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L'ISOLA IN CUCINA di Roberto Loddi de Santu ‘Engiu Murriabi – Rìcette Ottobre 2022

 Su pan’e saba de Meana Sardo         

In Sardegna è molto sentita la tradizione dolciaria, un’arte arcaica che sa combinare ingredienti sani e genuini con risultati impensati, così come è molto antica la capacità seduttiva del popolo sardo, gente capace di estro e creatività.

Il paesaggio sardo sa incantare e stupire ogni volta che si posa lo sguardo, forse perché trasmette l’impressione sia immutato nel tempo, scorci che non hanno la fissità di una cartolina patinata ma la forza generata dalla bellezza e dalla storia delle persone che lo abitano.

Percorrendo le vie dei paesini dell’entro terra, protetti dalla fitta e selvaggia vegetazione è facile incontrare usanze culinarie autentiche trasmesse nel tempo da madre in figlia.

 

Ma l’Isola oltre ai piatti tradizionali di alto livello, gode di una prestigiosa storia di arte pasticcera. Infatti c’è un copioso elenco di prelibatezze che si modificano e variano di paese in paese, in base alle abitudini e nel rispetto delle tradizioni contadine locali.

Per realizzare questi dolci, le abili mani delle pasticcere di casa, ricorrono a prodotti genuini della terra intelligentemente dosati e amalgamati in modo da sorprendere per gusto e aromi.

In tutta l’area del Campidano, l’usanza dolciaria è eccezionalmente sentita, tanto è vero che le donne lavorano i dolcetti della tradizione isolana nelle loro dimore, così come avviene a Quartu Sant’Elena, stupenda cittadina collegata a Cagliari dalla bellissima spiaggia del Poeto, dove sono nati tantissimi dolci rinomati e di fama consolidata. In questa zona le donne possiedono una manualità straordinaria nel decorare le prelibatezze dolciarie e non temono di divulgarne le tecniche di esecuzione.

I dolci simbolo del posto, sono i caratteristici - pirichittus de bentu - che si preparano facendo fondere lo strutto in un recipiente contenente dell’acqua calda di fonte, poi si unisce della farina tutta in una volta per evitare la formazione di grumi, quindi si lavora energicamente il composto sul fornello acceso per una ventina di minuti o fino a quando l’impasto si stacca dalle pareti della marmitta. Non appena si sarà raffreddato, il composto andrà trasferito in un recipiente di terracotta - scivedda - xivedda - solo allora si potranno aggiungere una alla volta le uova, amalgamandole - suighere - sempre continuando a lavorare l’impasto, fino a quando si sarà ottenuto un composto liscio, elastico, consistente e asciutto come la crema di un gelato artigianale. Sicuramente più facile a dirsi che a farsi, ma per modellare - is pirichittus - ci vuole abile manualità, perché ogni dolce prende forma sul palmo della mano  (occorre far roteare un pezzo di impasto raspando sempre il palmo della mano con un coltello a lama larga), va plasmato continuamente fino a formare una sorta di bombolone.

Un trattato del 700 rivela le caratteristiche di questo dolce e  lo definisce  simile a  un “boccolo” di pasta, in quanto questa è la forma che assume probabilmente (come un cannolo bombato al centro) la pasta quando viene accomodata sulla teglia, la cosa  più importante è velocizzare l’operazione della modellatura dei - pirichittus - pirighìttos - per poi passare immediatamente i dolci in forno già caldo (un quarto d’ora circa), onde evitare che la pasta si rinsecchisca con l’esposizione all’aria. Un accorgimento importante è quello di non aprire mai il forno durante la fase di cottura, così facendo i dolci avranno il tempo di gonfiarsi velocemente e di diventare - pirichittus de bentu - proprio come se nel forno fosse passato un alito di vento e li avesse gonfiati.

Restando in tema di venti, quelli che soffiano nell’Isola i sardi li conoscono molto bene, secondo la sapienza degli antichi, pare siano stati proprio questi ad accendere l’idea di dare il nome ai leggeri e singolari boccoli - pirichittus de bentu - dolci glassati, pieni di vento…

In Sardegna, soprattutto nel campidano, non c’è festa, non c’è ricorrenza, ne tanto meno cerimonia che nei banchetti non compaiano  - is pirichittus de bentu -… dolci del lieto fine, come dire: dulcis in fundo!.

Tuttavia, a Quartu Sant’Elena si preparano anche i - candelaus -  la cui arte oggi è conosciuta in tutta l’Isola. È un dolce complicato, che solo le sapienti mani femminili riescono a modellare.

È un dolce a base di mandorle sgusciate e spellate (in parecchie famiglie le tostano), che devono essere non solo tritate, ma soprattutto setacciate, subito dopo la farina ottenuta va impastata sul fuoco insieme a uno sciroppo a base di acqua e zucchero e il ricavato verrà posto ad oziare fino all’indomani, periodo richiesto per poter modellare   perfettamente i - candelaus - scodellini (simili a bicchierini da liquore d’altri tempi) confezionati a mano ad uno ad uno. L’impasto per crearli viene reso talmente sottile che solo le mani di esperte pasticcere riescono a realizzare.

Terminata questa complessa operazione, occorre fare asciugare brevemente in forno i - candelaus - ma solo il giorno seguente saranno pronti per ospitare il ripieno di mandorle, che si prepara facendo cuocere in un ampio tegame le sfoglie di mandorle (in passato si usava la pialla dei falegnami per sfogliarle), insieme ad acqua, zucchero e poca acqua fior d’arancio (lo zucchero deve diventare come quando si preparano i canditi di agrumi). Mentre la farcia si raffredda, i - candelaus - si glassano completamente, anche internamente con la copertura di acqua e zucchero e man mano che si impregnano, si pongono ad asciugare su un ripiano. Finalmente si aggiunge della buccia di limone grattugiata al ripieno di mandorle, si amalgama il tutto e con il ricavato si riempiono gli scodellini, si glassano ancora una volta, in conclusione si decorano con la ghiaccia reale e lamine d’oro impalpabile  (l’oro è commestibile).

Viste le antiche origini, non ci sono notizie sicure a proposito del nome, ma si suppone che la locuzione - candelaus - si possa ricondurre alla forma delle bugie atte a contenere le candele di cera di un tempo. Di certo si sa che questi dolci sono preziosi e che per tanto tempo hanno arricchito le tavole delle feste di famiglia e quelle dei banchetti nuziali di tutto il territorio. A tenere compagnia ai - candelaus - ci sono le - caschettas - altro dolce isolano prodotto nel cuore della Sardegna da secoli, tra le montagne della Barbagia, nei paesi di Aritzo e Belvì. 

Questa è una regione stupenda, luogo in cui storia, leggenda e bellezza si fondono e ancora oggi sa trasmettere tutti i profumi del passato.

In previsione di nozze di parenti o amici, le pasticcere del paese più esperte si ritrovano insieme e in comune accordo, come  un gruppo di scolarette, tra un canto e l’altro - mutettus - preparano le - caschettas - (insieme a diverse varietà di altri dolci), partendo da un semplice impasto di semola - pasta violada - acqua, sale e una piccola parte di strutto - oll’’e proccu - sùmini - ozu porchinu -.

Una volta che il composto prende forma, si lascia riposare in luogo fresco, mentre si organizza il ripieno radunando le nocciole raccolte nei boschi intorno al paese (si raccolgono anche mandorle, castagne e noci), che devono essere rigorosamente tostate e ridotte in farina, alla quale va aggiunta della scorza d’arancia, di limone, o polvere di scorze d’agrumi essiccate, miele e cannella. Una volta amalgamato il ripieno, si pone il recipiente sul fuoco a fiamma dolcissima per pochissimo tempo, si lascia cuocere mescolando e aggiungendo di tanto in tanto altra farina di nocciole, fin quando il composto non diventerà consistente. 

Avvenuto ciò, si lascia raffreddare e rassodare, poi si tira a sfoglie sottilissime, quasi trasparenti, si formano delle strisce di circa trenta centimetri per cinque (le dimensioni della pasta possono variare di famiglia in famiglia) e al centro si accomodano dei rotolini di ripieno di ugual lunghezza e grossi poco più del diametro di una matita.   

La delicata pasta, abbraccia il ripieno preparato con semola - saba - sapa e farina di nocciole quindi va come raggrinzita (un pizzico tra pasta e ripieno e una leggera pressione a soffietto) e subito dopo ripiegata  su se stessa, naturalmente per la perfetta riuscita di questo dolce ci vogliono mani esperte e tanta dimestichezza. Prima della cottura le - caschettas - vengono cosparse con una pioggia di confettini di zucchero colorati, codetta, mompariglia - tragera - tragea - dragea -. Per un risultato perfetto l’ideale sarebbe la cottura nel forno a legna, ma in mancanza di questo va bene anche il forno elettrico a temperatura moderata e solo per una decina di minuti, giusto il tempo che occorre per consentire ai dolci di conquistare una leggera doratura.

La preparazione dei dolci in Sardegna è rigorosamente legata alle stagioni e alle usanze di ogni paese, in autunno per esempio si aspetta la vendemmia e una grossa parte del raccolto è destinato alla produzione del vino, una parte minore viene fatta appassire e la rimanenza impiegata per ottenere la - saba - sapa, mosto che richiede un tempo di 12-16 ore di cottura, fino a quando si otterrà un raffinato, corposo e schietto dolcificante (per tanto tempo in passato è stato ritenuto lo zucchero dei poveri, insieme al caffè di cicorie).

In Sardegna, con il mosto cotto, miscelato a uva passa, si preparano parecchi dolci tradizionali, uno di questi è il - pan’e saba - pane di sapa, ogni paese ha la sua ricetta tramandata dalle nonne alle mamme e dalle mamme alle figlie. Sarebbe impossibile poterle elencare tutte, ma mi è caro citare Meana sardo (luogo dove è nata mia nonna materna, cuoca eccelsa e grande esperta di cucina popolare), paese di 1780 abitanti circa, della provincia di Nuoro nella regione della Barbagia di Belvì, nel cuore della Sardegna, luogo che può essere raggiunto anche con un piccolo treno che attraversa impervi boschi e montagne.

Il territorio di Meana fu popolato già in periodo nuragico e romano, ne sono conferma il nuraghe Nolza, la necropoli e la presenza di oppi dum, ex città romana fortificata, In periodo medievale, Meana fu territorio di giurisdizione di Arborea, in seguito fece parte dell’amministrazione di Barbagia di Meana e per un certo periodo fu anche capoluogo, fino al subentro di Belvì.

Nel 1420, il paese venne annesso al Marchesato di Oristano e nel 1478 passò sotto la sovranità aragonese, dopo un breve periodo, venne assorbito nella regione giurisdizionale della Barbagia di Belvì.

Meana fece parte pure della circoscrizione di Santa Sofia, che divenne scenario di dure opposizioni e di combattimenti violenti, successivamente passò da un feudatario all’altro, fino a quando nel 1839 venne svincolata.

Verso la metà dell’Ottocento il territorio di Meana fu coinvolto in campagne di studio per minerali: piombo, argento, ferro, rame e tra una ricerca, un permesso, una concessione e l’altra si arriva fino al 1938.

L’economia del luogo però muove da tempi lontani è fa riferimento soprattutto alle attività agroalimentari e all’allevamento di bestiame, anche se  la vita in campagna è dura e faticosa e la terra  è severa ma allo stesso tempo sa dare risarcimenti unici per la bellezza del posto e per il calore delle persone.

Meana è uno dei paesi più noti per la preparazione del - pan’e saba -  pane di mosto cotto, dolce molto antico e molto semplice, chiamato anche “pane povero”.

Per preparare questo dolce occorre unire alla farina del lievito madre in piccola quantità, dei semi d’anice - matafalùa - scorza dì agrumi grattugiata, polvere di scorze d’agrumi essiccate,  marmellata di arance e l’immancabile - saba - sapa. Non appena quest’ultima verrà incorporata, si unisce abbondante uva passa, noci e nocciole tostate, si amalgamano bene tutti gli ingredienti e con  il ricavato si formano dei piccoli pani, si ungono di altra - saba - sapa, quindi si decorano con mandorle e man mano si dispongono su delle teglie, pronti per essere cotti.  Trascorso  il tempo necessario si sfornano, si pennellano ancora con altra - saba - sapa e si cospargono con dei confettini di zucchero colorati, codetta, mompariglia - tragera - tragea - dragea -.   

Per poter cogliere tutta la dolcezza e la fragranza del - pan’e saba - basta assaggiarlo e da li, rimanere estasiati, il passo è breve.

Il dolce è legato oltreché al periodo della vendemmia, anche al giorno dei morti e alla festa di Ognissanti.

Per la stessa ricorrenza si cucinano pure le - papassine - papassinos - pabassinus -. Per i sardi le - papassine - ricordano la fine della vita, così come la stagione della vendemmia ricorda la fine della luce e l’arrivo del buio.

Come la maggior parte dei dolci sardi, pure le - papassine - sono preparate in procedimenti diversificati secondo le zone pur avendo in comune gli ingredienti fondamentali. Altra variante può essere la sostituzione del mosto d’uva cotto con la - saba - di corbezzolo. Per ottenerla si pongono frutti sani e maturi dentro a una marmitta, si fanno cuocere con l’aggiunta di vino tipo moscatello, fino a trasformarli in poltiglia, che si verserà in un setaccio foderato con un telo di lino, poi si spreme il contenuto sino a far fuoriuscire tutto il succo, trattenendo così i residui all’interno del canovaccio.  

Terminata questa operazione si passa il recipiente con il mosto di corbezzolo sul fuoco, si aggiunge del miele e, sempre mescolando si lascia condensare. Raggiunta la giusta concentrazione, la - saba - di corbezzolo è pronta da utilizzare per impreziosire le - papassine - e un infinità di altre ricette.

I dolci dell’Isola sono il frutto di una conoscenza acquisita da una infinità di anni che si è conservata immutata, mantenendo sempre un contatto con le tradizioni contadine.

I sardi possiedono la qualità della pazienza, saper aspettare di raccogliere in ogni stagione i bottini regalati della terra, centellinarli saggiamente e trasformarli in piacevolezze, il che significa salvaguardare il pensiero dei saggi antenati, con quello dell’identità intellettuale che distingue la gente di questa incantevole terra!.

Ingredientis:

g 700 di farina di grano duro sardo, g 500 di saba - mosto d’uva cotto - sapa, g 400 di uva passa - pabassa – la scorza grattugiata di un’arancia e un limone non trattati, 2 cucchiai di marmellata di bucce d’arancia, un cucchiaino di polvere di scorze di agrumi essiccate, g 20 di polvere di semi d’anice - matafaua - una presa di sale, una presa di chiodi di garofano in polvere, una presa di cannella in polvere, g 25 di lievito di birra freschissimo oppure g 100 circa di lievito madre, g 400 di nocciole tostate sgusciate, g 400 di gherigli di noce, per guarnire: g  500 di mandorle sgusciate e spellate per la decorazione, - saba - per intingere i pani prima e dopo la cottura confettini di zucchero colorati, codetta, mompariglia - tragera - tragea - dragea - q.b. 

Approntadura:

per prima cosa setaccia la farina dentro a un capace contenitore di terracotta - xivedda - scivedda - poi aggiungi una presa di sale, la cannella, i chiodi di garofano (in diverse località aggiungono un mix di spezie chiamato saporita), la polvere d’anice, il lievito madre e poca alla volta la - saba – sapa. Quando la - saba - è stata ben assorbita, incorpora l’uva passa, le nocciole e le noci ed amalgama insieme tutti gli ingredienti,  fino ad ottenere un composto sodo e malleabile. A questo punto, preleva parte dell’impasto e forma dei pani grossi quanto una mela, quindi pennellali con la - saba - subito, poi decorali con le mandorle e subito dopo, formando una sorta di riccio e man mano che li prepari, accomodali dentro a una teglia foderata con carta oleata. Solo allora poni a lievitare i dolci coperti con un canovaccio da cucina dentro al forno spento con la sola luce accesa per due giorni. Trascorso il tempo indicato, cuocili in forno già caldo a una temperatura di 180° per cinquanta minuti circa. Una volta constatata la cottura (prova stecchino) sfornali, pennellali abbondantemente con la - saba - e infine dopo una decina di minuti cospargili con dei confettini di zucchero colorati, codetta, mompariglia - tragera - tragea - dragea -.

Vino consigliato: Moscato di Sardegna, dal sapore delicato, fruttato, tipico e dolce.

 

***

 

Sizzigorrus de Gèsigu a schiscionera

 

 

Le lumache erano molto gradite  alle mense dei greci e dei romani, infatti Marco Gavio Apicio, amante dello sfarzo e del lusso, famoso gastronomo al tempo di Tiberio, nel suo trattato di cucina “De re coquinaria”, consigliava di spurgare le lumache nel latte per qualche giorno prima della cottura, o per lo meno fino a quando si erano talmente gonfiate da non poter rientrare nel guscio.

L’autore descrive anche altre ricette, come quella delle “lumache al garum o liquamen”,  che dovevano essere fritte e arrostite e infine servite con diverse salse.

Plinio il Giovane sosteneva che le classi più agiate ne consumavano in gran numero e  che per soddisfare la domanda, utilizzavano anche quelle provenienti da allevamenti in cui le chiocciole venivano ingrassate con farine di cereali ed erbe aromatiche.

Secondo le notizie pervenute, pare che l’ideatore di tale coltura sia stato Fulvio Lippino nel 49 a.C.,  un anonimo commerciante che importava lumache da tutte le parti del mondo allora conosciuto.

Il commerciante, di conseguenza, per poter accontentare  la sua numerosa e ricca clientela, diede origine a un servizio di traghetti, che trasportavano regolarmente a Roma le lumache fresche dalla Sardegna, dalla Sicilia, da Capri, dalle coste spagnole e nord-africane.

Nei suoi terreni di Tarquinia, Lippino possedeva considerevoli quantità di vivai a secondo delle diverse varietà. Ma ben presto l’attività fu imitata da altre persone, che allestivano “cocleari”, appezzamenti cintati  per proprio uso e consumo adiacenti le loro abitazioni. Al tempo di Columella però gli allevamenti e la tecnica di ingrassare in cattività i conigli e le lumache andò progressivamente  in disuso. 

Col passare dei tempi, le lumache sono sempre più state considerate cibo prelibato per i consumatori benestanti, mentre i meno agiati le consideravano piatto impuro, volgare. Ma nonostante  un apprezzamento discontinuo hanno sempre avuto un posto importante nelle tavole della storia gastronomica. Nell’Ottocento tutti i molluschi vengono rivalutati, fino a nobilitare le lumache come piatto di rara  delicatezza per le tavole di ogni ceto sociale.

Nel 1840 in Francia, le lumache erano ritenute cibo prelibato e raffinato per gourmet, l’esempio più significativo è la preparazione delle lumache alla bourguignonne, ricetta in uso ancora oggi.

In Sardegna si trova la varietà “Helix aperta” o “cozza di terra” e il sapore della sua carne delicata è molto richiesta.

Altre chiocciole, piccole e prelibate, sono consumate in particolar modo al Sud e nelle isole perché non esistono tanti allevamenti o per lo meno sono ancora in numero ristretto.

In commercio le lumache si trovano sul mercato vive, oppure in scatola o congelate, già pronte per essere cucinate.  

In Italia si va diffondendo l'allevamento della lumaca ed a Cherasco, in provincia di Cuneo, ha sede anche l'Istituto Internazionale di Elicoltura.

In Sardegna la lumaca nei dialetti locali è conosciuta con diversi nomi: - babbarra - babbacorru - baosus – bettimigorrus - boveris - coccoi o coccoidu - coccoiddus pintus - giogga - giogga minudda - gioghittas -  monzittas - mungettas - sizzigorrus - sizzigorrus verus - sitzigorrus - tapadas - tzizzigorrus - e non si fermano qui i nomi dialettali usati per indicare le differenti qualità di lumache.

Come tanti sono i nomi, tante sono le ricette. Tra le più conosciute: le lumache al sugo di pomodoro - sitzigorrus a schiscionera - lumache in guazzetto - o in brodetto nel coccio - grexonera - grassanera - schiscionera - ischiscionera - friscionera - cun bagna ruja e patatas  - con salsa di pomodoro e patate e le monachelle con aglio e prezzemolo.

Sempre in Sardegna,  le - gioghittas - e le - monzittas - zinzellas -, piccole lumachine grosse quanto un unghia del dito pollice sono molto richieste sul mercato e molto prelibate.

I sardi, non a caso, di lumache pare siano i più ghiotti di tutti da sempre, infatti le enormi quantità di gusci che sono stati trovati nelle grotte e nei siti del Neolitico “6000 - 3000 a. C.” ne sono la dimostrazione e riconducono il consumo delle chiocciole al periodo della preistoria.

È sicuramente vero che per gli isolani le lumache hanno rappresentato una riserva alimentare di facile mantenimento e di comodo trasporto, soprattutto per i primi naviganti che si avventuravano alla ricerca di nuove conquiste.

La Sardegna, insieme al Piemonte, è la regione italiana dove si raccolgono, si allevano e consumano più lumache. Nei mercati di Cagliari e Sassari è facile trovare parecchi commercianti di lumache che le espongono a sacchi nei loro banchi di vendita.

Tuttavia, considerando il fatto che il tenore di vita è cambiato e il consumo di lumache rappresenta un’alternativa ad altri prodotti più costosi, è quindi abituale, dopo una giornata di pioggia, imbattersi in appassionati intenditori che raccolgono lumache -circadoris de sizzigorrus - nelle campagne. C’è chi si alza nelle prime ore del mattino, quando ancora non è sorto il sole, per poterne raccogliere in maggior numero, perché le lumache con la luce del sole tendono a nascondersi di conseguenza son più difficili da trovare. È frequente che questi cercatori vendano il loro bottino in ceste nelle piazze del paese.

In passato a San Gavino Monreale (città dell’oro rosso per l’importante produzione dello zafferano a livello nazionale), viveva un mio zio, un personaggio molto rispettato e conosciuto in paese, in quanto commerciante di prodotti alimentari, quali formaggi di pecora e di capra, salumi, vino, - saba - sapa, mosto di vino cotto, frutta e verdure. Oltre a questi prodotti, però il pezzo forte era la vendita delle lumache, che solitamente proponeva per le vie del paese, girando in bicicletta con sacchi colmi di chiocciole sul portapacchi e strillando ai passanti diceva con una pacata cantilena: “lumachine e lumaconi della ditta di Nino Meloni”. Chi invece andava a fare compere a casa sua, con grande meraviglia si trovava di fronte ad uno spettacolo insolito e affascinante, le pareti delle stanze erano adornate di tante lumache che “pascolavano” liberamente.

I Sangavinesi che hanno una certa età ricordano sicuramente con piacere questa persona meravigliosa e generosa.

Però, in Sardegna il primato della lumaca è detenuto da Gesico - Gèsigu - un paese della “Trexenta” in provincia di Cagliari di circa 850 abitanti.

Nel circondario del paese, popolato già in periodo nuragico, esistono resti di diversi nuraghi e durante il Medioevo Gesico visse sotto il dominio del giudicato di Cagliari.

Nel 1258 furono i conti della Gherardesca a regnare sino al 1324, per poi passare agli aragonesi.

Gesico è anche conosciuto come il paese delle sette chiese e delle lumache e proprio per queste ultime ogni anno la Pro loco con il patrocinio del Comune, nel mese di ottobre dedica un appuntamento in onore della lumaca.

Nell’ambito delle iniziative pubbliche, numerosi stand attrezzati offrono piatti a base di lumache e prodotti dell’economia locale con degustazioni di vini del territorio. Durante lo svolgimento della manifestazioni, Pro loco provenienti da tutta Italia si sfidano nel preparare la ricetta più succulenta e originale… a base di lumache naturalmente!. Al termine è prevista la degustazione dei piatti in concorso e la premiazione della preparazione più accattivante con “la lumaca d’oro”. 

Perciò gente, come dice un antico proverbio, prima di andar in campagna per chiocciole, scegliete il momento giusto, perché… la lumaca è messaggera di pioggia!.

Ingredientis:

kg 1,5 di lumache già spurgate pronte a cuocere,  4 cipollotti, 4 patate, 4 pomodori secchi, 3 spicchi di aglio, g 600 di polpa di pomodori  freschi ridotta a poltiglia, un mazzetto di prezzemolo, un ciuffo di timo, vino  bianco  secco, peperoncino rosso piccante, brodo  vegetale, olio extravergine d’oliva, sale q.b.

Approntadura:

una volta sciacquate e risciacquate le lumache, tuffale in un capace recipiente contenente acqua fredda con mezzo bicchiere di vino (c’è chi lo sostituisce con l ‘aceto), per fare in modo che al contatto dell’acqua fuoriescano come quando  vanno a pascolare. Appena fuori, poni il recipiente sul  fuoco a fiamma vivace, così facendo le lumache  non avranno il tempo  di rientrare nel  loro  guscio e lasciale cuocere per almeno  tre quarti d’ora, schiumando di tanto intanto. Passato il tempo richiesto, scolale e rilavale accuratamente in acqua fredda, poi  mettile dentro ad uno scolapasta e lasciale sgocciolare. Nel mentre, trita i cipollotti con il prezzemolo, i pomodori secchi, il peperoncino e il  battuto ottenuto, fallo appassire in un capace tegame di terracotta - schiscionera - insieme ad un generoso  giro d’olio e due spicchi di aglio schiacciato, quindi bagna il soffritto con mezzo bicchiere di vino e quando evaporato, unisci la poltiglia di pomodori, la metà del timo sgranato, una presa di sale e prosegui la cottura per un quarto d’ora circa. Trascorso questo tempo, aggiungi  quattro mestolate di  brodo  bollente, le patate tagliate a cubetti, le lumache tenute da parte

e continua a far cuocere la pietanza per una mezz’oretta o finché le patate non saranno quasi tenere  ma ancora al  dente. Regola il sapore di sale e impreziosiscilo con il restante timo tritato. Scodella le lumache con le patate e l’intingolo dentro a delle ciotole, nelle quali avrai disposto delle fette di pane tipo - coccoi - abbrustolite e strofinate con l’aglio tenuto da parte. Prima di servire irrora ogni ciotola con un filo di olio e un ciuffo di timo.

Vino consigliato: Mandrolisai rosato, dal sapore asciutto, sapido con retrogusto amarognolo, armonico, vellutato e caratteristico.    

 

 

 

 

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