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“L'ISOLA IN CUCINA” di Roberto Loddi de Santu ‘Engiu Murriabi - Ricette Settembre 2022

 Abba e mele o abbamèle a s’antiga

“Cibo degli dei”, cosi era chiamato anticamente dai Greci il miele, che veniva utilizzato per addolcire le piacevoli cerimonie connesse alle solennità che celebravano la fertilità, come quelle in onore di Kore e Demetra.

Il miele ha rappresentato per millenni l’unico alimento dolce, e ancora oggi si difende elegantemente nonostante il mercato offra una vasta gamma di dolcificanti alternativi e vari surrogati. Il miele rimane comunque sempre un delizioso, sublime e prelibato alimento. Le prime notizie di apicoltori risalgono a circa tremila anni prima di Cristo, pare infatti che gli egiziani per seguire la fioritura delle piante percorressero avanti e indietro le rive del Nilo.

 

I Romani ci hanno tramandato moltissime conoscenze e molte buone indicazioni riguardanti le api, così come i Greci ci hanno fornito altrettante notizie sul miele. Omero raccontava del miele selvatico e della sua conservazione in anfore, mentre Pitagora esortava i propri seguaci a cibarsi di pane e miele, che a suo avviso garantiva lunga vita. Sembrerebbe però che i Greci, perlomeno fino ad Aristotele, non conoscessero bene le tecniche dell’apicoltura, in quanto il grande filosofo nelle sue opere dedicate alla vita degli animali risulta ci fosse la credenza che il miele cadesse dal cielo e fosse quindi considerato come cibo degli dei. Di conseguenza il miele era una delle offerte fondamentali tributate agli dei, una componente pressoché costante delle cerimonie religiose e nella preparazione di cibi naturali.

Nell’antica Roma consideravano il miele un alimento importante, tanto importante  che c’era una richiesta superiore a quella della produzione. Lo stesso Cicerone decantò i pregi del miele sardo di corbezzolo. Secondo la leggenda, Aristeo, figlio di Apollo e della ninfa Cirene, considerato onnipotente in Grecia, tanto da essere paragonato al dio Pan, venne condotto in Sardegna da Dedalo e a lui è attribuita la fondazione della città di “Calaris” Cagliari nel XV secolo a.C.. Proprio a Cagliari il figlio di Apollo insegnò nuove regole di caccia e fece conoscere moderne tecniche in agricoltura, tra queste l’arte dell’apicoltura e quella di lavorare il formaggio.

Creta, Cipro, Spagna e Malta (Meilat, pare significhi appunto terra del miele), producevano molto miele e derivati, in particolare, la cera ricavata veniva utilizzata come isolante per l’illuminazione, per la costruzione delle tavolette su cui scrivere, per impermeabilizzare e via dicendo. Il miele all’epoca veniva impiegato pure per aromatizzare il vino, conosciuto con il nome di idromele, per la birra, salse agrodolci allora molto diffuse e per i dolci. Inoltre il miele veniva usato in medicina per curare i disturbi digestivi e come componente di diversi unguenti per piaghe e ferite.

I sumeri preparavano creme di bellezza a base di argilla, acqua, miele e olio di cedro, i Romani invece lo utilizzavano per curare e prevenire le malattie.

La medicina ayurvedica attribuisce al miele proprietà purificanti, afrodisiache, dissetanti, cosmetiche e cicatrizzanti. Infine, numerose sperimentazioni hanno dimostrato la capacità del miele e dei suoi derivati (pappa reale, propoli) di favorire la cicatrizzazione di bruciature e ferite, attenuare le irritazioni della gola e fungere da ricostituente e antianemico.

Dai Romani abbiamo copiato gli alveari, che poco si discostano da quelli che usiamo attualmente. Altri popoli, come per esempio Germani e Slavi, praticavano l’allevamento delle api sugli alberi. I Celti e i Merovingi, si dedicavano ampiamente all’apicoltura.  Carlo Magno aveva particolare cura delle terre conquistate, arrivando a stabilire l’obbligo che in ogni podere lavorasse anche un apicoltore, con il compito ben preciso di badare alle api e preparare miele e idromele.

In Sardegna, pare siano stati i monaci a affinare la tecnica dell’apicoltura e  durante il Medioevo si ebbe il vero picco di produzione, quando i monasteri impiantarono gli “ortus de abis”,  con l’apposita individuazione di superfici idonee per la fabbricazione e la lavorazione del miele. Cosicché i sardi migliorarono ulteriormente la tecnica di lavorare il miele, sia per uso medicamentoso e cosmetico che per uso alimentare. Venne quindi usato (come sperimentato in passato) per accompagnare verdure come la lattuga, per addolcire i cibi e il vino, in quanto quest’ultimo era spesso acescente, perché allora non padroneggiavano pienamente le tecniche di vinificazione e di conservazione e di conseguenza con l’aggiunta del miele veniva mitigato il gusto facendolo diventare più piacevole al palato.

Lo stesso si può dire per l’utilizzo del miele in pasticceria, che mescolato ad altri ingredienti oltre a correggere tutte le caratteristiche indesiderate di alcuni ingredienti, consentiva di ottenere dolci e preparazioni di soave e sublime piacevolezza.

Nonostante i tempi moderni abbiano influito sulla lavorazione e sugli usi e consumi del miele, in Sardegna si continua a produrre ottimo miele, regalandoci ancora - s’abba e mele - abbamele - o - abbathu - così come lo chiamano in Barbagia, che solo le eccellenti qualità del corbezzolo e dei suoi  lucenti fiori bianchi riescono a dare. E per noi fragili esseri umani, bisognosi di dolcezza è… tutto miele che cola!!!.

Ingredientis:

kg 1,5 di miele amaro di corbezzolo, g 375 di acqua di fonte, 2 arance non trattate, 2 mele cotogne selvatiche,1 cucchiaino di polvere di scorze d’agrumi essiccate.

Approntadura:

se possibile, procurati dell’acqua sorgiva o altrimenti utilizza quella minerale naturale. Fatta la scelta, versa il miele e l’acqua dentro a un capace recipiente d’acciaio dalle pareti alte, poi ponilo sul fuoco e porta il composto a ebollizione sempre mescolando, quindi prosegui la cottura dolcemente per circa otto ore, avendo l’accortezza di eliminare tutte le impurità che vengono a galla con l’aiuto di un colino a trama fitta. Trascorse tre ore, unisci le arance a fette, le cotogne a spicchi, la polvere d’agrumi e lascia cuocere la miscela fino al termine delle otto ore. Quando sarà passato questo tempo, filtra la salsa e appena tiepida, imbottigliala, etichettala e sistemala in luogo buio e asciutto fino al momento dell’utilizzo. La - saba o abba e mele - si abbina perfettamente a un’infinità di ingredienti: - pane e saba - tipo di pane dolce e frutta secca - pabassinus - biscotti dolci con mandorle e noci, poi glassati in superficie,  tanto per citarne alcuni.

 

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Sa mendula no esti àturu chi su spantu e puru s’ellisìr de s’amori

 

 

Il mandorlo, “Amygdalus communis L.- Prunus dulcis Mill” - Prunus amygdalus Batsch”, proviene dall’Asia centrale, si presume sia stato portato nel bacino del Mediterraneo dai fenici, dai punici e dai greci tra il quinto e il quarto secolo a. C. e furono proprio questi ultimi a diffondere le prime piante in Sardegna tra il 500 e il 200 a. C..

Tra le piante che vegetano con successo da millenni c’è il mandorlo.

La mitologia greca narra la storia della principessa Fillide di Tracia, la quale conobbe l’eroe greco Acamante, figlio di Fedra e Teseo e fratello di Demofonte, quando approdò nel suo regno per una sosta, prima di arrivare a Troia.

I due giovani si innamorarono appassionatamente, ma Acamante dovette  proseguire con gli Achei il suo viaggio per combattere nella guerra di Troia. Con grande dolore la principessa attese per ben dieci anni il ritorno del suo amato, ma non vedendolo tornare penso fosse morto in guerra e così si lasciò morire distrutta dalla disperazione.

La dea Atena impietosita da questa toccante vicenda d’amore, decise di tramutare Fillide in una meravigliosa pianta di mandorlo e quando Acamante tornò, ad aspettarlo non c’era la sua amata ma un’amara realtà, scoprì infatti che la Principessa era morta e che era stata trasformata in un mandorlo. L’eroe annientato dal dolore, corse ad abbracciare quell’albero stringendolo forte in ricordo del loro amore. A quel punto il mandorlo sentendo il calore dell’amore in quell’abbraccio, dai suoi rami iniziarono a germogliare migliaia di fiori rosa e da allora quell’abbraccio  si ripete puntualmente ogni primavera.

Catone il Censore (95-46 a.C.), pare sia stato il primo a parlare di mandorlo descrivendone la specie nel suo “De agricoltura” e designandola con il nome di “nux o nux graeca”.

Publio Virgilio Marone (70-19 a.C.), nel I libro delle “Georgiche” annota: “Mira il mandorlo - nux -, quando nel bosco di fior si veste e gli olezzanti rami al suolo  incurva”.

Plinio il Vecchio (23-79 d.C.), nel libro XV della sua “Historia Naturale”, descrive l’esistenza di almeno due tipi di mandorle, la prima a guscio agevole da frantumare, la seconda a guscio duro, questa coltivata in tutta la Puglia.

Lucio Giunio Moderato Columella, (4-70 d.C.), scrittore di agronomia e agricoltura,  nella sua opera “De re rustica”, usava la parola “amygdalae” per indicare una varietà e consigliava di porre nel mezzo dei mandorleti delle arnie, così che le api potessero nutrirsi con il nettare dei fiori. 

Sempre Columella asseriva che per dare maggior sapore ai formaggi era bene aggiungere al latte aromi speciali quali mandorle, pinoli, timo e erbe selvatiche.

Marziale, scrittore del I secolo, negli “Epigrammi” sosteneva che sulla tavola non dovevano mai mancare pane e focacce, ceci caldi, salsicce, frattaglie di vari animali, dolci goderecci di zucca, miele, pinoli e mandorle.

Nei menu dei romani, con i differenti contorni, non dovevano mai mancare le mandorle.

In Egitto, nella tomba del faraone Tutankamon, dai resti ritrovati, appare chiaro si tratti di quelli di antiche specie di mandorle.

Ma fu nel Medioevo che la mandorla ebbe il suo momento di maggior gloria, tanto che il Perugino, detto “divin pittore”, utilizzò la “mandorla mistica” per adornare la Vergine Maria nell’Assunzione quale simbolo dell’unione fra terra e cielo.

Il Bocaccio nel suo “Decamerone” descrisse una invitante casa fatta di marzapane, che si otteneva impastando solo farina di mandorle e zucchero.

Tante altre ancora sono le storie raccontate sulla mandorla, tutte quante con trame appassionanti e risvolti curiosi.

Oggi la coltivazione delle mandorle si pratica soprattutto in Sicilia, in Puglia e in alcune regioni del Meridione, con quantità minori in Sardegna, dove viene impiegata particolarmente nell’arte dolciaria, così come fanno a Baressa, piccolo centro agricolo in provincia di Oristano di circa 650 abitanti.

Il paese in passato appartenne al Giudicato di Arborea e fu accolto dalla curatoria della Marmilla, per poi passare nel XV secolo nella Contea di Quirra.

Nel 1927 venne aggiunto al comune di Baressa quello di Baradili (il paese meno abitato della Sardegna), che riprese poi l'autonomia verso la fine degli anni cinquanta del secolo scorso.

A Baressa ogni anno nel mese di settembre viene dedicata una sagra alla mandorla, dove si possono degustare preparazioni di dolci a base di mandorle e piatti della tradizione locale accompagnati da vini del territorio. I visitatori possono percorrere le vie del paese e conoscere angoli caratteristici, corti, case rurali con gli antichi mestieri, mostre di ceramiche e intreccio. Senza dimenticare la casa museo dove è allestito uno spazio che racconta la mandorlicoltura in tutte le sue declinazioni.

Morale del racconto?… Sa mendula no esti àturu chi su spantu e puru s’ellisìr de s’amori -!.il mandorlo è un vero incanto, non è altro che una meraviglia e anche un elisir dell’amore!.

Ingredientis:

per l’impasto: 3 chiare d’uovo, g 550 di farina di mandorle dolci, g 50 di farina di mandorle amare, g 500 di zucchero comune, la buccia gialla di 2 limoni  non trattati, acqua fior d’arancio e sale q.b. per guarnire, mandorle dolci già spellate, zucchero comune q.b.

Aprontadura:

la sera prima, prendi una conca - scivedda - xivedda - e all’interno tuffaci la buccia dei limoni grattugiata, le due farine di mandorle, lo zucchero e amalgama insieme gli ingredienti, poi monta a neve le chiare insieme a un pizzico di sale e poco alla volta incorpora il composto di mandorle. Ottenuto un impasto omogeneo e malleabile, forma delle pallotte con le mani inumidite di acqua fior d’arancio, poco più grosse di una noce e man mano che le prepari falle rotolare nello zucchero, quindi accomodale in una teglia foderata con carta oleata distanziandole fra loro, onde evitare che si attacchino in cottura. Terminata questa operazione, ponile in frigorifero e lascia riposare i dolcetti per tutta la notte. L’indomani toglili dal frigorifero, inserisci una mandorla su ogni amaretto, allorché passa la preparazione in forno già caldo a 160° per mezz’ora. Trascorso questo tempo, sforna gli amaretti, lasciali raffreddare e subito dopo servili.

Vino consigliato bianco: Vernaccia di Oristano liquoroso ben freddo, dal sapore fine, dolce, sottile, caldo con leggero retrogusto di mandorle amare. 

 

 

 

 

 

 

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