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L'ISOLA IN CUCINA di Roberto Loddi de Santu ‘Engiu Murriabi – Rìcette Aprile 2023

 S’anzone a su schidoni arrùstiu in su cuìle

In Sardegna l’agnello ha rappresentato il cibo del mondo agropastorale isolano, la sua carne, morbida e succulenta ha impreziosito le tavole delle feste solenni e quelle domenicali, perché un tempo era il cibo delle grandi occasioni, in quanto nella mensa quotidiana della cucina domestica gli ingredienti disponibili erano quelli dell’orto, della campagna, dell’aia e quelli del fiume o del mare, a seconda della collocazione geografica. Infine c’era la cacciagione per le famiglie che vivevano all’interno dell’Isola.

 

L’uso della carne d’agnello in cucina è descritto anche nei Canti Omerici e nella Bibbia, non a caso era il simbolo dei riti religiosi.

Gli antichi romani nei loro banchetti.  erano soliti cucinare agnelli, capretti e maialini allo spiedo, da servire nel triclinio dai servi con altre vivande e brocche colme di vino. Marco Gavio Apicio, gastronomo e cuoco romano nel suo “De re coquinaria”, ne descrive le tecniche di come trattare e cucinare l’agnello.

Catone, nel “De re rustica”, con Varone e Columella riferiscono quanto era importante allevare gli ovini e quanta attenzione e dedizione i pastori dovevano prestare nei confronti degli agnellini appena nati, tanto è vero che per evitare si smarrissero o si facessero male, venivano tenuti legati ad un bastone di legno conficcato nel terreno “ad baculum” da qui è probabile derivi la parola romanesca “abbacchio”.

I fenici, inventori della tecnica dell’affumicatura e della conservazione sotto sale (modalità adottata dai tempi dell’estrazione del sale nelle saline della Sardegna che risale a circa 3000 anni fa, durante la loro occupazione) dei cibi, si alimentavano principalmente di cereali, verdure crude o cotte. ma erano anche particolarmente golosi della carne di coniglio e di quella ovina.

Gli ebrei sono stati i primi a legare l’utilizzo dell’agnello a una festività religiosa, infatti nella loro cultura era usanza mangiare carne d’agnello durante la Pasqua “Pesach”, in quanto la festa simboleggiava la volontà di Dio di liberare gli ebrei dall’Egitto, occasione nella quale Dio aveva chiesto di sopprimere i primogeniti di tutti i nuclei familiari che non avevano contrassegnato i portoni d’ingresso delle loro abitazioni con il sangue di un agnello sacrificato.

Negli sfarzosi banchetti medievali, l’agnello era il principe delle carni arrostite, veniva servito con una salsa al rosmarino oppure cucinato allo spiedo assieme a capponi, galline, maiali, il tutto annaffiato con cospicue bevute di vino speziato.

Il cuoco Francesco Chapusot nel suo libro “La cucina sana, economica ed elegante secondo le stagioni” Torino 1846, cita diverse ricette preparate con l’agnello, in particolare, “l’agnello arrostito alla semplice”, nella quale descrive…: “prendi la coscia d’un agnello, e, introdottovi uno spicchio d’aglio e un po’ di rosmarino, mettila in un tegame con due once di lardo tagliuzzato: fa cuocere lentamente un’ora e mezzo, coperto, e servi ben caldo con sugo in cui avrai un pò di sènapa e spremuto un limone”.

Il giovane milanese amante dell’arte culinaria Giovanni Nelli, nel suo “Il Re dei cuochi, trattato di gastronomia universale contenente le migliori ricette per la preparazione di ogni sorta di vivande” prima edizione 1868, cita una ventina di ricette preparate con la carne d’agnello, per esempio: l’agnello pasquale ripieno di erbe allo spiedo e servito con buon sugo e insalata di crescione - mattutzu - in dialetto sardo e le costolette d’agnello saltate con piselli verdi.

Pellegrino Artusi, nella sua opera “La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene” 1891, annota diverse ricette sull’agnello, una delle quali è l’agnello trippato, servito con una salsa a base di tuorli d’uova e succo di limone, oggi meglio conosciuta come “l’agnello in fricassea”.

In Sardegna l’allevamento degli ovini risale a tempi antichissimi, oggi le pecore pascolano liberamente nei prati delle campagne e solo durante la notte e nei periodi più freddi vengono ricoverate in ampie strutture idonee al bivacco, nel rispetto delle norme sanitarie.  L’agnello sardo, oggi IGP - anzone - anzoni - angioni - angioi - amgione - memmei - scioni - angioneddu - sementusa – eccetera. Codesti termini dialettali sono poi diventati anche dei cognomi, come - Angioni - Angioi - Angioy - Angione - che da secoli esistono nell’Isola, probabilmente con inizio nel 1300, data dell’obbligo anagrafico di avere oltre al nome anche il cognome per identificare una persona. 

La professione del pastore si perde nella notte dei tempi, pare risalga addirittura al periodo prenuragico, tuttavia è grazie a queste persone che ancor oggi le varie metodologie di lavoro restano inalterate e resistono nel tempo, conservando intatto il sapore del passato. Grazie a loro, la Sardegna vanta una infinita gamma di prodotti agropastorali di valore inestimabile, l’allevamento degli ovini e di tutti i derivati, quali lana, latte, formaggi nelle più svariate stagionature, carne d’agnello e di pecora, dalle quali nascono straordinarie ricette come la pecora a cappotto o a - caddaxiu - e l’agnello in casseruola o - s’anzone a su schidoni arrùstiu in su cuìle - agnello arrostito allo spiedo cucinato nella casa del pastore, immancabile nella tradizionale cucina sarda e servito in  ogni occasione importante.

E noi goduriosi e golosi peccatori umani, bisognosi come mansueti agnellini che pascoliamo l’erba verde dei prati della nostra Isola, siamo come un piccolo gregge sperduto, che non può fare a meno del suo pastore.

Ingredientis:

un agnello sardo di circa 6 kg per 6-8 persone, altrimenti una mezzena, un pezzo di lardo con la cotenna, un pezzo di tela di lino o cotone bianchi inodori, rami di mirto, pane carasau e sale q.b.

Approntadura:

prima di tutto accendi il fuoco, utilizzando per avviarlo fascine di cisto e di lentisco, poi rinforzalo con del legname consistente come il leccio, l’olivo, la quercia, il faggio, la vite. Una volta avviato il falò, dedicati ad infilzare nello spiedo l’agnello per il lungo e centralo perfettamente, in modo da agevolare la rotazione durante la cottura. Fatto, se possiedi un girarrosto, posizionalo ponendo la parte del manico dentro all’alloggiamento del perno posto sul motore e la punta dello spiedo sul reggispiedo. Poi accendi l’interruttore del motorino e inizia la cottura, tenendo a distanza la carne perché in questo modo inizierà ad asciugarsi. Se non possiedi il girarrosto, allora dovrai sistemare lo spiedo su due tronchi di legno posti in verticale, alti da terra non oltre i quaranta centimetri e che dovrai girare spesso, per permettere alla carne di cuocere tutt’intorno. Trascorsa un’ora circa, comincia ad abbassare leggermente lo spiedo, avvicina un pochino la carne al fuoco e distribuisci la brace sotto allo spiedo, in modo più cospicuo verso la punta e la testa dello spiedo, dove la carne in quei punti tende sempre a rimanere indietro di cottura. A questo punto, avvolgi il lardo con un pezzo di stoffa di lino o di cotone, infilzalo in una pertica di ulivo e incendialo. Non appena il lardo inizierà a sciogliersi, passalo sulla carne facendo gocciolare - stiddiai - le lingue di fuoco che si sprigionano, questo accorgimento, permetterà alla carne di insaporirsi e ammorbidirsi ulteriormente. Dopo avere intriso di grasso tutto l’agnello, allontana il pezzo di lardo e avvicina ancora un poco lo spiedo al fuoco, rimpingua con altra brace sotto l’agnello e prosegui la cottura sempre girando e prestando molta attenzione a non farlo rosolare troppo, onde evitare che la carne sia cotta solo esternamente. Passata un’altra ora, avvicina ancora la carne al fuoco, aggiungi altra brace sotto e sui lati, quindi inizia a salarla e a gocciolarla con altre lingue di lardo infuocato. Prosegui la cottura ancora per una mezz’oretta o anche più, ma per controllare la cottura interna pungi la parte più polposa dell’agnello con un coltello - pattada - ben affilato, se questo ne esce con la lama bollente, vuol dire che l’agnello è pronto. Solo allora taglia in porzioni l’arrosto e accomodalo dentro a un vassoio di sughero - maizzoba - sippa - foderata con pane carasau e rametti di mirto, aggiusta il sapore di sale e servilo immediatamente.

Vino consigliato: Cannonau Istiga di Arbus, dal sapore asciutto e morbido, caldo, con ottima struttura, persistente, giustamente tannico e armonico, secco, dal tipico retrogusto amarognolo.

 

***

Anguidda cun freguedda de is poburus e de is arriccus de Segariu

 

La fregola - fegua - fregula - in campidanese e - pistizzone - in nuorese. Parola di origine latina “ferculum” è una pasta caratteristica della tradizione agropastorale della Sardegna e precisamente della provincia del Medio Campidano. Il formato di questa pasta ha un passato antichissimo e, stando a certe documentazioni (ma è un’ipotesi), si presume che in Sardegna, già nel decimo secolo si producesse la fregola e poi successivamente divulgata in altre regioni.

Ai giorni nostri, per quanto sia realizzata da parecchie aziende meccanizzate e con macchinari moderni, in tante famiglie si continua a prepararla manualmente utilizzando la semola, l’acqua, il sale, lo zafferano con l’aggiunta di uova.

Gli ingredienti vengono lavorati a mano con i polpastrelli, sino ad ottenere delle piccole briciole che, una volta setacciate per dividere quelle più grosse da quelle più piccole, vengono fatte asciugare. Questa operazione si può vedere nei laboratori in occasione di sagre ed eventi paesani, così come capita a Segariu - s’ega ‘e riu - sa bega de riu - terra paludosa bagnata dall’acqua, forse del torrente Lanessi, immissario del fiume Mannu.

Il paese conta circa 1350 abitanti e si trova a sud della Sardegna nel Medio Campidano. Alla sua periferia, sulla sommità di un rilievo, si possono ammirare i resti di un castello detto - rocca de Casteddu - rocca di Cagliari, edificato nel 1414 circa.

La Pro Loco, in collaborazione con Enti e Associazioni, ogni anno promuove un appuntamento dedicato alla lavorazione della fregola, con un laboratorio dimostrativo manuale a cura di esperte casalinghe volontarie, che spiegano l’impegnativo procedimento che è lo stesso di quello praticato dalle nonne di un tempo. Si servono di una conca - scivedda - xivedda - di terracotta come recipiente di lavorazione, utilizzano semola di grano duro, acqua, zafferano e uova per la preparazione della fregola dei signori e delle famiglie più agiate. La versione preparata con semola, acqua e sale era la ricetta adoperata dalle famiglie più umili.

La ricetta più ricca veniva preparata mettendo dentro alla conca poca semola di grano duro sardo - trigu saldu - poi, come allora, si aggiunge una piccola parte di uovo con poca acqua tiepida salata e impreziosita con dello zafferano di San Gavino (oggi conosciuto come la città dell’oro rosso, per la sua importante produzione a livello nazionale). Quindi a seconda delle massaie che la preparano, con la pressione del palmo di una mano o con quella delle dita si sfrega velocemente il composto in senso rotatorio, aggiungendo altra semola tenuta nel pugno dell’altra mano, facendola scivolare a pioggia poca alla volta, nello stesso modo con cui si prepara la polenta e con l’altra si continua a sfregare (dal latino fricare). Una volta che si saranno formati i grumi, si setacciano in modo da separare i diversi calibri di pasta, la fregolina più fine viene utilizzata per arricchire il brodo della domenica, mentre i grumi più grandi vengono utilizzati in altre svariate ricette. Naturalmente prima il ricavato viene allargato dentro a un canestro – corbula in italiano, in lingua sarda - canistedda - crobi - cioliriu - foderato con un panno da cucina (un tempo si utilizzavano panni di orbace, antico tessuto isolano) ad asciugare al sole per qualche giorno nei periodi estivi, mentre negli altri mesi si fa tostare in forno caldo.

In Sardegna la - fregula - è utilizzata in moltissime ricette, per esempio: cotta nel brodo di pecora insieme a delle fette di - casu axedu - pecorino freschissimo in salamoia, ben lavato prima dell’utilizzo, oppure cotta - istuvada - alla maniera di Neoneli, oppure cucinata come fanno a Segariu, con piatti a base di anguille, di arselle, di muggini in brodo con la fregolina finissima e zafferano, con le lumache al sugo e tante altre ricette ancora.

In passato le ragazze in età da marito, intonavano un’antica melodia che recitava così: - coiami ca sciu fai fregula - sposami perché so preparare la - fregula -. Quasi a testimoniare di quando le fanciulle erano pronte per formare una famiglia.

Quella della fregola è una ulteriore dimostrazione del fatto che la Sardegna da secoli è stata una grande produttrice ed esportatrice di pasta di ottima qualità.

Il filosofo e storico Benedetto Croce, annotava in uno dei suoi taccuini personali, come già nel 1600 a Napoli la pasta venisse chiamata “Pasta o maccheroni di Cagliari”, a conferma del fatto che per produrla si utilizzavano farine di qualità eccellenti.

Non a caso la Sardegna al tempo dei Romani era considerata il granaio di Roma. Ma nonostante le varie influenze, Fenicie, Cartaginesi, Puniche, Arabe, Ebraiche e altre ancora, non si ha una prova certa di chi abbia lasciato una traccia sulle tecniche di lavorazione della semola.

Sicuramente gli arabi diffusero nel Mediterraneo il couscous, ma è altrettanto vero che non sostarono per molto tempo in Sardegna, perciò non lasciarono tracce rilevanti sia nelle usanze, che nella cucina. Mentre migliaia di ebrei, al tempo dell’imperatore Tiberio, furono portati con la forza in Sardegna, ed è probabile, siano stati proprio loro a portare questa tecnica di lavorazione della pasta. Anche se non è da escludere che il modo di lavorare la semola alla fine possa essere stata una scoperta casuale delle massaie sarde. Sarà vero, sarà falso? A voi la risposta!.

Ingredientis:

per la pasta: g 400 di semola di grano duro sardo - trigu saldu -, g 250 di acqua piovana decantata, oppure di acqua di fonte o minerale naturale, 2 uova grandi, zafferano San Gavino e sale q.b. per la zuppa: g 800 di anguille già pulite e pronte a cuocere, 2 spicchi di aglio, un ciuffo di timo, uno di prezzemolo, 1 foglia di lauro, 4 pomodori secchi ben dissalati, g 200 di polpa di pomodori ridotta a poltiglia, un cipollotto con il suo verde, g 200 di fregolina tostata, vino rosso tipo carignano, olio extravergine d’oliva, brodo preparato con gli scarti delle anguille, sale e pepe di mulinello q.b.

Approntadura:

come prima operazione stempera nell’acqua posta dentro a un recipiente una presa di sale e una di zafferano. Fatto, con l’aiuto di una frusta sbatti le uova in un piatto fondo e versa il ricavato dentro l’acqua aromatizzata con lo zafferano, mescola delicatamente tutti gli ingredienti fino a farli amalgamare perfettamente. Terminata questa operazione, preleva con una mano un pugno di semola e falla scivolare dentro a un’ampia conca di terracotta - scivedda - civedda - xivedda - cunchuiditta - a piccole dosi e, con l’altra mano poco alla volta unisci  un cucchiaio della miscela di uova e acqua, oppure bagnati le dita della mano e utilizza i polpastrelli per sfregare in senso rotatorio la semola, aggiungendone dell’altra pian piano come fai quando cucini la polenta e sempre con le dita inumidite nella miscela, prosegui a sfregare fino a quando si formeranno i grumi della grossezza desiderata e mano a mano  che la prepari, allargala dentro a una teglia. Ultimato gli ingredienti, passa la fregola ad asciugare al sole o in forno già caldo a 150°, ma se hai il caminetto acceso, nulla ti vieta di farla asciugare accanto alla fiamma, così facendo la pasta prenderà anche una nota di fumo, che non guasta mai, a differenza del forno, che la fa tostare regalandole dei colori con tonalità dorate. Comunque sia la tecnica che avrai utilizzato, una volta raffreddate, le briciole di pasta saranno pronte per essere utilizzate nella preparazione da te desiderata. In questo caso impiegheremo la fregola per preparare - s’anguidda cun freduedda in su tianu - le anguille con la fregolina nel tegame di terracotta, che si cucina nel seguente modo: lava accuratamente le anguille, poi riducile a tocchi regolari di sei centimetri circa, quindi asciugale e tienile da parte. Arrivati a questo punto, trita finemente il cipollotto con il prezzemolo, il timo, uno spicchio di aglio, i pomodori secchi e il battuto ottenuto ponilo ad appassire dentro ad un ampio tegame di terracotta, assieme a un generoso giro di olio. Trascorsi cinque minuti, bagna il soffritto con mezzo bicchiere di vino e quando evaporato, unisci la poltiglia di pomodori, la foglia di lauro, dopo cinque minuti, le anguille e quattro mestolate di brodo bollente leggermente salato e prosegui la cottura dolcemente a recipiente coperto per una mezz’oretta. Nel mentre lessa la fregolina nel restante brodo e appena risulterà cotta al dente, scolala direttamente nel tegame delle anguille, regola il sapore di sale, impreziosiscilo con una lodevole macinata di pepe e se la zuppa risultasse troppo ristretta aggiungi ancora poco brodo della pasta in modo da ottenere una minestra morbida. Scodellala immediatamente dentro a delle ciotole con fette di pane tipo civraaxiu abbrustolite e leggermente strofinate con l’aglio rimasto. Prima di portare in tavola completa la zuppetta con un filo di olio crudo.

Vino consigliato: Carignano rosso del Sulcis superiore, dal sapore vinoso, gradevole e intenso.

 

 

 

 

 

 

 

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