La prima comparsa del tonno conservato in olio d’oliva pare risalga ai tempi della cucina sivigliana, nel XV secolo. In questo stupendo paradiso di terra spagnola, si usava conservare la parte migliore del tonno rosso (la ventresca) sott’olio, dopo averla sbollentata in acqua di mare e impreziosita con erbe aromatiche e spezie, poi ben sgocciolata ed asciugata, veniva resa morbida e gustosa con dell’olio d’oliva sopraffino.
I primi stabilimenti della lavorazione del tonno risalgono al periodo compreso tra il III secolo a.C. e il II secolo, ed ebbero origine nel bacino del Mediterraneo lungo le coste della Tunisia, della Grecia, della Sicilia, della Sardegna, della Spagna, del Nordafrica, di Gibilterra e dell’Andalusia, luogo dove esistono lunghe distese di spiagge bianche battute dal vento.
A partire dagli inizi del 1700, tra le merci stoccate e smistate nel porto di Genova, appare per la prima volta il tonno sott’olio, prodotto assai diverso dal tonno sotto sale comunemente chiamato dagli addetti ai lavori “tonina”. Nel 1725 i barili di tonno in olio d’oliva divengono merce preziosa e frequente nel commercio marittimo dei genovesi. Successivamente i liguri, con l’annessione di Genova al regno di Sardegna e Piemonte nel 1825 diventano agiati imprenditori e acquisiscono i processi della lavorazione del tonno, delle tonnare sarde e prevedendo affari redditizi inviano nell’Isola navi cariche di barili d’olio, che ritornano ripieni di tonno sott’olio.
Agli inizi dell’Ottocento però, le tonnare sarde sono soggette a una spiacevole batosta. Le imprese non sono più motivate a proseguire gli investimenti a causa degli alti costi di produzione e vengono quindi abbandonate. Le tonnare infatti necessitano di continui ammodernamenti e investimenti che assommati al costo del materiale, del personale e a fronte dello scarso pescato ha portato le imprese ad un inevitabile crollo economico.
Le campagne napoleoniche di Russia stimolarono la crescita e il miglioramento della conservazione dei cibi in latta, una tecnica innovativa che prima sarebbe stato impensabile. Infatti la linea della tradizione era l’essicazione e la salagione dei cibi.
Verso la fine del 1800 compaiono a Genova le prime latte di tonno sott’olio, le quali vengono lavorate con un pregiato tipo di lastre metalliche sottilissime, stampate e assemblate proprio a Genova.
Il professor Corrado Parona (allievo di Leopoldo Maggi, illustre biologo, zoologo, geologo e accademico italiano), esperto conoscitore del tonno, nato a Corteolona in provincia di Pavia, ma genovese d’adozione, scrisse nel 1919 un libro "Il tonno e la sua pesca", un trattato degno di nota e rilevanza nazionale. Fece anche parte di un’equipe di ricercatori sulla pesca in Italia e fu supervisore a Carloforte per studiare il metodo di lavoro utilizzato dai pescatori di corallo.
I genovesi, da veri professionisti imprenditoriali sviluppano questa tecnica per anni, e la utilizzano negli stabilimenti da essi controllati, diventando ben presto veri specialisti delle conserve di tonno e, allo stesso tempo lo divulgano in tutta Italia e nei paesi sedi dei loro stabilimenti.
Pare però che la prima conserviera di tonno sia stata opera della famiglia di Florio a Favignana, in Sicilia nel 1878, in un impianto che offriva lavoro a un migliaio di persone.
Anche l’isola di San Pietro in Sardegna “parla” di tonno, un fazzoletto di terra che fu abitata sin dal prenuragico e nuragico, come dimostrano le - domus de janas - e i nuraghi ritrovati. Verso l’ottavo secolo a.C. in epoca fenicio-punica e romana, in prossimità dell’attuale Torre di San Vittorio, fondarono un centro abitato permanente - Inosim - provvisto di un porto attrezzato per l’approdo di imbarcazioni.
In seguito fu invasa dai punici e i resti ritrovati del loro passaggio lo confermano.
Nel1738, dopo secoli di assenza umana nell'isola si insediò una congregazione di pescatori pegliesi, provenienti da Tabarka in Tunisia che dovettero abbandonare a causa della diminuzione del corallo. Domandarono poi al re Carlo Emanuele III di Savoia, il permesso di rimanere nell’isola per dedicarsi serenamente alle loro attività commerciali di stoffe, spezie, pesca e lavorazione del tonno.
Oggi Carloforte ha una popolazione di circa 6465 abitanti e si fregia della qualifica di comune ad honorem della provincia di Genova, per via dell’ospitalità riservata in passato ai concittadini pegliesi.
Ogni anno (29 maggio - due giugno) a Carloforte si tiene una importante rassegna dedicata al tonno: il “girotonno”, un convegno che richiama visitatori da tutto il mondo.
Ingredientis:
kg 1 di tonno freschissimo (la parte della schiena detta tarantello), un ciuffo di maggiorana, un ciuffo di timo, un ciuffo di prezzemolo, 4 foglie di lauro, 3 spicchi di aglio, g 100 di vino rosso, g 100 di vino bianco secco, g 100 di aceto di ottimo vino bianco, g 300 di polpa di pomodori maturi ridotta a poltiglia, un ciuffo di basilico, farina, olio extravergine d’oliva, sale e pepe di mulinello q.b.
Approntadura:
una volta squamato, spinato ed eliminato i filamenti vari del tonno, taglialo a fette, poi infarinale (operazione facoltativa) e friggile poche per volta dentro a un largo recipiente in un dito di olio che deve essere molto caldo. Trascorso meno di un minuto gira le fette e lasciale rosolare per lo stesso tempo e man mano che le friggi scolale dentro a una capace casseruola. Terminata questa operazione, prepara un trito con la maggiorana, il timo, il prezzemolo e il ricavato versalo dentro al recipiente dell’olio di frittura, arricchito di tutti gli umori del pesce, poi unisci due spicchi di aglio schiacciato, il lauro, il vino rosso, quello bianco, l’aceto e porta ad ebollizione la miscela. Fatto, abbassa la fiamma e prosegui la cottura per mezz’ora circa. Passato questo tempo, versa l’intingolo dentro al tegame del pesce e continua a cuocere sempre a fuoco lento. A questo punto unisci la poltiglia di pomodori, il basilico, regola il sapore di sale, impreziosiscilo con una generosa macinata di pepe e porta a termine la cottura, avrai bisogno ancora di circa dieci minuti, giusto il tempo che occorre per ottenere una salsa cremosa e vellutata. Servi il tonno con parte della sua salsa, assieme a fette di pane casereccio locale abbrustolite e strofinate con l’aglio rimasto.
Vino consigliato: Carignano rosso del Sulcis, dal sapore armonico, sapido e asciutto.
Sàlvia o coiètas de salbei
La salvia (Salvia officinalis) chiamata Salvia salvatrix dalla Scuola Medica Salernitana, appartiene alla famiglia delle Labiate. Dal latino salvus (sano), possiede numerose proprietà salutari in grado di guarire diverse affezioni grazie alle sue qualità uniche e provvidenziali, la salvia infatti era giudicata un’erba benedetta già nella Bibbia.
Svariate sono le tipologie di salvia, tra cui la Pratensis, reperibile nei prati e con caratteristiche più discrete e meno note dell’Officinale. La salvia con foglie ricoperte da una leggera peluria è una pianta sempreverde e il principio attivo si ricava dalle foglie e dalle sommità fiorite. Le foglie più belle si raccolgono da aprile a luglio e i fiori (ghiottoneria prediletta dalle api), si possono essiccare all'ombra e si conservano in sacchetti di tela.
Per i Romani la salvia era una pianta sacra, ritenuta un potente afrodisiaco maschile, che doveva essere raccolta solo da persone designate, vestite in modo particolare, dopo aver eseguito sacrifici con pane e vino, senza usare utensili di ferro perché tale metallo era incompatibile con questa preziosa erba aromatica.
In un trattato del Medioevo si narra che le proprietà della salvia erano così potenti da rendere immortale l’uomo.
Nel Medioevo la salvia, oltre a essere ritenuta un formidabile toccasana scoprirono che mescolandola con altri ingredienti, rendeva più appetibili le vivande.
Lo stesso re di Francia Luigi XIV di Borbone, chiamato anche “Re Sole” o Luigi il Grande, quando al mattino veniva svegliato, era solito farsi servire da “L’officier de bouche” responsabile della cucina reale, un infuso a base di salvia ed erba veronica (Véronique officinale - tè Svizzero - tè d’Europa), in modo da avere sempre il fisico e la mente rigenerati.
Anche i cinesi l’apprezzavano tanto da considerarla capace di donare la longevità.
Nel 1600 una corba di foglie di salvia veniva scambiata dai mercanti fiamminghi con tre canestri di tè e l'antica medicina ne faceva largo uso come potente cicatrizzante su ferite e piaghe difficili da rimarginare.
La salvia predilige luoghi caldi e riparati, ama il sole e teme gli inverni troppo rigidi, in primavera per rinvigorirla occorre rimuovere la terra e provvedere con una buona concimazione per darle sostanza. La riproduzione si ottiene per talea - margotta - barbatella - propaggine - divisione di cespi, ma si può anche seminare nel mese di aprile, in semenzaio. Dopo quattro o cinque anni, la salvia perde molta della sua produttività per cui è bene rinnovarla con nuove talee. La salvia è un antinfiammatorio balsamico, risulta anche essere digestiva, espettorante, ed è anche chiamata estrogeno naturale perché cura sia le sindromi mestruali dolorose che i disturbi legati alla menopausa: in questo delicato periodo è molto efficace contro le noiose "caldane". È anche indicata contro la ritenzione di urina, gli edemi, la gotta, i reumatismi e le emicranie.
In Sardegna esiste una varietà particolare di salvia chiamata “Salvia Desoleana”, dall’aroma intenso e dalle speciali qualità salubri, così denominata dal botanico Luigi Desole, il quale la scoprì quando era direttore della cattedra dell’istituto di Botanica Farmaceutica dell’Università di Sassari. La Desoleana, fa parte della famiglia delle Lamiacee ed è un privilegio per la Sardegna avere un sempreverde così importante che può raggiungere i due metri d’altezza e poterla annoverare tra la vasta gamma di piante aromatiche isolane. La salvia è conosciuta in Sardegna con i nomi di - sàlvia bianca - salviedda - sucaja manna e pitica - sàalvia aresti - salbei -. È antidiabetica, depurativa del sangue, serve contro i sudori notturni e la successiva debolezza e contro le punture di insetti.
In cucina si usano le sue foglie fresche o essiccate per insaporire primi piatti, secondi di carne e pesce, focacce e torte salate, deliziose pastellate e fritte, sublimi sono - is coiètas de sàlvia o salbei - gli involtini di salvia ripieni... Assaggiarli per credere!.
Ingredientis:
16 foglie di salvia gigante, 16 filetti di acciuga sott’olio, 16 listarelle di formaggio tipo peretta, per la pastella: 1 uovo, g 100 di farina di semola di grano sardo, un cucchiaio di olio extravergine d’oliva, g 100 di birra, farina per spolverare gli involtini, olio d’oliva per friggere, sale e pepe q.b.
Approntadura:
prima di tutto, prepara la pastella amalgamando insieme il rosso d’uovo (tieni da parte l’albume) con la farina, l’olio e la birra, poi incorpora l’albume tenuto da parte montato a neve ben ferma e, il ricavato tienilo al fresco a riposare. Intanto, pulisci con un panno inumidito le foglie di salvia e man mano ponile ad asciugare su dei fogli di carta assorbente, dopodiché farciscile con un filetto di acciuga e una listarella di formaggio. Fatto, arrotola le foglie, formando degli involtini - cojetas - che sigillerai ad uno, ad uno con uno stecchino di legno. Terminata questa operazione, prima infarinali, poi intingili nella pastella tenuta al fresco e pochi alla volta, friggili in abbondante olio caldissimo (160° circa). Quando risulteranno dorati, scolali direttamente su dei fogli di carta assorbente da cucina a perdere l’unto in eccesso. Servili caldissimi come piatto di apertura ben cosparsi di sale e di pepe.
Vino consigliato: Alghero chardonnay spumante secco ben freddo, dal sapore fruttato, tipico, delicato, sapido asciutto e pieno.