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“L'ISOLA IN CUCINA” di Roberto Loddi de Santu ‘Engiu Murriabi - Ricette Dicembre 2021

 Tzuccuru cun s’arrubi’e s’ou o s’arravell’e ‘ou

È molto probabile che lo zabaione sia stato una di quelle preparazioni che i cuochi di corte, presenti in Sardegna nel periodo Sabaudo (1720-1871), ci hanno lasciato in eredità.

D’altronde anche il  popolo sardo, semplice ed orgoglioso, ha insegnato loro diverse tecniche di cucina e manipolazione, che ancora oggi sono presenti nella gastronomia piemontese. Non a caso Giovanni Vialardi, esperto cuoco di cucina torinese e piemontese, nel 1854 pubblica il suo “Trattato di cucina, pasticceria moderna, credenza e relativa confettureria” e fra le tante ricette, troviamo quelle piemontesi, valdostane, nizzarde, genovesi e sarde. Tutte aree che facevano parte del Regno di Sardegna e tra queste parla anche di zabaione.

 

Lo zabaione è quindi un dolce al cucchiaio molto antico e in tante regioni d’Italia, Sardegna compresa è  tradizione proporlo per le feste natalizie, sebbene viene gradito e servito anche in altri periodi dell’anno. Essendo un dolce particolare è bene prestare molta attenzione nel prepararlo e le materie prime impiegate devono essere molto fresche per poter ottenere uno zabaione insuperabile.

Molte sono le leggende, le storie e gli aneddoti che ne rivendicano la paternità. Fra le tante, la più curiosa e verosimile sull’origine del dolce, pare sia quella riferita al frate Frà Pasquale de Baylon (1540 - 1592) di Torino, al quale dopo la sua santificazione nel 1680 è legato il nome, tanto è vero che ancora oggi in Piemonte lo zabaione si chiama “Sambajon”, in onore del santo che è anche protettore dei cuochi e dei pasticceri.

Un'altra storia affascinante narra che il militare Emiliano Giovanni Baglione (o Baglioni ma è solo una supposizione), in dialetto emiliano Zvàn Bajòun, capitano di ventura italiano che intorno al 1500 si trovava accampato nei pressi di Reggio Emilia e, vista la carenza di viveri, si senti costretto  a trovare una soluzione e quindi ordinò a un drappello di soldati di procurare del cibo a ogni costo, anche depredando i terreni e le cascine dei contadini circostanti la città. Ma la razzia non risultò poi così fruttifera, infatti i soldati rimediarono in abbondanza solo delle uova, dello zucchero e fiaschi (rivestiti con paglia di erbe palustri) di vino e non sapendo come combinarli, il capitano fece casualmente mescolare gli ingredienti, dando così il ricavato come pasto per rifocillare la truppa. L’improvvisata minestra, peraltro alquanto piacevole, prese il nome da ‘Zvàn Bajòun’ diventando prima ‘Zambajoun’, poi Zabajone e infine Zabaglione.

Un'altra fonte attendibile viene da Mantova, dove Bartolomeo Stefani, capocuoco presso la Corte dei Gonzaga nella seconda metà del XVII secolo, nel suo ricettario “L'arte del ben cucinare" parla di zambalione. Lo stesso Martino da Como scrive: per “fare bono zabaglione” nel suo “Libro de arte coquinaria”.

Nel 1533, un dolce simile allo zabaione risulta servito in forma ghiacciata alla corte di Caterina de' Medici, mentre secondo alcune tesi, il nome zabajone potrebbe derivare da zabaja, bevanda dolce consumata in passato a Venezia. A Firenze lo scrittore, gastronomo e critico letterario romagnolo Pellegrino Artusi di Forlimpopoli, pubblica nel 1891 presso la tipografia "L'Arte della Stampa" di Salvadore Landi,  “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”, manuale pratico per le famiglie, dove cita alcune ricette che parlano di crema, di biscotti da servirsi con lo zabaione e di sformato di savoiardi con lo zabaione. Tante altre ancora sono le versioni narrate nei secoli e a noi  consumatori non rimane altro  che domandarci a quali credere.

Beh!... Intanto una cosa è certa, tutte le storie pervenute, sono tutte molto suggestive ed affascinanti, perciò per non screditarne alcuna, non rimane altro che rimboccarsi le maniche e armarsi di polso… Ops… polsonetto (recipiente di rame a fondo bombato) e porlo sul fuoco a bagnomaria con tuorli d’uovo, zucchero, liquore e… .buon Sambayon - Zvànbajopun - zabajone ma… anche buon - óu iscumbàtiu - óu abatàu - frèsa ‘e óu - uovo sbattuto o semplicemente buon  zabaglione a tutti.

Ingredientis:

4 tuorli d’uovo freschissimi, 8 mezzi gusci di zucchero comune, 8 mezzi gusci di vino tipo moscato (muscadeddu), 1 guscio d’acqua, 1 pezzo di burro, 1 limone giallo non trattato, cannella in polvere o  noce moscata a piacere, burro q.b.

Approntadura:

poni i tuorli dentro a un recipiente d’acciaio (l’ideale sarebbe il polsonetto o  bastardella di rame) atto a stare dentro ad un altro leggermente più grande, nel quale poi ci verserai dell’acqua per la cottura a bagnomaria. Ciò detto, aggiungi lo zucchero, una noce di  burro, la buccia grattugiata di mezzo limone, una spruzzata di cannella o una di noce moscata, oppure entrambe le spezie e inizia a frustare il composto fino a quando diventa spumoso, poi metti il recipiente sul fuoco e fallo cuocere a fiamma moderata per evitare che l’acqua del bagnomaria prenda bollore. Fatto, unisci a filo il vino, l’acqua e con l’aiuto di una frusta inizia a sbattere lo zabaione in modo da incorporare più aria possibile per farlo gonfiare e prosegui in questo  modo fin quando l’acqua non prende il primo  bollore. Solo allora, allontana il polsonetto - strexu - dal fuoco e sempre mescolando versa lo zabaione dentro a delle scodelle, abbinandolo a dei biscotti savoiardi sardi (savoisardi - savosardi) e servi. Se lo preferisci puoi comunque consumarlo anche una volta raffreddato con un ciuffo di mentuccia selvatica fresca - menta de arriu -.

Vino consigliato: Moscato di Cagliari liquoroso riserva, dal sapore vellutato che  ricorda l'uva  dolce.

 

                                                           ***

 

Su cixirau de sa nott’e xena

 

Il cece è una pianta che proviene dall’Oriente ed è un legume del quale l’uomo  si ciba da circa ottomila anni, infatti nei menu dei romani oltre ai ceci erano presenti anche le fave, le cicerchie, i lupini, i piselli, le lenticchie, ma anche funghi e tartufi, che erano ritenuti già allora alimenti ghiotti.

I ceci si diffusero da prima in Egitto in qualità di alimento semplice dato come cibo agli schiavi, assieme ad aglio e cipolle perché, oltre al valore energetico questi ortaggi prevenivano ogni genere di malattia. In un secondo momento si propagarono in tutta l’area del Mediterraneo, tant’è che Orazio evidenzia come piatto preferito dai Romani, quello dei ceci fritti in olio d’oliva  e lo era anche quello dei gladiatori, che prima di ogni combattimento, per avere una consistente fonte di energia si rifocillavano con delle zuppe di ceci.

Il cece “Cicer arietinum L.” è una pianta erbacea che appartiene alla famiglia delle “Fabaceae” e trae le sue origini dal termine “aries” ariete (a causa della sua forma non perfettamente sferica). I Romani con la locuzione “cicer” indicavano anche le persone che sul volto avevano una sporgenza col profilo di un cece e proprio per questo motivo, l’avvocato, politico, scrittore, oratore e filosofo romano, Marco Tullio Cicerone “Marcus Tullius Cicero” fu così denominato.

In tempi remoti ai ceci si accostavano strane insinuazioni, legando a questi poteri afrodisiaci. Anche Galeno di Pergamo, medico greco antico, attribuisce qualità afrodisiache alle piante verdi dei ceci, tanto che venivano date come pasto ai cavalli perché ritenuti per l’appunto stimolanti. Lo stesso Plinio afferma che i ceci migliori “ceci di Venere” venivano messi a disposizione sui tavoli per cibarsene durante le veglie rituali e nel corso di questi appuntamenti amorosi (meglio conosciuti come “pervigilia Veneris”) e, durante lo svolgimento di queste baldorie, le persone si sostenevano abbondantemente con piatti a base di ceci.

Una curiosità originale narra che durante la rivolta dei Vespri siciliani nel 1282, il termine ceci serviva come salvacondotto alle persone che circolavano a Palermo, in quanto se sospettate di  essere stranieri si domandava loro di scandire il termine ciceri e, se lo pronunciavano con l’accento sulla i, i malcapitati  venivano smascherati.

Anche in Sardegna il cece ha una lunga storia, difatti gli isolani se ne cibano da sempre e lo cucinano in tantissimi modi, dolci compresi. Tanto è vero che, un piatto tradizionale delle feste natalizie in Sardegna è quello che si consumava e che tutt’ora si consuma la notte della vigilia: su - cixirau - il dolce di ceci. Si suppone che sia un dolce di origini molto antiche, lasciato in eredità dal passaggio nell’Isola degli arabi, molto probabilmente già nell’Ottavo secolo e, le monete ritrovate tra alcuni reperti lungo le coste sarde, fanno supporre che risalgano a quel periodo, anche se le incursioni degli etnici si alternarono ancora per diversi secoli.

Su cixirau - è un dolce molto semplice, cucinato dalle massaie con ingredienti modesti ed è di chiara origine rurale che si perde nella notte dei tempi. Infatti erano le famiglie più dimesse a potersi permettere la preparazione di questo dolce. - su cixirau - è tipico del paese di Sarrabus-Gerrei, in provincia di Cagliari, infatti per tornare alla provenienza del dolce, il nome del paese deriva da - is arabus - gli arabi per l’appunto, che con tenacia e irruenza attaccavano i litorali del territorio. Questo per rimarcare il fatto che il dolce, caratteristico dei sarrabesi è uno di quelli che esprime un arte culinaria umile, tramandata da generazioni con tracce passate sedimentate, che esaltano ancora oggi l’arte di cucinare bene in Sardegna.

- su cixirau -, per quanto sia preparato con ingredienti poveri, risulta essere un cibo salutare, dotato di qualità eccellenti e per Natale consideratevi fortunati se vi capita di poter degustare questo delizioso timballo. 

Ingredientis:

g 400 di ceci sardi, g 180 di zucchero comune o miele, 2 cucchiai di semola di grano duro, g 180 di caffè della moka (un bicchiere scarso), 1 cucchiaino colmo di scorze grattugiate d’arancio e di limone giallo non trattati, 1 cucchiaino raso di polvere di scorze essiccate di mandarini, un quarto di cucchiaino raso di cannella, noce moscata, finocchio, macis e garofano in polvere miscelati insieme, bicarbonato e sale, zucchero al velo o confettini colorati tragera - tragea - dragea q.b.

Approntadura:

la mattina del giorno prima, poni a bagno i ceci assieme a un cucchiaino di bicarbonato (di solito occorrono 24 ore per un ammollo corretto), che devono essere del tipo - bell’a coi - buoni da cuocere, così vengono indicati i legumi migliori in Sardegna. L’indomani, lavali accuratamente, eliminando residui vari e ponili a lessare in abbondante acqua fredda dentro a un recipiente di terracotta - olla -, porta ad ebollizione e lascia cuocere i ceci per un’ora circa a fiamma dolce (questo accorgimento serve per mantenere inalterate le proprietà nutrizionali) e mescolali solo con un cucchiaio di legno. Trascorso il tempo occorso, aggiungi una presa di sale, mescola e verificane la consistenza, i legumi devono rimanere cotti ma non sfatti, poi scolali (tieni da parte l’acqua), passane al setaccio la metà e tieni da parte il resto. Fatto, aggiungi alla crema ottenuta, il caffè della moka addolcito con lo zucchero o con il miele, oppure metà e metà (in passato si utilizzava il caffè di cicoria amara in quanto il caffè  quello vero costava parecchio e di conseguenza occorreva aggiungere al dolce più zucchero o del miele), la scorza degli agrumi, la miscela di spezie (diverse massaie per insaporire - su cixirau - utilizzano la saporita), la polvere essiccata di mandarini e rovescia dentro a una pignatta il composto. Terminata questa operazione, aggiungi i ceci interi tenuti da parte, mescola il tutto delicatamente e fai cuocere il composto a fiamma moderata, cospargendolo a pioggia con la semola per farlo asciugare ma, qualora si addensasse troppo allunga la preparazione con poca acqua di cottura dei ceci. Arrivati a questo punto, riversa il dolce in una tortiera di ceramica e lascialo raffreddare. Solo allora, prima di servirlo, cospargilo con abbondante zucchero al velo o confettini colorati tragera - tragea - dragea -.

Vino consigliato: Marroneo passito vendemmia tardiva da uve cannonau in purezza, dal sapore dolce generosamente caldo con trama vellutata, non stucchevole,  equilibrato, armonioso ed elegante.

 

 

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