopo parecchi giorni, da sempre lavorato dalle mani esperte delle cuoche di casa, che trattano l’impasto arricchito dall’immancabile lievito madre - su frammentu - su fremmentalzu - il lievito fatto in casa,  che per tradizione è utilizzato per far maturare l’impasto di ogni tipo pane.

Il pane - zichi - dei bonorvesi prodotto con una metodologia di lavorazione che risale alla preistoria e proprio grazie a questa abilità che oggi viene indicato come “prodotto tradizionale della Sardegna”. Questo pane è quello rustico che i pastori del luogo, durante il periodo di trasferimento da un territorio all’altro per permettere  alle pecore di brucare l’erba fresca e incolta dei terreni sassosi, consumavano con il  formaggio, la salsiccia, il guanciale, le olive, le cipolle, le erbe selvatiche sempre con  l’inseparabile coltello “pattada” e l’immancabile zucca colma di vino.

Il pane - zichi - infatti dura per lunghi periodi e una volta essiccato a Bonorva lo utilizzavano e lo utilizzano spezzato,  in sostituzione della pasta comune, in quanto ha la peculiarità di “tenere”  la cottura quasi come la pasta.

L’impiego più usuale era ed è quello di consumarlo in brodo, condito con un pesto di lardo e prezzemolo, finocchietto di campo, con l’aggiunta di patate, cipollotti, fave e salsiccia non troppo stagionata. Il - zichi - inoltre continua ad essere adoperato in parecchie altre ricette, sempre sapientemente dosato che immancabilmente trasmettono armonia di profumi, di festa, di sapori e tradizioni di casa.

Ecco perché ogni anno a Bonorva nel mese di agosto la Pro Loco, il Comitato promotore  e le Istituzioni, dedicano nel mese di agosto di ogni anno al - pane zichi - una sagra con degustazioni di piatti antichi e unici come quello - di ru pàni buddiu - del pane bollito di Bonorva.

Ingredientis:

g 400 di pane tipo zichi o spianata indurito, per il brodo: g 250 di lardo, un mazzetto di prezzemolo,  un mazzetto di finocchietto selvatico, 4 pomodori secchi, 2 spicchi di aglio, g 200 di salsiccia secca di poca stagionatura, 4 cipollotti con il verde, 4 patate, vino bianco secco, pecorino stagionato, olio extravergine d’oliva, sale e pepe di mulinello q.b.

Approntadura:

prima di tutto poni il lardo su di un tagliere e con un coltello a lama pesante riducilo a poltiglia insieme al prezzemolo, al finocchietto, ai pomodori secchi ben dissalati, all’aglio e il battuto ottenuto versalo dentro a un capace recipiente di terra cotta dalle pareti alte - padédda mànna - con la salsiccia a rondelle, un giro di olio, i cipollotti a pezzi, le patate a fettine e una spruzzata di vino. Quando evaporato, aggiungi 3-4 litri di acqua di fonte (nessuno ti vieta però di usare del buon brodo di pecora sgrassato e filtrato) e porta a bollore la preparazione. Nel mentre spezzetta il - pane zichi - e tienilo da parte in attesa che il brodo sia pronto. Non appena quest’ultimo ha preso il bollore, prosegui la cottura per un’ora, aggiusta il sapore di sale, impreziosiscilo con una macinata di pepe, poi tuffaci il - pane zichi - tenuto da parte e appena risulterà cotto al dente (circa una decina di minuti), scodella il - pani buddìtu - caldissimo dentro a quattro ciotole, condisci la zuppa con una generosa grattugiata di pecorino, un’ulteriore macinata di pepe, un giro di olio e porta immediatamente in tavola.

Vino consigliato: Cannonau di Sardegna dal sapore che varia dal secco all'abboccato, sapido, caratteristico, caldo, armonico.

 ***

Sa carapigna o carapinnia sarda

 Il sorbetto - granita, ha origini molto antiche, pare siano stati gli Arabi ad inventare e perfezionare la tecnica della lavorazione, in quanto erano esperti conoscitori di essenze. Infatti stivavano la neve caduta in inverno all'interno delle neviere (grotte che si trovavano in montagna) ricoprendola poi con parecchi strati di stoppie, per utilizzarla in un secondo tempo per la preparazione di squisitezze alla frutta, con spezie e profumo di fiori. Con il gelsomino, realizzarono un gelato di rara prelibatezza, tanto che ancora oggi a Trapani in Sicilia viene preparato con lo stesso nome arabo: Scursunera. Gli arabi inventarono anche i geli di melone, di mosto, di cannella, di gelsomino. L’origine è indubbia e, la conferma della paternità araba è la parola "sherbet" che potrebbe essere di origine indo - europea. Mentre la parola latina “Sorbere”, in italiano “Sorbire” è presente anche  in altre lingue indo - europee  come il Greco e il Persiano. Ecco perché risulta facile dedurre che gli Arabi abbiano scoperto la preparazione del sorbetto, infatti a seguito dell’occupazione dei territori dell’impero Persiano Sasanide e quello Bizantino, in queste zone era facile reperire il ghiaccio e la neve. Di conseguenza in Sicilia, gli Arabi nel loro dominio  (827 - 1091 d.C.), fecero ricorso alla neve dell’Etna, mescolata con del sale marino, per mantenere bassa la temperatura del sorbetto durante la sua lavorazione.

Già nell’antica Roma si parla di neve addolcita con il miele o il mosto d’uva, ma diverse sono leggende che raccontano aneddoti e storie affascinanti, come quella di Isacco che avrebbe dissetato Abramo con del latte di capra, mescolato a della neve.

Caterina de’ Medici nel 1533, promessa sposa del futuro Re di Francia, si portò dall’Italia, assieme ai suoi bagagli anche la straordinaria creazione a base di ghiaccio e sciroppo di zucchero odoroso e, con la preparazione del sorbetto riuscì a stupire il raffinato gusto della corte francese.

Successivamente, l’architetto, scultore e pittore Bernardo Buontalenti (Mastro Bernardo), che fu pure militare e scenografo, fece conoscere le squisitezze create con il ghiaccio nei simposi di corte, installando in Firenze adeguate neviere. Con il medesimo metodo, la granita fu proposta a Parigi anche del palermitano Procopio de’ Coltelli, creatore dell’illustre Caffè Procope, conosciuto poi come una delle più antiche caffetterie d’Europa. Durante il periodo medievale, i nivaroli, manodopera maschile utilizzata per accumulare la neve caduta sull’Etna, sui monti Peloritani,   Nebrodi e Madonie, erano addetti a  stivare la neve nelle neviere e a proteggerla dal calore dei mesi torridi d’estate. Infatti, in questi mesi la neve veniva portata con appositi contenitori in riva al mare per trasformarla poi in goduriose granite profumate.

In Sardegna, la carapigna - carapinnia - karapigna - astròre -, è una preparazione arcaica di vetusta provenienza. Giovanni Casciu nel suo - Vocabulariu Sardu Campidanesu - Italianu -,  dizionario che comprende oltre 25.000 lemmi, definisce carapigna, come “sorbetto che veniva venduto nelle feste dagli specialisti di Aritzo”. Mentre Anotonino Rubattu, nel suo dizionario universale della lingua di Sardegna lo chiama “sorbetto”. Il parroco Pietro Casu di Berchidda, nel suo vocabolario Sardo - Logudorese - Italiano, traduce la parola carapigna come “sorbetto - gelato”. Lo stesso Max Leopold Wagner, nel suo dizionario etimologico sardo ripropone carapigna, come “sorbetto”.

Oltre agli autori citati, ne seguono altri che sostengono più o meno la stessa analogia tra carapigna e sorbetto. La carapigna, ricorda la candida neve fresca, alla quale si aggiunge uno sciroppo a base di  zucchero, acqua e succo di  limone. La preparazione della carapigna (granita) in Sardegna è molto antica, infatti risale al milleseicento e la tecnica della lavorazione della neve la portarono gli spagnoli, che a loro volta la impararono dagli arabi, nel corso del loro dominio in Spagna.

Gli aritzesi che portavano i sacchi di iuta colmi di neve  nelle residenze signorili degli spagnoli a Cagliari, copiarono la capacità di trasformare la neve in gustose granite e ne diffusero la tecnica nell’Isola. Nascevano così le costruzioni  dei primi serbatoi per contenere la neve caduta, posizionati nell’area montuosa del Gennargentu.

Con lo stesso criterio dei siciliani, si accumulava la neve precipitata nel corso dell’inverno in fresche cavità, poi sigillate ermeticamente con delle frasche e nel periodo estivo veniva trasferita in paese e nelle località di vacanza, dove era molto richiesta dai commercianti che la trasformavano in gradevole - carapigna - carapinnia - sorbettu -  granita profumata con acqua, zucchero, succo di limoni gialli maturi e smerciandola nelle feste paesane in tutta l’Isola, servendola in piccoli bicchieri di vetro. La lavorazione non era semplice, ma alquanto faticosa, difatti  per prima cosa si poneva all’interno di un capace recipiente di legno di castagno - su barrile - uno strato di ghiaccio, dopodiché si introduceva - sa carapignera -  recipiente di metallo tipo stagno o zinco - oggi in acciaio inox e tutt’introno una miscela di ghiaccio e sale e - is carapigneris - così si chiamavano le persone addette alla preparazione - de sa carapigna -, dovevano darsi parecchio da fare per la riuscita del prodotto, che doveva risultare cremoso e senza grumi, per cui occorrevano un paio d’ore di lavoro impegnativo per ottenere un risultato soddisfacente.

Lavoro di tutto rispetto e capacità, considerato il fatto che non era facile mantenere la neve utilizzata per preparare la granita allo stato solido, in quanto veniva trasportata in sacchi di iuta ben compattati con della paglia, per evitare che si sciogliesse durante il trasporto. I tempi cambiano, le temperature climatiche anche e, di conseguenza non ci sono più le precipitazioni nevose di un tempo e quindi le neviere - nieras - sparse in diverse aree della Sardegna stanno scomparendo, portandosi dietro secoli di storia ma, non - sa carapigna - prodotto agroalimentare tradizionale della Sardegna che con l’aiuto dell’evoluzione e della tecnologia moderna,  rimane ancora in vita.

Ingredientis:

g 400 di acqua pura di sorgente oppure naturale minerale, g 200  di zucchero comune, g 200 di succo filtrato di limoni gialli non trattati, 1 limone giallo non trattato.

Approntadura:

prepara lo sciroppo, versando l'acqua in dotazione dentro una pentola d’acciaio, aggiungi lo zucchero e porta a bollore mescolando spesso il liquido. Quando l'ebollizione sarà avvenuta, mantienila per circa tre minuti. Trascorso il tempo, spegni il fornello, lascia raffreddare lo sciroppo e subito dopo ponilo in frigorifero fino al momento dell'uso. Solo allora, unisci il succo dei limoni e la scorza grattugiata dell’altro limone, mescola bene il tutto, dopodiché versa il composto acquisito nella gelatiera e fallo mantecare fino a quando otterrai una crema morbida, omogenea e priva di grumi. Terminata questa operazione, servi - sa carapigna - in bicchieri di vetro con un ciuffo di menta selvatica - menta de arriu -.

 

 

 

 

 

 

 

 

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