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“L'ISOLA IN CUCINA” di Roberto Loddi de Santu ‘Engiu Murriabi - Ricette Ottobre 2021

 Burrìda a sa casteddaia

 Sa burrida a sa casteddaia - burrida alla cagliaritana - è una preparazione caratteristica e tradizionale della Sardegna, in particolare di Pula e dell’area cagliaritana, Sulcis Iglesiente compreso. Come tante pietanze raffinate della cucina isolana,  non lesina nei profumi e tanto  meno  nei sapori che, da sempre esprimono un  valore primario di spiccata originalità. 

 

Sa burrida sarda - che si diversifica da quella ligure (a base di stoccafisso), viene servita come antipasto tradizionale in tanti ristoranti e trattorie  dell’Isola e in alcuni locali viene servita in abbinamento a fette di  bottarga - buttariga - di Cabras. - Sa burrida -, come le tante preparazioni a base di pesce è di origini fenicie, medioevali, spagnole e liguri, le quali hanno lasciato un’impronta indelebile sull’arte della  marinatura “escabeche o scapece”. Infatti per tale termine, prettamente spagnolo, si intende il metodo utilizzato per conservare il cibo cucinato con aceto, vino, olio ed erbe aromatiche, non a caso ancor oggi in Sardegna le varie metodologie di lavorazione restano inossidabili e resistono nel tempo.

La tecnica di preparazione abitualmente avviene facendo lessare o friggere gli alimenti nel grasso di maiale o olio extravergine d’oliva, al  quale  si unisce del  vino, erbe, spezie e aceto. Anche se la maestria di conservazione dei cibi è un procedimento che ha origini arabe, poi divulgato in tutta l’area mediterranea e quindi adottato dalla cucina spagnola. La parola in effetti proviene dal “farsi sikbâg o sikbaj” (per assonanza iskebech, da cui escabeche o escabetx in catalano) che vuol dire marinatura di un alimento con aceto di vino, uva passa e spezie persiane. Questa metodologia di conservazione appare anche nella celebre raccolta di novelle orientali scritta da differenti autori a partire dal X secolo, “Le mille e una notte”.

Dai catalani ai genovesi, dai piemontesi ai sardi il passo è  breve, ecco perché lo scabeccio - scabecciu - in sardo o carpionatura sono simili. Non a caso, proprio in Sardegna, la preparazione - de sa burrìda di gattucciu de mari - (la ricetta prevede che il pesce sia sventrato, lessato, poi marinato in olio extravergine d’oliva, con l’aggiunta di aceto di vino, noci tritate e una poltiglia di fegatini precedentemente estratti dello stesso pesce) è di derivazione ligure ma, per quanto possa sembrare strano, la ricetta originale è sarda.

Infatti è un’usanza tipica dell’Isola di condire abitualmente il gattuccio di mare o altri pesci come la razza. Il pesce viene lessato in un brodo vegetale, aromatizzato e condito con una emulsione a base di olio, aglio, prezzemolo, erbe aromatiche, aceto di vino, foglie di lauro, pinoli - opinu - e gherigli di noce - nuxi manna, - ridotti a poltiglia e la pietanza si consuma generalmente a temperatura ambiente dopo un paio di giorni di marinata, assieme alla sua salsa come antipasto o come secondo piatto.

Si può conservare in frigorifero anche per una decina di giorni e per dirla tutta, dopo qualche giorno la marinatura conferisce alla - burrìda - una succulenza veramente indescrivibile. Ma, come accade in tutte le ricette, diverse sono le varianti apportate, per esempio l’aggiunta di ciuffi di salvia, di cipolla tagliata ad anelli nel soffritto che prendono il colore rosa dopo la marinatura a base di vino e aceto rosso, donando così un eccezionale effetto cromatico al piatto.

Ingredientis:

kg 2 di gattuccio di mare, 1 bella cipolla di - sa Zeppara - localita della Marmilla, un mazzetto di prezzemolo, g 500 di aceto di vino, vino rosso, i gherigli di 30 noci, una manciata di pinoli (facoltativo), olio extravergine d’oliva, 3 spicchi d’aglio, 2 foglie di lauro, un  mazzetto di salvia, sale, pepe in grani e pepe di mulinello q.b.

Approntadura:

prima di Tutto, lava il pesce in acqua fredda, poi elimina la pelle, quindi sventralo e tieni da parte i fegatini per il sughetto (ingrediente fondamentale per inspessire la salsa, anche se si dice che siano leggermente tossici ma, d’altronde anche i funghi commestibili lo sono). Fatto, riduci i gattucci di mare a tocchi regolari e tuffali in una pignatta colma d’acqua salata a bollore aromatizzata con il lauro, qualche grano di pepe e appena l’acqua riprende il bollore, fai lessare il pesce per dieci minuti circa. Passato il tempo, scola i pezzi di gattuccio su un canovaccio bianco da cucina e lasciali asciugare. Nel mentre, trita finemente la cipolla e ponila ad appassire in  un capace recipiente assieme a un generoso giro d’olio e la salvia, dopodiché unisci i fegatini tenuti da parte battuti a coltello e falli rosolare dolcemente. A questo punto, accomoda i gherigli di noce dentro al bicchiere del cutter (se non lo possiedi utilizza il mortaio), aggiungi i pinoli, il prezzemolo, l’aglio schiacciato, aziona il pulsante e trita il tutto fino a quando avrai ottenuto una poltiglia che aggiungerai ai fegatini. Terminata questa operazione, prosegui la cottura sempre dolcemente per cinque minuti, subito dopo unisci l’aceto (il sapore dell’aceto va a gusti, chi  ne aggiunge di più chi di meno) e un bicchiere di vino e porta ad ebollizione. Allorché, versa una parte della salsa bollente dentro a un tegame di terracotta - strexu - cassarolla - sattaina -, su di essa uno strato di spezzatino di pesce, ancora altra salsa di noci e continua cosi sino al termine degli ingredienti. Coperchia la - burrida - e aspetta che si sia raffreddata prima di posarla in frigorifero ma, occorre aspettare almeno tre giorni di maturazione prima di poterla consumare e si manterrà anche oltre una decina di giorni, questo grazie all’azione conservante dell’aceto e grazie anche a chi non sarà così goloso nel fare piazza pulita al primo impatto, leccandosi i cosidetti baffi perciò… beati gli ultimi se i primi non saranno stati alquanto golosi.

Vino consigliato: Nuragus di Cagliari fermo, dal sapore sapido, armonico, leggermente acidulo, gradevole e  asciutto.

 ***

 

 

 Licori de ollioni o cerèsia de mari
 

Ancora oggi ho un bel ricordo delle piante di corbezzoli, di quando da bambino terminata la scuola, andavo in vacanza da  mia nonna (cuoca eccezionale che gestiva la mensa degli operai ed impiegati della miniera) ad Ingurtosu, frazione del comune di Arbus in  Sardegna.

Ingurtosu era una zona mineraria, molto nota nei primi anni del Novecento per l’importante estrazione di galena dalla quale si estraeva piombo, zinco e argento, nel complesso minerario chiamato filone di Montevecchio. La boscaglia circostante era ricca di piante mediterranee quali il corbezzolo, il mirto, il cisto, il lentischio, i lecci e tante altre ancora, una vera sinfonia di profumi che mi  sembra di avvertire ancora adesso al solo pensiero. Oggi Ingurtosu non esiste più, solo un agglomerato di case, abitate nella maggior parte solo d’estate, perché il paese è vicino alle spiagge incantevoli di Piscinas.

Il corbezzolo, anche chiamato - ceraso marino -  o - albatro -, ha origini molto antiche, infatti i romani gli attribuivano poteri magici e nell’Eneide, Virgilio racconta di come sulle tombe, i parenti dei defunti erano abituali deporre rami di corbezzolo in segno di stima e rispetto.  Il nome botanico - “Arbutus unedo L.”-  (ne mangio uno solo o "unu tantum edo", ossia "ne mangio uno soltanto", onde evitare che se mangiati in quantità eccessiva si ha un senso di nausea e stitichezza, facendo una chiara allusione alla scarsa gustosità dei suoi frutti), gli fu assegnato da Plinio il Vecchio.

Il termine generico ha un'antichissima derivazione dalle radici - celtiche 'ar' - che vuol dire “acerbo - asprigno - pungente”, laddove butus, significa “cespuglio”,  probabilmente in allusione al sapore aspro delle foglie e dei frutti e - unedo -, come già detto ne mangio uno solo.

Gli antichi Greci hanno dato il nome al Monte Conero chiamandolo Komaros, cioè cocomero che in dialetto anconetano significa corbezzolo. Sempre i Greci, nonostante il frutto risultasse essere alcolico se mangiato in quantità, lo amavano molto perché provocava uno stato di ebbrezza e ogni anno veniva organizzata la festa del corbezzolo, durante la quale si rendevano ebbri e quindi con un carattere più socievole e comunicativo.

Nell'antichità il corbezzolo era sacro alla dea Carna (Divinità Romana degli inferi, dei riti funebri e veniva usato per curare le malattie dei muscoli), adorata da Giano Bifronte “Ianus”, la divinità bicefala, il dio degli inizi materiali e immateriali, che viveva nel territorio dove sarebbe venuta alla luce Roma.

Una ninfa, con una fronda di corbezzolo sfiorò tre volte la porta della dimora dell’infante Proca, il futuro e leggendario re latino di Alba Longa, tutelandolo dalle Strigi (uccelli alquanto combattivi). Tanto è vero che la scultura che la ritraeva veniva adagiata davanti all’entrata della dimora per allontanare le anime cattive e probabilmente ancora oggi il corbezzolo viene apprezzato come una delle piante che cacciano le “messaline”, intese come tentazioni, nella notte di San Giovanni.

Il poeta latino Ovidio parla di corbezzolo per descrivere la vita nell'età dell'Oro.  

Giovanni Pascoli (vero nome Giovanni Agostino Placido Pascoli, detto il poeta vate - indovino) gli intitolò una poesia  riferendosi all'Eneide, quando Pallante o Pallade, personaggio della mitologia romana ucciso da Turno, l’antagonista di Enea, venne adagiato su un letto di rami di corbezzolo. Il Pascoli trovò nei colori di questo una straordinaria somiglianza col gonfalone italiano e giudicò Pallante l’antecedente eroe della causa patriottica. Effettivamente, nel Risorgimento di fine Ottocento era considerato un simbolo del tricolore.

Il Corbezzolo, in sardo - mela lidone - aridoni - lidone - olione - ollione - oióni - obioni - è la pianta colorata che fa gioire l’autunno, ritenuta elegante e gradevole, amante del sole e appena termina l’estate elargisce i suoi angelici e odorosi frutti per richiamare alla memoria la fragranza, l’ardore e l’iridescenza.

Le sue proprietà composite sono indicate come antinfiammatorio, antisettico, astringente, depurativo, diuretico, mentre le parti utilizzate  sono le radici, le foglie, la corteccia e i frutti. Il corbezzolo è originario del bacino del Mediterraneo e costa atlantica fino all'Irlanda, appartiene alla Famiglia delle Ericaceae ed è appurato che è una delle specie mediterranee meglio adatte agli incendi. Infatti sui terreni acidi, l'incendio ripetuto, favorisce la crescita del corbezzolo, capace di emettere rapidamente nuovi turioni dopo il passaggio del fuoco, crescendo rapidamente molto prima delle altre piante.

Il corbezzolo è una pianta sempreverde che può raggiungere un altezza che varia da pochi metri a oltre dieci metri, come i diversi esemplari che crescono nelle campagne di Villacidro in Sardegna ed abbelliscono lo scenario della vegetazione mettendo in risalto rami colmi di frutti. Fiorisce da ottobre a dicembre e fruttifica nell'autunno seguente. Il frutto è una bacca globosa di uno - due e più centimetri, rosso scura a maturità, edule, con superficie ricoperta di granulazioni e polpa carnosa con molti semi. Il fiore di questa pianta sboccia in autunno ed il frutto si matura in 12 mesi. Questa fioritura fuori stagione è molto utile perché prima dell'inverno consente alle  api di fare una riserva di miele di corbezzolo oltre a quello che avevano già fatto di vari tipi di fiori. Nelle giornate calde d'autunno quindi vanno a prendere il nettare dal fiore del corbezzolo e poi ne producono il gustoso miele.

In questa pianta in autunno si può vedere il fiore bianco ed il frutto nelle varie fasi di maturazione: verdastro quando non è ancora maturo, giallo-aranciato in una fase intermedia e rosso quando è completamente maturo. Il corbezzolo, insieme ad altre piante, caratterizza la macchia mediterranea.

C'è una farfalla dai colori meravigliosi che vive esclusivamente su questa pianta e perciò è chiamata “farfalla del corbezzolo”. Utilizzato in gastronomia, il corbezzolo si presta moltissimo alla realizzazioni di  composte, gelatine, sciroppi, succhi, creme, salse e canditi. Un'altra caratteristica del corbezzolo è quella della fermentazione per ottenere il vino e distillati con proprietà digestive. Dai frutti, foglie e fiori si estraggono principi attivi con proprietà astringenti, antisettiche, antinfiammatorie, antireumatiche e dalla corteccia si estraggono tannini utilizzati industrialmente per la produzione di coloranti e per la concia delle pelli.

Ingredientis:

kg 2 di frutti sani e maturi di corbezzolo, 2 litri di alcool per pasticceria a 96°, per lo sciroppo: litri 2,5 di acqua di fonte, kg 1 di zucchero comune, la scorza di un limone giallo non trattato, 1 stella di anice stellato.

Approntadura:

come prima operazione, monda i corbezzoli, eliminando  gli eventuali non sani e man mano che li pulisci, versali dentro ad un capace recipiente di vetro a chiusura ermetica. Terminata questa operazione, aggiungi l’anice stellato, la scorza del linone e l’alcool, quindi chiudi accuratamente il vaso e ponilo a macerare in luogo buio e fresco per due mesi. Trascorso il periodo di maturazione, filtra l’alcool e versa le bacche, la scorza del limone e l’anice stellato dentro a un recipiente nel quale farai bollire a fiamma moderata l’acqua e lo zucchero per un quarto d’ora, fino a quando avrai ottenuto uno sciroppo viscoso, che lascerai raffreddare completamente. Passato il tempo occorso, filtralo attraverso un colino a trama fitta con doppio strato di garza in un altro recipiente, dopodiché aggiungi l’alcool tenuto da parte, mescola delicatamente il liquore e imbottiglialo. Solo allora, tappa le bottiglie, etichettale e riponile in cantina al fresco e al buio. Lascia trascorrere almeno un mese prima di degustare il liquore a temperatura ambiente o fresco dal frigorifero, anche se è diventata una moda berlo appena tolto dal freezer.

 

Cunfittura de ollioni o cerèsia de mari

 

Ingredientis:

kg 1,3 di bacche sane e mature di corbezzolo, 1 bicchiere di vino tipo moscatello - muscadeddu -, g 500 di zucchero comune, 1 cucchiaino di polvere di scorze d’agrumi essiccate., il succo di due limoni gialli non trattati,

Approntadura:

lava i corbezzoli sotto il getto dell’acqua fresca, in modo da eliminare la polvere e i residui di foglie o quant’altro dai frutti. Fatto, ponili ad asciugare su un doppio telo da cucina e subito dopo accomodali dentro a un capace recipiente d’acciaio dalle pareti alte insieme al vino, lo zucchero, la polvere d’agrumi, il succo filtrato dei limoni e lascia cuocere il tutto per mezz’ora. Passato questo tempo, allontana il recipiente dal fuoco e con l’aiuto di un passaverdure, riduci a purea la frutta in modo da eliminare i semini, facendo cadere il ricavato dentro a un’altra pentola d’acciaio pulita. A questo punto, rimetti il composto sul fuoco e prosegui la cottura sempre mescolando a fiamma moderata, onde evitare che si attacchi  sul fondo. Quando sarà passata un abbondante ora, spegni il fuoco e versa la confettura dentro a dei vasi di vetro a chiusura ermetica, precedentemente fatti sterilizzare insieme ai propri tappi, in forno già caldo a 120° per un ora. Terminata questa operazione, chiudi accuratamente ogni vaso con il suo tappo, poi capovolgili dentro a una cassetta, quindi coprili con una coperta di lana e lasciali così fino a quando non si saranno raffreddati completamente. Solo allora, etichettali e ponili in luogo fresco al buio per almeno un mese, prima di consumare la confettura in abbinamento a formaggi vari o per la colazione, spalmata sui dei crostini di pane abbrustoliti e imburrati.

 

 

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