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“L'ISOLA IN CUCINA” di Roberto Loddi de Santu ‘Engiu Murriabi - Ricette Novembre 2021

 Spaghittus mesanus de sa di de’is mortus

È un fascino antico e suggestivo quello che avvolge la Sardegna nel giorno del ricordo e della commemorazione dei defunti, giornata venata di tristezza e malinconia, ma anche da sempre legata all’arte culinaria e non è la sola regione. L’intero Paese possiede un patrimonio inestimabile di usi e costumi, storie e leggende legati al mondo della cucina tipica, con il tema comune del giorno dedicato ai defunti. Le ricette sono così numerose che si perdono nel silenzio del tempo, da quelle dolci a quelle salate, e nelle località più svariate.

 

In tale periodo è consuetudine preparare le fave dei morti, che vengono modellate come il legume originale, le ossa da mordere -  ossa da morto o anche biscotti con sagome di cavallo, che presumibilmente sono da mettere in connessione con il mitologico rapimento di Proserpina (la dea rapita che ritorna ogni primavera). Figlia di Cerere (figura della mitologia romana, divinità materna della terra e della fertilità), rapita da Plutone, il re dell’Ade, mentre stava recidendo dei fiori lungo gli argini del lago Pergusa (l’unico lago della Sicilia, oggi riserva naturale speciale) poco distante da Enna, rapita con la forza e trasportata con una biga trainata da quattro cavalli neri,  diventa come sposa, suo malgrado, la regina degli inferi. Cerere, chiese a Zeus di liberare Proserpina, ma per tutta risposta, il padre di tutti gli dei concesse a sua figlia il permesso di emergere dagli inferi solo con l’obbligo di trascorrere sei mesi all’anno con Plutone. 

Stando ancora nel mondo delle leggende, si narra che nella ricorrenza dei defunti, le anime di questi tornano dal regno dei morti a quello dei vivi e il tragitto necessario  è complicato, distante e per far fronte a questa fatica si apparecchiano a tavola vivande e bevande a disposizione dei propri cari defunti, affinché si rimettano in forza, lasciando il tavolo imbandito per lunghi periodi.

Percorrendo la geografia del nostro Paese, scopriamo antiche usanze e consuetudini che ostinatamente resistono.

In Piemonte troviamo l’abitudine di apparecchiare la tavola con un piatto in più per i defunti che passeranno nella notte. Sempre in Piemonte e, in particolare ad Alessandria, si prepara, oggi come in passato la “zuppa di ceci” e le “fave dei morti”, dolci tipici a base di mandorle e pinoli o le “ossa da morto”, con le nocciole e la “supa ad coi”, zuppa di cavoli.

In Valle d’Aosta, diverse famiglie continuano la tradizione che si praticava un tempo, la sera di Ognissanti e la ricorrenza dei defunti, portavano in tavola per i loro cari passati ad altra vita, i “bons défunts” - buon morto, dando loro l’opportunità di consumare una cena a base di caldarroste, formaggio, pane, salumi e vino nuovo.

In Liguria invece si cucinava “stoccafisso e bacilli” - stocco e fave, mentre in diverse località della Lombardia, era tradizione lasciare sulla tavola un recipiente o un’anfora colmi d’acqua per dissetare i defunti. Nel Veneto l’usanza era quella di preparare le “faoline” - fave dolci per onorare i morti, così come facevano al tempo dei romani. In Trentino, nella notte della festa dei morti, si faceva rintoccare le campane a lungo, giusto il tempo di permettere alle anime di ritrovarsi davanti a una tavola imbandita con il camino lasciato acceso tutta la notte.

Nella credenza di tante località del Friuli si commemoravano i defunti, offrendo loro i “cjalzòns”, gli “njòks” - gnocchi, la “polente cuinzade cu lis jarbis”, ossia la polenta pasticciata alle erbe e ancora pietanze come acqua e farine, il “katschuln”, un tipico pane con una crosta spessa, che si deponeva direttamente sulle tombe con altri cibi come il “muini e i mocui”, “nonzolo e chierichetti”, “làvin a caciuèlis” - pagnottelle di pan-di-casa poi date in questua. Sempre in Friuli, si donava il grano messo in ampi cesti posti all'ingresso della chiesa e le famiglie più abbienti ponevano davanti alla propria porta d’ingresso dei cesti colmi di pannocchie di mais per i viandanti che passavano. 

In Toscana per l’occasione la tavola veniva opportunamente imbandita. In Emilia Romagna esisteva la “carità di murt”, cioè la consuetudine dei bisognosi di bussare alle porte delle case per domandare del cibo in modo da soddisfare la fame dei propri estinti.

Nel Lazio si preparavano le “fave dei morti", biscotti di consistenza più o meno dura a base di mandorle, pinoli, uova e zucchero. In Umbria, l’abitudine era quella di cucinare gli “stinchetti”, simili alle ossa da morto e si consumavano cercando di attenuare la malinconia di chi è passato miglior vita.

Appena terminata la guerra in Campania, si era soliti onorare i propri cari estinti ponendo a tavola uva appassita e fichi secchi, a Napoli invece aggiungevano anche i “morticelli” - torroni  morbidi. Nelle Marche era tradizione onorare i propri estinti con le “fave dei morti”, piccoli biscotti il cui profumo si diffondeva nelle cucine marchigiane durante le festività di Ognissanti. In Abruzzo, era abitudine decorare le zucche e bussare di porta in porta per chiedere offerte in memoria dei cari estinti. A differenza dei vicini abruzzesi, in  Molise per la festa dei morti si preparava una cena chiamata "r cummit", a base di “sagne e jierv” - tagliatelle con i cavoli verza, da consumare assieme a parenti ed amici, ma lasciando al termine alcuni piatti in tavola colmi di pasta per i defunti che sarebbero  venuti nella notte.

In Basilicata, era usanza per la festa dei morti lasciare la tavola apparecchiata per i cari defunti che sarebbero passati in visita. In Puglia, secondo un’antica leggenda era consuetudine lasciare la tavola apparecchiata con ogni ben di Dio per gli estinti che sarebbero passati e fermati fino a Natale e anche all’Epifania. In Calabria, onoravano i morti con la “lagana e ciciari” - pasta e ceci e le “dita di Apostolo” dolci a base di pasta di mandorle ripieni con marmellata di cedri, chiamati così perché forgiati a forma di una mano e in molti paesi era tradizione imbandire tavole per il  ristoro dei propri defunti.

In Sicilia, il giorno dei defunti era una ricorrenza molto sentita, che risale al X secolo. La leggenda narra che i cari estinti venissero a trovare i bambini, portando loro doni di ogni genere come  giocattoli e speciali biscotti: “crozzi 'i mottu” - ossa da morto, “pupatelli” farciti con mandorle tostate (simili ai cantucci toscani), taralli imbiancati con candida glassa dolce, i “nucatoli”,  dolci a forma di sigaro che venivano realizzati anticamente con una base di pasta frolla senza uova e ripieni di frutta secca e candita, i “tetù” - biscotti croccanti all’esterno e morbidi e granulosi all’interno, rivestiti con glassa di zucchero e cacao e ancora “’u canistrù” - un cesto colmo di primizie: cioccolatini, frutta secca e frutta di Martorana e gli immancabili “pupi ri zuccaru”, statuette di zucchero dipinte con glassa zuccherata. A Palermo vengono chiamati “pupaccena “ in onore della cena sacra. Sempre a Palermo, la mattina del giorno dei defunti si consumava la “muffoletta” - piccola pagnotta “cunzata” - farcita con olio buono, sale, pepe e origano, filetti di acciuga e formaggio.

Ed eccoci arrivati al termine dell’itinerario che ci conduce alla nostra splendida Isola.

In Sardegna, la cui terra è circondata da una natura incontaminata, bagnata da acque cristalline, boschi fioriti, terreni a tratti granitici, dove la bellezza dei luoghi è tutta da apprezzare, da cercare, conquistare, prendersene cura, e soprattutto amarla e difenderla.

La gente in Sardegna è da sempre legata a tradizioni millenarie, a salde radici con solide basi per trasmettere ai  giovani un futuro migliore, anche in momenti difficili e incerti come quelli attuali. I sardi in passato, a seconda dei luoghi ricordavano i defunti offrendo loro pane rustico, frutta secca, dolciumi e vino, il tutto messo a disposizione in occasione del loro passaggio sopra ad una tavola ben apparecchiata. Mentre i bambini di giorno andavano di casa in casa per la questua, chiedendo un obolo, che spesso era costituito dai - pabassinus - biscotti con frutta secca e sapa - saba -, per i cari defunti "pro su ‘ene ‘e sas ànimas" - per il bene o la pace delle anime.

Mentre a San Gavino Monreale, oggi conosciuta come “città dell’oro rosso” per l’importante produzione nazionale di zafferano, in occasione della festa dei morti si preparano come un tempo - sos spaghittus mesanus de sa di dei’ smortus cun bagna de caboniscu - spaghetti con sugo di galletto e zafferano.

Meditate gente... “dolcetto o scherzetto”?. O… “su mortu su mortu” o ancora “su “prugadoriu”?.

Ingredientis:

g 400 di spaghetti di grano duro, un galletto ruspante pronto a cuocere, una bella cipolla rossa, uno spicchio d’aglio, mezzo chilo di polpa di pomodori freschi, un ciuffo di timo fresco, un mazzetto di prezzemolo, g 80 di pecorino di media stagionatura grattugiato, zafferano San Gavino, vino bianco secco tipo nuragus, brodo, olio extravergine d’oliva, zucchero comune, sale e pepe q.b.

Approntadura:

riduci a piccoli tocchi regolari il galletto, eliminando le eventuali parti grasse, filamenti e tieni da parte il ricavato. Fatto, trita la cipolla finemente insieme all’aglio, il timo, il prezzemolo e il battuto ottenuto fallo stufare in un capace  recipiente di terracotta - tianu mannu - con un generoso giro d’olio, poi spruzza il soffritto con mezzo bicchiere di vino. Una volta sfumato, unisci lo spezzatino di galletto e lascialo ben rosolare, bagnandolo man mano con poco brodo vegetale bollente. Dopo una mezzora di cottura, aggiungi la polpa di pomodoro ridotta a poltiglia, un cucchiaino di zucchero, un pizzicone di sale, una lodevole macinata di pepe e prosegui la cottura fino a quando la salsa si sarà ristretta e risulterà vellutata. A questo punto, aggiungi una presa di zafferano diluito in poco brodo bollente e intanto che il sugo cuoce, poni sul fuoco una marmitta colma d’acqua. Non appena accenna il bollore aggiungi il sale e subito dopo gli spaghetti (la ricetta originale prevede gli spaghetti “mezzani” - spaghittus mesanus -, tipo di pasta prodotta artigianalmente negli anni 50 e messa ad asciugare su appositi bastoni). Quando saranno al dente, scolali direttamente dentro una zuppiera preriscaldata, condiscili con il sugo di galletto e prima di servirli cospargili abbondantemente con il pecorino che hai in dotazione.

Vino consigliato: Mandrolisai rosato, dal sapore asciutto, sapido con retrogusto amarognolo, armonico, vellutato e caratteristico.  

 

***

Sos andarinos cun purpuzza e pillonazzu

 

 

Usini è un paese tipico del Logudoro, poco distante da Sassari. Conosciuto oltreché per la produzione di tanti prodotti agroalimentari di qualità superiore, anche per - sos andarinos -, formato di pasta casalingo molto antico della cucina rurale usinese (nonostante sia di incerta provenienza, la lavorazione manuale conferma una tradizione agreste che ha le proprie origini in un passato glorioso della Sardegna).

Fin dai tempi delle dominazioni genovesi e pisane, la Sardegna con i suoi pastifici era ritenuta un fiore all’occhiello al passo con i tempi (tant’è vero che a Napoli la pasta veniva chiamata “pasta di Cagliari”) e, lo fu senza sosta fino all’occupazione degli iberici. La pasta veniva esportata nelle città portuali di Genova, Pisa, Napoli e nella Catalogna,  ne è testimone la presenza anche a Trisobbio, paesino dell’ovadese in provincia di Alessandria, dove tuttora si cucinano  gli “andarini”, formato di pasta  simile alle trofie della vicina Liguria, che si cucinano in brodo di gallina o di cappone durante il periodo dei festeggiamenti natalizi e pasquali.

Da testimonianze scritte risultano notizie di - andarinos - già nel XVII secolo e la prima documentazione la fornisce il canonico Martin Carrillo, detto il “visitatore”, deputato del Regno e Rettore dell'Università di Saragozza, noto per la sua integerrima onestà, incaricato dal re Filippo III di Spagna allo scopo di relazionare sull’andamento amministrativo del Regno nell’Isola. Nei giorni in cui svolgeva le sue indagini fu invitato a un banchetto ufficiale offerto dal dottor Antiogo Marcello rettore di Mamoiada. Nella lista delle vivande, fra i vari servizi, comparivano - sos andarinos - “los andarinos” in catalano.

Tuttavia, nei primi anni del XVIII secolo, fu il padre domenicano Jean-Baptiste Labat o semplicemente Père Labat (religioso, botanico ed esploratore francese, ingegnere, militare, etnografo e scrittore), a segnalare - sos andarinos - come un formato di pasta casalinga confezionata manualmente dalle casalinghe dell’Isola.

Oggi come allora la ricetta è sempre la stessa. Abili mani, con movimenti sapienti assottigliano dei tocchetti di pasta, dando loro una forma elicoidale che, come già detto, somigliano in un certo qual modo alle trofie liguri.

Le donne del luogo, vestite per le grandi occasioni con la gonna d’orbace (genere di tessuto già in uso per confezionare il vestiario dei soldati romani) e l’immancabile grembiule bianco - pannéllu - pannéddhu -, preparano in segno di amorevolezza  come una volta - sos andarinos -: un impasto di semola di grano duro sardo, acqua tiepida e sale, stando sedute attorno a - sa mesa - primordiale tavolo in legno, quello che utilizzavano un tempo per impastare il pane, usando una tavoletta o un vetrino rigati.

In passato si ricorreva all’aiuto - de su chiliriu - xibiru - crivello fatto di giunchi o di asfodelo a forma rotonda. - Sos andarinos - andarinus -, una volta preparati, si facevano e tuttora si fanno asciugare all’aria aperta o al sole, allargati nelle - canistreddhas - ampi canestri, utilizzati pure dai panettieri per accomodarci il pane.

Anticamente era la pasta della domenica e delle feste e - sos andarinos - venivano conditi con - su ghisau o ghisadu -, il classico sugo dei sardi preparato con carne di maiale o pecora, ma anche con carne di agnello, di manzo o con gli animali dell’aia, con l’aggiunta di cipolle o cipollotti, odori dell’orto, pomodori freschi o secchi ed erbe aromatiche e zafferano, il tutto condito con una bella spolverata di pecorino stagionato e pepe macinato al  momento.  Ogni anno a Usini viene dedicato un appuntamento gastronomico, sempre all’insegna della tradizione contadina.

Ingredientis:

per la pasta: g 400 di farina di semola di gran duro di Sardegna, acqua e sale q.b. per il condimento: g 400 di - purpuzza - carne di maiale tagliuzzata o macinata grossolanamente, usata per preparare la salsiccia sarda, g 500 di polpa di pomodori ridotta a poltiglia, 4 germogli di cipolla - pillonazzu -, 2 spicchi d’aglio, un ciuffo di - armiddha - timo sardo, un ciuffo di rosmarino, 2 foglie tenere di alloro, bacche di ginepro, zafferano San Gavino, g 80 di pecorino sardo stagionato, g 40 di guanciale - grandua -, vino bianco secco tipo  vermentino, aceto di vino  bianco, brodo, olio extravergine d’oliva, sale e pepe in grani e  di mulinello q.b.

Approntadura:

qualche giorno prima dell’esecuzione della ricetta, disponi la farina a fontana su un piano di lavoro, al centro tuffaci una presa di sale e tanta acqua quanta ne occorre per ottenere un impasto di giusta consistenza, liscio e malleabile, che lascerai riposare avvolto in frigorifero per un’ora. Trascorso questo tempo, preleva dei tocchetti di pasta e rendila sottile come un maccherone (spaghetto grosso), ricava dei cilindretti regolari di sei - otto centimetri circa e con la pressione del pollice di una mano premili su una tavoletta o una superficie di vetro rigati, facendoli roteare in senso elicoidale, in modo da creare dei fusilli a forma svasata, che lascerai asciugare su un piano infarinato al sole per un giorno o due. Nel mentre che la pasta si asciuga, il giorno prima dell’utilizzo, metti a marinare la carne (nella tradizione di Usini nel condimento è prevista oltre alla carne di maiale, una parte di quella di pecora e l’intingolo prende il nome di ghisadu) in un recipiente d’acciaio insieme a una parte di aceto e due di vino, alcuni grani di pepe e bacche di ginepro pestati, una presa di sale grosso, i germogli di cipolla, le foglie di alloro, il rosmarino, il timo, e l’aglio. Il giorno dopo, estrai la carne dalla marinata e tienila da parte, poi preleva gli odori e tritali molto finemente, accomoda il battuto ottenuto dentro a un - tianu mannu - capace recipiente di terracotta insieme a un generoso giro d’olio, il guanciale battuto a coltello e ridotto a poltiglia, subito dopo fallo rosolare in questo grasso e irroralo con una spruzzata di vino. Quando evaporato, aggiungi la - purpuzza - carne tagliuzzata con un coltello a lama pesante, qualche minuto dopo la polpa di pomodori e prosegui la cottura dolcemente bagnando l’intingolo con del brodo vegetale bollente, qualora tendesse ad asciugarsi e qualche minuto prima del termine, regola il sapore di sale, impreziosiscilo con una macinata di pepe e una presa di zafferano. Terminata questa operazione, lessa la pasta preparata qualche giorno prima in abbondante acqua salata a bollore e appena al dente scolala direttamente dentro al recipiente del condimento. Padella velocemente il tutto a fiamma vivace, giusto il tempo che occorre per fare insaporire gli ingredienti. Servi - sos andarinos - immediatamente - incasaus - cosparsi con il formaggio e una macinata di pepe.

Vino consigliato: Alghero cagnulari rosso, dal sapore asciutto, armonico e leggermente tannico.

 

 

 

 

 

 

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