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L'ISOLA IN CUCINA di Roberto Loddi de Santu ‘Engiu Murriabi – Rìcette Aprile 2022

 Canciofa de Masainas cun petza de angioni

 Come la maggior parte dei paesi della Sardegna, anche Masainas, paese di circa 1300 abitanti in provincia di Carbonia-Iglesias, affonda le proprie radici nel lontano Neolitico (periodo della preistoria e ultimo dei tre che costituiscono l'Età della pietra), nell’area della spiaggia di Is Solinas, nel luogo in cui sono stati rinvenuti resti di presenza umana.

 

Con il passare del tempo il territorio è stato occupato da diversi insediamenti nuragici, ha subito l’invasione dei fenici e dei punici, successivamente dopo la conquista di Solki (l’attuale Sant’Antioco) sino all’insediamento dei romani. Infatti proprio risalendo a quel periodo, tra Masainas e Giba sono emersi dei resti che riconducono alla lavorazione di utensili di terracotta.

Il caso ha voluto che in circostanze naturali, siano stati rinvenuti dei sarcofaghi di pietra, sepolti nel terreno sabbioso, rendendo così queste sepolture rare in tutta l’Isola.

Spostandoci nel territorio di “is Manigas” sono venute alla luce delle monete del periodo romano, mentre nel sito di “Serra Lepuris” sono emerse due tombe scavate nella roccia e protette con un pesante  lastricato.

Intorno al 1200 il paese, assieme a quelli di Villarios e Giba, fu terra di predicazione e diffusione della fede cattolica da parte di monaci Benedettini, che edificarono dei monasteri e conventi - guventus de is paras - chiamati in questo modo ancora oggi. Altre edificazioni come la chiesa di San Giovanni Battista, richiamano l’ascendenza architettonica gotico-aragonese.

Nell’attuale centro del paese, sorgeva un - medàu -  insediamento agropastorale, tipico del Sulcis-Iglesiente, successivamente trasformatosi in un - boddeu - borgata di caseggiati rurali, dove intorno al XVIII secolo fu edificata una chiesa.

Nel 1820 Masainas divenne un fulcro produttivo nel campo agropastorale, con una massiccia partecipazione di contadini e pastori provenienti da diversi luoghi della Sardegna.

Oggi Masainas è un ridente paese adagiato in prossimità del golfo di Palmas, che conserva il sapore del passato, dove è sempre l’uomo ha coniugare armonicamente arte e natura. La vita in campagna è dura e faticosa e la terra pur severa è incantevole, il territorio è contornato da  immagini fiabesche che non hanno eguali al mondo, un territorio ricco di storia, di leggende, di meraviglie e bellezza.

Un mare cristallino in un paradiso di acque azzurre e profonde che si confonde con il cielo e una natura incontaminata che è luogo di sogno per gli amanti dell’ambiente che sicuramente apprezzano gli stagni adiacenti alle spiagge di Masainas con schiere di cormorani, di cavalieri d’Italia e fenicotteri rosa.

La campagna del paese è in maggior parte dedita alla viticoltura, con vitigni di Monica di Sardegna e Carignano del Sulcis e all’agricoltura, dove spicca la coltivazione dei carciofi spinosi, ai quali ogni anno,  nel mese di aprile, la Pro loco in collaborazione con l’Amministrazione comunale, dedica una sagra a questo straordinario ortaggio, con iniziative di vari genere, con degustazioni a base di carciofi e vini del territorio, sia a pranzo che a cena.

Ingredientis:

kg 2 di spalle d’agnello sardo, 8 carciofi spinosi di Masainas,  1 limone giallo non trattato, una cipolla di - Zeppara - (esteso territorio florido della Marmilla), 3 spicchi di aglio, 4 pomodori secchi - pibadra - piarra - ben dissalati,  rosmarino, un mazzetto di prezzemolo e uno di timo, un ciuffo di foglie nuove di mirto tenerissime, vino bianco giovane tipo vernaccia, brodo vegetale, olio extravergine d’oliva, sale e pepe di mulinello q.b.

Approntadura:

prima di tutto pulisci attentamente i carciofi, prestando parecchia attenzione per non pungerti con le spine, elimina le foglie esterne più dure e tagliali a spicchi, poi elimina la barbetta, le eventuali spine rimaste nel cuore dell’ortaggio e mano a mano tuffali dentro a un recipiente contenente una soluzione di acqua e succo di limone, oppure con alcuni gambi di prezzemolo, questo accorgimento serve per non fare annerire i carciofi. Terminata questa operazione, rifila la carne eliminando le parti grasse e l’eventuale timbro rosso impresso dal veterinario nella macellazione, quindi riducila a tocchi regolari, accomodala dentro a un recipiente d’acciaio assieme a dei rametti di rosmarino e di timo,  bagnala con del vino bianco e tienila da parte a marinare. Intanto, trita finemente la cipolla con i pomodori secchi, gli aghi di un rametto di rosmarino, le foglie di mirto e il battuto ottenuto fallo appassire dentro a un ampio tegame di terracotta - tianu mannu - unitamente ad un generoso giro di olio. Trascorso qualche minuto, aggiungi due spicchi di aglio schiacciato, la carne sgocciolata dalla marinatura e lasciala rosolare da ambo le parti, in modo  da sigillarla per evitare la fuoriuscita degli umori, dopodiché bagna l’agnello con una cospicua spruzzata di vino. Evaporato, allunga la preparazione con del brodo bollente e prosegui la cottura dolcemente a recipiente coperto per circa un’ora, aggiungendo dell’altro brodo, qualora il fondo di cottura tendesse ad asciugarsi. Quando manca un quarto d’ora circa, regola il sapore di sale e impreziosiscilo con una lodevole macinata di pepe, allorché aggiungi all’agnello i carciofi scolati tenuti da parte, avendo l’accortezza di posizionarli tutti sopra alla carne, questo accorgimento servirà per permettere ai carciofi di assorbire tutti gli aromi e umori del sughetto, cospargili immediatamente con il prezzemolo ed il restante aglio tritati molto finemente, una presa di sale, un ulteriore macinata di pepe e una mestolata di brodo. Copri il recipiente e prosegui la cottura. Quando i carciofi si riveleranno cotti al dente, scoperchia il tegame e lascia restringere parzialmente la salsa, subito dopo servi la vivanda in piatti individuali con i carciofi, il tutto impreziosito con parte della sua salsa ristretta.

Vino consigliato: Cannonau Istiga di Arbus, dal sapore asciutto e morbido, caldo, con ottima struttura, persistente, giustamente tannico e armonico, secco, dal tipico retrogusto amarognolo.

 

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Cocca bamba de spizia e fui o pitziadroxiu de Vallermosa

 

L’utilizzo delle erbe ha origini antiche come la notte dei tempi, continuo e diffuso in cucina, non da meno l’impiego medicamentoso.

Le erbe hanno poteri magici, per una conferma basta visitare qualche bazar e, in particolar modo l’erbolaria del mercato la Merced “El barrio de la Merced” a Città del Messico. Un paese in cui si fa un grande impiego di erbe, la maggior parte vengono adoperate dalle donne indie anziane, al fine di curare malattie e preparare pozioni magiche e filtri d’amore. Al mercato della Merced si trovano fasci di basilico, prezzemolo e coriandolo. mescolati a quelli di camomilla e altre erbe e fiori secchi, oltre ad ossa, feticci e pelli di serpente essiccate.

In cucina sono utilizzate le foglie di coriandolo, che associate al peperoncino hanno la capacità di rendere le pietanze “incandescenti”.

Già nell’antica Grecia molte erbe venivano utilizzate per curarsi e per riti purificatori, in minore quantità per cucinare, nonostante si usasse aromatizzare la carne arrosto con il timo.

Sempre gli antichi Greci e Romani usavano incoronare con una sorta di dignità regale i propri eroi, poeti e capi di Stato, con mazzi di aneto perché credevano moltiplicasse la forza fisica e con il lauro, pianta consacrata da differenti civiltà antiche al dio Sole e come tale immagine di vittoria. Infatti ancora oggi è abitudine per chi si laurea, festeggiare l’importante avvenimento con in testa una corona d’alloro.

Nel V secolo a. C., Ippocrate, il notissimo medico greco vissuto nell’isola di Kos, descrive un meticoloso schedario degli alimenti utilizzati in Grecia, nel quale elenca circa 400 erbe aromatiche impiegate comunemente non solo in cucina, ma soprattutto con finalità curative, tra queste: la mentuccia, la maggiorana e il timo. Tutte queste piante venivano coltivate nei giardini di ogni casa oppure raccolte in aperta campagna.

Così diventa utile la realizzazione di piccoli orti privati e pubblici: è famosa ancora oggi l’importanza per i Romani degli - horti - realizzati non solo all’interno delle - domus - ma anche accanto ai mausolei, ai cimiteri e lungo l’Appia Antica. Negli - horti - romani infatti si coltivava ogni genere, da quello alimentare a quello terapeutico, con lo studio del bello e con la cura delle aromatiche.

Nel 65 d. C., il medico Dioscoride, nel suo più autorevole trattato “De Materia Medica”, descrive l’uso in medicina di molte erbe, ancora oggi ritenuta una delle opere più importanti e accreditate.

Nella Roma antica, l’impiego delle erbe in cucina era indispensabile, infatti Apicio le riteneva essenziali per la lavorazione del garum, intingolo apprezzato anche dai palati più esigenti, il garum si preparava ponendo a macerare le interiora e i filetti di pesce di diverse specie insieme a del finocchietto spontaneo, timo, rosmarino e mentuccia e dopo il periodo di maturazione si colava il liquido, che era ideale per condire ogni sorta di piatto. Difatti nella cucina romana antica e poi in quella medievale e rinascimentale, la cucina elaborata era ritenuta una sorta di alchimia che coniugava  il sapore delicato  al piccante così come sapeva sposare il dolce con l’agro e il salato, con risultati armonici e equilibrati

Anche i persiani e gli arabi furono grandi estimatori delle erbe in cucina, era consuetudine portarle in tavola in recipienti ricolmi, dai quali ogni convitato poteva servirsi e associarle alle vivande.

Secondo una leggenda, le donne che si cibavano di erbe acquisivano il potere di proteggere i mariti dagli approcci delle rivali.

Nella cultura gastronomica di molti paesi, le erbe vengono utilizzate per aromatizzare l’olio per i condimenti, come ad esempio l’olio con il peperoncino, il timo, la maggiorana, la santoreggia, l’aglio e il rosmarino, prima fritti, poi lasciati macerare nell’olio di cottura, ottenendo così un condimento ideale per impreziosire pietanze e fondi di cottura, insalate, zuppe, minestre e piatti rustici.

Nella cucina creola invece i cibi vengono accompagnati con una ciotolina colma d’olio aromatizzato con erbe oltre ad aglio e peperoncino.

In India, erbe come il coriandolo, il prezzemolo, il finocchio selvatico e altre a noi sconosciute, da un minimo di sei a un massimo di venticinque diverse specie di spezie ed erbe, sono ingredienti indispensabili per confezionare i diversi tipi di curry.

In Marocco, l’erba più consumata è la menta, con la - naa-naa - adoperata per la preparazione del tè, il quale è ritenuto un efficace digestivo con caratteristiche afrodisiache, del quale il pittore Salvator Dalì ne era considerevole consumatore. Mentre la menta selvatica - fliou - ancora oggi viene usata in cucina e per la preparazione di decotti contro il raffreddore.

Erbe come la salvia, il basilico, il rosmarino, sono universalmente conosciute e gli italiani sono stati famosi in tutta Europa per il largo consumo.

In Sardegna esistono un’infinità di erbe e piante selvatiche, le più conosciute sono: la bietola - eda - le sue foglie vengono cucinate come le bietole coltivate e secondo le credenze popolari hanno effetti lassativi, rinfrescanti e sono ricche di proprietà emollienti. La borragine -  lingua arada - pizz’e cabombu -  in cucina si utilizzano le foglie e i fiori, che mescolate ad altre erbe e verdure formano un’insolita insalata, mentre le foglie e i fiori pastellati e fritti diventano degli ottimi salatini con l’aperitivo. Il cardo selvatico - gureu aresti - dopo essere stato pulito dalle spine e privato della pellicina, è ottimo in pinzimonio, “godurioso” conservato sott’olio, speciale in casseruola con patate, agnello e pomodori secchi, ma anche con salsiccia alla vallermoese  e tante altre preparazioni ancora. Da non dimenticare che il cardo è ricco di proprietà diuretiche. La cicoria - gicoja - un tempo si utilizzavano anche le radici, mi ricordo da bambino, mia mamma le faceva tostare, poi le sbriciolava con il macinino del caffè e la polvere ricavata la utilizzava come surrogato del caffè, le sue foglie sono ottime mescolate con altre erbe e verdure, oppure lessate e ripassate in padella con aglio e olio, ma anche mescolate con altre erbe per preparare delle ottime frittate. La cicoria ha inoltre proprietà rinfrescanti e purgative.

Il crescione  d’acqua - matutzu de arriu - consumato in insalata con abbondante olio e aceto diventa un importante contorno, mentre secondo la medicina popolare  ha proprietà diuretiche, depurative e combatte l’umore instabile.

Il crisantemo giallo - caragantzu masedu -  del quale in cucina viene utilizzato il fusto, tenero e facile da sbucciare, può essere mangiato crudo o cotto. Se si mangia crudo prevale il  sapore piccante.

Il dente di leone - evra fin’a prandi -  in cucina le foglie più giovani sono ottime in  insalata, miste con le uova sode, ma anche cotte e ripassate in padella con aglio e olio. Nella medicina popolare sono ritenute diuretiche e lassative.

La malva - narbedda - narbuzza - pan’e casu - in gastronomia vengono impiegate le foglie tenere, sia cotte sia crude con altre verdure. Ha proprietà emollienti, lassative e rinfrescanti.

Il radicchio selvatico - ziru de pabantzolu - pitò pitò - moloto apprezzate le “rosette”, di foglie sia in insalata con ad altre erbe, sia sott’olio come antipasto.

Il ravanello selvatico  - aburlanta - armulàccia - ambuatza - armulatza - chimedda - armuranta - arsana - chima-chima - mulata - ravanella aresta - è un’erba molto antica, infatti  un tempo nel mondo agropastorale era la preferita e veniva consumata sia cruda sia cotta o ripassata in padella con aglio e olio e abbinata a salumi e carni arrosto allo spiedo.

La rucola - ambularza - ambulazza - ambuatza de cani - rughitta - in cucina le foglie  vengono consumate crude in insalata, mescolate ad altre verdure, cotte oppure ridotte in poltiglia con mandorle o noci.

La salvia minore verbenaca Labiatae - giòrica - luccaja pitica - salvia aresti - salviedda - perfetta pastellata e fritta, per aromatizzare zuppe, frittate e un’infinità di piatti.   

Il papavero - atzanda – babaoi - goduriose sono le frittelle, le insalata miste con altre erbe accompagnate con uova sode oppure lessate e poi ripassate in padella con olio, aglio e peperoncino.

Tante altre ancora sono le erbe spontanee commestibili che gli isolani colgono ogni primavera per cucinarle in svariati modi o mangiarle crude nelle più incredibili insalate.

Alle erbe spontanee vengono storicamente dedicate delle importanti sagre, come quella dell’- erbutùdzu - di Gavoi famosa per - su ministru cun erbudzu - minestra di fregula ed erbe, la quale prevede l’impiego di un minimo di 18 tipi di erbe spontanee ma può arrivare  a oltre 30.

A Vallermosa, paese in provincia di Cagliari di circa 1900 abitanti,  nella prima settimana di aprile di ogni anno, si svolge la sagra delle erbe spontanee. 

Il nome della cittadina deriva dallo spagnolo “valle hermosa” ovvero valle seducente e ricca di fascino.

L’anno della sua fondazione risale presumibilmente al 1645 per volere di Biagio Alagon, marchese di Villasor figlio di Giacomo Alagon I conte di Villasor -  Bidd'e Sorris - e di Isabella Botèr gentildonna catalana.

Il paese, circondato da verdi colline ricche di vegetazione, fu edificato su una incantevole e fertile  pianura.  Le donne di Vallermosa, in collaborazione con Pro Loco e il patrocinio del Comune, ogni anno sono molto attive nel selezionare,  raccogliere e valorizzare le erbe che serviranno poi per preparare succulenti pietanze, tra le altre, sicuramente meritano una citazione i classici - malloreddus - gnocchetti al ragù bianco con asparagi, frittelle o frittate a base di ortiche, frittelle di borragine dove vengono impanate sia le foglie che i fiori, cardi selvatici in pastella, cardi selvatici con salsiccia, silene o strigoli (le foglie allungate ricordano quelle della salvia e dell’oleandro) - gravelleddus - impanati e fritti, zuppa di erbe che contiene ortiche, strigoli e altre erbe ancora.

Ingredientis:

kg 1di tenere punte di ortiche appena colte in campi non diserbati, 4 cipollotti novelli con il suo verde, 2 bulbi di aglio fresco, 6 uova, g 60 di pecorino di media stagionatura grattugiato,  olio extravergine di oliva, sale e pepe  q.b.

Approntadura:

lava bene le foglie di ortiche, lessale con la sola acqua di lavaggio e quando sono diventate tenere, scolale, strizzale e tritale grossolanamente. Fatto, lava i cipollotti e tagliali a rondelle sottilissime, quindi falli appassire in un giro d’olio insieme ai bulbi di aglio fresco, fino a quando sono diventati trasparenti. quindi aggiungi le ortiche, falle insaporire per cinque minuti, infine aggiusta il tutto di sale e di pepe. Terminata questa operazione,  sbatti le uova in una ciotola con il formaggio e una presa di sale, dopodiché tuffaci le ortiche con il battuto di cipollotti e aglio e dopo avere mescolato bene, versa il composto in una padella preferibilmente di ferro, oppure in mancanza di questa, va bene anche quella antiaderente leggermente unta con un filo di olio. Quando la torta o  frittata - cocca bamba - in dialetto sardo, si sarà rassodata, girala con l'aiuto di un coperchio e falla dorare anche dall'altra parte. Una volta pronta, tagliala a spicchi e servila.

Vino consigliato: Sardegna semidano dal sapore morbido, sapido, fresco e asciutto.

 

 

 

 

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