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L'ISOLA IN CUCINA di Roberto Loddi de Santu ‘Engiu Murriabi – Rìcette Giugno 2023

 Sitzigorrus cun bagna po sa saghina de Santu Pedru a Pabillonis

 

La rugiada di San Pietro è una antica e curiosa tradizione che si ripete ogni anno la sera del 28 di giugno, anche se lentamente si sta perdendo. Il rito della rugiada dei santi Pietro e Paolo consiste nel porre dell’acqua dentro a un capace recipiente o un fiasco di vetro alla quale si aggiungono delicatamente gli albumi di due uova e poi si espone in giardino o nell'orto per tutta la notte alfine ricevere la benedetta rugiada notturna.  All’alba, se i presagi sono favorevoli, gli albumi si saranno trasformati in una simpatica sagoma che ricorda un veliero con l’albero maestro, i pennoni e le vele.

 

L’avvenimento coinvolgeva tutte le famiglie del mondo contadino che con l’occasione ricordavano i Santi, nella speranza di ottenere un’annata favorevole e buoni auspici per i raccolti.

Nel giorno della ricorrenza, di primo mattino, i bambini correvano ansiosi nell’orto a curiosare se nell’anfora si era formata la fantastica imbarcazione di San Pietro con i drappi delle vele; se accadeva si poteva prevedere un tempo sereno ed asciutto, al contrario era previsto l’arrivo delle piogge.

Era una tradizione popolare paesana molto sentita e in tante località, la sera del 28 giugno, era abitudine festeggiare con cene a base di piatti tradizionali e ballare fino a notte fonda, in attesa di scoprire se appariva la barca di san Pietro.

Si tratta di una consuetudine diffusa in tutto il Nord Italia: Piemonte, Liguria, Lombardia, Trentino, Veneto, Friuli, Toscana oltre alla Sardegna.

Infatti proprio in Sardegna, a Pabillonis (dal latino - Papilio-ionis - tenda/padiglione, che ricorda gli accampamenti militari romani stanziati in loco), un paesino con poco più di 2700 abitanti, principalmente agricoltori e allevatori di bestiame, rinomato anche per la produzione di terrecotte - xiveddas - scivveddas - tianus - pingiadas - marigas - cungiobeddus - conche, tegami, pentole, brocche, recipienti per l’acqua o il vino e la lavorazione di tappeti e arazzi, cesti nelle più svariate forme - cibirus - corbis - scattedduscadinus - crivelli, corbule,  cestini, dove tutti gli anni si ripete il rito della rugiada di San Pietro.

Presso l’agriturismo su - Surbiu - assorbito, in località Surbiu, esiste una - mitza - sorgente dove sgorga un’acqua potabile e cristallina che è possibile bere in occasione del rito della rugiada.

A Pabillonis le prime tracce umane risalgono al Neolitico, lo testimoniano i frammenti di vetro vulcanico lavorati e l’abbondanza di questi ritrovamenti, fanno pensare alla presenza di piccoli borghi sorti nelle vicinanze di sorgenti d’acqua e fiumi.

L’era nuragica inoltre ha lasciato il suo segno tramite i resti del nuraghe - Santu Sciori -, - Nuraxi Fenu - e - Domu'e Campu -.

Il primo insediamento era sorto accanto alla chiesetta di San Lussorio, dirimpetto al fiume Mannu, dove attualmente si trova un ponte romano - su ponti de sa baronessa - il ponte della baronessa.

Da recenti scavi sono emersi cocci di vasellame, lanterne e monete romane che riconducono a presenze sino a età imperiale.

Nel medioevo, Pabillonis appartenne alla curatoria dei Bonorzuli, nel 1420 alla perdita di potere del giudicato, venne annesso al marchesato di Oristano.

Nel 1478 passò sotto il dominio aragonese e il paese fu aggregato alla contea di Quirra e successivamente fece parte della baronia di Monreale.

Durante il periodo fascista, nel 1934, il paese venne bonificato dalle paludi e acquitrini che costeggiavano il fiume Mannu.

Tornando all’evento della rugiada di San Pietro, che si svolge nella notte del 28 giugno, festività dei santi Pietro e Paolo come già detto si poneva in giardino o nell’orto un contenitore colmo d’acqua con degli albumi d’uova e lasciato tutta la notte al chiaro di luna affinché si potesse impregnare di rugiada.

La leggenda racconta che san Pietro, apostolo pescatore, soffiasse dentro al contenitore esposto, così facendo il Santo avrebbe fatto apparire la sua barca in modo da confermare la sua presenza i devoti.  

L’usanza risale al diciottesimo secolo e si fa risalire ai monaci benedettini. La stessa consuetudine, si estese poi in diverse località anche al 24 giugno.

Nel Campidano, per la precisione a San Gavino Monreale (oggi, città dell’oro rosso), la notte di san Giovanni Battista - santu Juanni -, festa di origine pagana, era usanza porre dentro a un catino (mia mamma utilizzava quello del lavabo da donna di ferro smalto bianco, che di solito veniva posato su un ripiano di marmo, provvisto di tre gambe di ferro battuto, con specchio orientabile e porta sapone)  diverse erbe e fiori selvatici; ricordo l’iperico, la lavanda, la ruta, il rosmarino, il finocchietto, il mirto, il timo o nepitella, petali di rosa, l'elicriso, la menta e altre ancora, poi ricoperti con acqua fresca e lasciati tutta la notte nell’orto per impregnarsi di rugiada benedetta. L’indomani mattino all’alba, tutta la famiglia doveva lavarsi il viso con quell’acqua benedetta, un rituale che col passare del tempo sta scomparendo.

Gente, manteniamo vive le nostre usanze, mi verrebbe da urlare!.

Questa tradizione a lungo andare si fuse poi con quella della notte del 28 giugno, che coincide meteorologicamente, con una serie di temporali e folate di vento, che nelle credenze popolari venivano attribuiti alla movimentata vita del Santo. 

Agli inizi del Novecento, quando il flusso di emigrazione italiano in cerca di fortuna verso l’America e altri stati era notevole, il ricorso e le preghiere a san Pietro, in modo scaramantico, erano frequenti con la speranza di ottenere un destino migliore e una lunga vita serena.

Ingredientis:

kg 2,5 di lumache sarde - sizzigorrus - sitzigorrus - sintzigorrus de Sant’Uanni - già spurgate, una bella cipolla di Zeppara (rigogliosa zona della Marmilla), 3 spicchi di aglio, 4 pomodori secchi ben dissalati, un mazzetto di prezzemolo e uno di finocchietto selvatico, g 800 di polpa di pomodori freschi ridotta a poltiglia, 1 peperoncino rosso piccante, 1 foglia di lauro, vino bianco secco, olio extravergine di oliva, aceto e sale q.b.

Approntadura:

per prima cosa tuffa le lumache dentro a un capace recipiente contenente acqua, due bicchieri di aceto, una manciata di sale grosso e lasciale in ammollo per una decina di minuti. Passato questo tempo, sfregale fra di loro svariate volte, così facendo eliminerai le impurità e le farai spurgare ancor di più. Terminata questa operazione, risciacqua le lumache parecchie volte in acqua corrente fredda, dopodiché lasciale a bagno sempre in acqua fredda, cambiandola sovente. Trascorsi venti minuti scolale e tuffale dentro a una pignatta colma d’acqua fredda leggermente salata, posta rigorosamente a fiamma dolce e inizia a cuocere le lumache, questo accorgimento permetterà alle chiocciole di tentare di fuoriuscire dal loro guscio. Solo allora alza la fiamma e prosegui la cottura per poco più di mezz’ora, avendo l’accortezza di schiumare la bava formatasi in superficie con l’aiuto di una schiumarola. Scaduto il tempo occorso, allontana il recipiente dal fuoco, coperchialo e lascia che le chiocciole si raffreddino all’interno (così come è abitudine procedere quando fai bollire i vasetti della conserva in un normale bagnomaria). Quando si saranno freddate, così come avviene in tante ricette è consigliato eliminare il colmo del guscio della lumaca - squacciai - con una lama affilata (questo stratagemma permetterà alla salsa di impregnare golosamente l’interno delle lumache), poi lavale ad una, ad una per eliminare le eventuali particelle di guscio rimaste. Fatto, trita finemente la cipolla con i pomodori secchi, il prezzemolo, il finocchietto, il peperoncino e versa il battuto in un capace recipiente di terracotta - tianu mannu - irrora il soffritto con un generoso giro di olio, profumalo immediatamente con l’aglio schiacciato, fai rosolare il tutto e appena passati due minuti bagna il soffritto con una spruzzata di vino. Evaporato, aggiungi la poltiglia di pomodori, il lauro e prosegui la cottura dolcemente per tre quarti d’ora. Trascorso questo tempo, regola il sapore di sale e servi le lumache immediatamente assieme a fette di pane tipo - civraxiu - chirvaxiu - civragiu - di Sanluri abbrustolite.

Vino consigliato: Monica di Sardegna fermo, dal sapore gradevole, morbido, vellutato e asciutto.

 

***

 

Ousu cun cibudda de Santu 'Anni Sruexu

 

 

 

Nota fin dai tempi antichi, la cipolla (Allium cepa) ha avuto, nel passato, un sorprendente apprezzamento per le sue virtù da sempre note ai medici e al popolo.

Pare che la sua origine affondi le radici nell’Asia Occidentale. La cipolla appartiene alla famiglia delle Liliacee (una specie bulbosa biennale o triennale). Ancora oggi si trovano varietà selvatiche sulle montagne dell'Afghanistan, del Turkestan e dell'Iran.

La cipolla è un ortaggio coltivato in tutta la nostra penisola, sia per le sue qualità organolettiche, sia per l’alto contenuto di sali e vitamine in essa presenti.

La sua coltivazione è documentata già a partire dal 3000 a. C..

Gli Egiziani la consideravano alimento sacro agli dei ed è incredibile la nostalgia che avvertirono i figli di Israele quando lasciarono l’Egitto.

Dalla contabilità ritrovata risulta che, nella costruzione della piramide di Cheope, furono pagati 1600 talenti per comperare aglio e cipolle, da usare come alimento per gli schiavi, alcune notizie narrano che questi ortaggi erano utilizzati anche come paga giornaliera.

Secondo lo scrittore e filosofo Artemidoro di Daldi  (II Secolo dopo Cristo), la cipolla come l'aglio erano piante profetiche e una credenza popolare tramanda che se un malato avesse sognato di mangiare poche cipolle, il suo male sarebbe peggiorato drasticamente, mentre se avesse sognato di mangiarne in gran quantità, assieme a spicchi d’aglio, sarebbe accaduto il contrario.

Nella cucina degli Etruschi le massaie alternavano aglio e cipolla nella preparazione delle pietanze, perché questi due ingredienti davano il sapore primario ai cibi ed erano ritenuti importanti anche per motivi igienici, terapeutici, stimolanti ed afrodisiaci.

Nei diversi paesi del Mediterraneo, a conferma di una comune consuetudine alimentare, la cipolla si diffuse grazie ai Romani, Greci e Fenici.

I Greci e i Romani erano grandi consumatori di cipolle, oltre che di aglio, considerati cibi gustosi e dotati di qualità curative.

Molteplici sono le varietà di cipolle che possono assumere sia forme che colori diversi. Ad esempio, la cipolla d’inverno (Allium fistulosum), oltre a presentare una metodologia di riproduzione diversa rispetto alla cipolla tradizionale, cambia anche d’aspetto, non presentando il caratteristico ingrossamento del fusto.

Nel corso del tempo, anche se non è facile stabilire il periodo, a causa di condizioni ambientali e climatiche particolarmente favorevoli, si ottenne quella specie conosciuta ormai a livello internazionale come cipolla rossa e dolce di Tropea. Si tratta di una varietà di cipolla che si raccoglie a inizio primavera e a fine estate. Il suo bulbo è di un intenso colore viola, che si avvicina al rosso, la sua forma è tonda, ovale o allungata e il suo impiego in cucina è ampiamente attestato in epoca moderna. Tra le tante testimonianze, significativa è quella dell’economista Giuseppe Maria Galanti, che nel 1792, come inviato in Calabria in qualità di visitatore del regno di Napoli annota nel suo Giornale di Viaggio che nel territorio di Tropea: “le cipolle rosse sono abbondantissime e se ne fa una estrazione di molti bastimenti all’anno che vengono esportate a Napoli, a Genova e in Francia”.

A metà Ottocento le cipolle di Tropea, assieme ai sedani della provincia di Foggia, all’aglio di Otranto e Brindisi, ai peperoni di Spinazzola e di Bari, alle fave e ai fagioli bianchi, facevano parte di quelle eccellenze alimentari delle regioni meridionali che si diffusero con successo sui mercati nazionali ed internazionali. 

La cipolla risulta essere diuretica, depurativa, antiglicemica, oltre a favorire le vie respiratorie, combattere l'influenza, le riniti, l'angina, le faringiti, polmoniti e bronchiti, grazie alle sue componenti antibiotiche.  È inoltre particolarmente utile nelle affezioni alla prostata, contro l'ipertensione, la senescenza, l'arteriosclerosi e le affezioni dell'apparato urinario.

Ma le curiosità relative alla cipolla non finiscono mai di stupirci; pensate che lo zolfo estratto dalla cipolla è impiegato nella cosmesi, per combattere la forfora, la seborrea e migliorano l'irrorazione sanguigna del cuoio capelluto, sono inoltre miracolose contro la tosse e le affezioni alle vie respiratorie. Fate bollire un quarto di latte con due cipolle affettate e filtrate il decotto, mescolatelo a due cucchiai di miele, sarà un toccasana. Provate per credere!.

All’inizio del Novecento, la cipolla di Tropea veniva coltivata non solo negli orti familiari, ma anche in terreni di notevole estensione.

Negli anni Sessanta, grazie al contributo degli emigrati calabresi, che espatriarono in America e in altre località del mondo alla ricerca di miglior fortuna, portando con se antichi sapori e tradizioni del paese d’origine, la cipolla di Tropea venne divulgata rapidamente e con successo.

Sempre agli inizi del Novecento, anche in Sardegna, e precisamente a - Santu 'Anni Sruexu - San Giovanni Suergiu, paese che oggi conta circa 6000 abitanti, si dava inizio ad un’importante coltivazione di cipolle, dalla forma tondeggiante, dal colore rosa e bianco, croccante, deliziosamente delicata e profumata, facendo nascere così, un bene prezioso che oggi si fregia della certificazione “PAT”, Prodotto Alimentare Tradizionale.

A questa cipolla, che nel tempo ha avuto una sua evoluzione, ogni anno nel mese di giugno a San Giovanni Suergiu (Covid19 permettendo), viene dedicato un appuntamento con degustazioni e vari abbinamenti a base di uova, tonno, focacce cotte nel forno a legna e tanto altro, il tutto accompagnato da ottimi vini locali.

Un vecchio detto popolare narra: “piuttosto mangio pane e cipolla che eseguire malvolentieri un operazione non gradita”, è sicuramente riferito al fatto che sino agli anni Cinquanta la cipolla era considerata uno degli alimenti meno attrattivi e comunemente usati nelle cucine più povere. Ma è anche vero che secondo un altro proverbio; “pane e cipolla a casa tua è meglio della carne a casa d’altri”.

Ingredientis:

8 uova freschissime, 2 belle cipolle di San Giovanni Suergiu, aceto di ottimo vino rosso, olio extravergine d’oliva, 8 fette di pane di semola raffermo, 2 spicchi di aglio, sale e pepe di mulinello q.b.

Approntadura:

per prima cosa, monda e lava le cipolle, poi riducile a fette e ponile dentro a un recipiente con abbondante acqua tiepida (c’è chi utilizza anche acqua fredda e ghiaccio), un bicchiere scarso di aceto e tienile a bagno per una decina di minuti. Trascorso questo tempo, scolale su un canovaccio bianco da cucina e asciugale. Fatto trasferiscile dentro ad un’ampia padella di ferro, oppure in una antiaderente assieme a un generoso giro di olio, una presa di sale, una macinata di pepe e lasciale cuocere fino a quando risulteranno appassite. Solo allora sgusciaci dentro le uova, quindi coperchia il recipiente e appena gli albumi si saranno rappresi, allontana la preparazione dal fuoco. Arrivati a questo punto, aggiusta il tutto di sale e di pepe, quindi servi le uova in quattro piatti individuali con parte delle cipolle e due fette di pane abbrustolite leggermente strofinate con l’aglio. Servi la frittata immediatamente. Vino consigliato: Vermentino di Sardegna D.O.C., di piacevole sapidità e gradevole freschezza accompagnate da note fruttate.

 

 

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