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“L'ISOLA IN CUCINA” di Roberto Loddi de Santu ‘EngiuMurriabi - Ricette luglio 2023

 Bóccullus o pirichittus de bentu

 Proprio a ridosso di Cagliari - Calaris -, capitale isolana, si trova Quartu Sant’Elena, terza città della Sardegna per popolazione - Cuartu Sant'Alèni - incantevole evivace centro abitato, con origini molto antiche e tracce delle popolazioni nuragiche e fenico-puniche. Furono però i Romani che la edificarono e i vandali nel 425 che con le loro continue invasioni la devastarono.

 

Nel Quattrocento la città venne trasformata in baronia e concessa in feudo. Nel Cinquecento fu saccheggiata ripetutamente dalle scorribande dei corsari, che ne indebolirono l’economia e causarono una drastica riduzione demografica. Prima della fine del Cinquecento la popolazione, per evitare altre incursioni e difendersi, costruì quattro torri costiere conosciute con il nome di: Mortorio, Sant'Andrea, Foxi e Carcangiolas. Quest’ultima, poco distante dalle spiagge della città, è ora un importante testimonianza storica e patrimonio artistico locale. Ma, Quartu Sant’Elena non è conosciuta solo per il suo tormentato passato, per le opere architettoniche, per le suggestioni ambientali e panoramiche, per la famosa “Sciampitta”, festival internazionale del folklore, ma sicuramente anche per le specialità enogastronomiche e l’arte pasticcera, tramandata oralmente da generazioni.

Il vanto dei quartesi, tra i tanti dolci sono - ispirichittus de bentu o bóccullus - dolci grossi quanto una pera e vuoti all’interno, ricoperti di candida - cappa - glassa bianca di zucchero, chiamati appunto boccoli - bòccullus - già nel Settecento.

A Quartu Sant’Elena esiste pure una scuola di alta pasticcera, dove esperte maestre dolciarie insegnano preziose nozioni sulla tecnica e la preparazione di tantissimi dolci, sempre all’insegna della cultura e dell’antica tradizione.

Nel mese di luglio, per la festa dedicata tradizionalmente a San Giovanni Battista - Santu Anni -, che si svolge da oltre quattrocento anni, le donne devote al Santo con grande maestria nella preparazione dell’arte dolciaria, realizzino oltre mille - pirichittus de bentu - che vengono poi offerti ai partecipanti in occasione della processione dedicata a Santo. Infine, una simpatica curiosità: il primo maggio di ogni anno, alla festa di Sant’Efisio a Cagliari (la prima edizione fu nel 1657), è facile scontrasi con vere e proprie nuvole di - pistoccheddus e pirichittus -, lanciati in aria in occasione dell’evento durante il passaggio dei visitatori, all’insegna della dolcezza e del divertimento.

Sta di fatto che il nome - pirichittus- “periquillo” in lingua spagnola, pare sia di origine medievale e la sua preparazione è rimasta inalterata da allora, vuoti dentro perché molto leggeri, quasi a simboleggiare il passaggio di un alito di vento. Gliingredienti?, semplicissimi: farina, uova, strutto, zucchero (poco zucchero, perché in tempi passati era rarissimo e utilizzato soltanto dai signori) e il dolce è pronto per essere gustato assieme a un calice di malvasia di Settimo San Pietro o di moscatello - musacadeddu-, rigorosamente sardi per intenderci.

Leggendo le lettere dal carcere di Antonio Gramsci, noto politico e uomo di cultura sardo, nato ad Ales, mi ha colpito il contenuto della lettera numero 19 del 26 febbraio 1927, quando si trovava a Milano nelle carceri giudiziarie di San Vittore e, rivolgendosi a sua mamma, scrive:

“ci vorrà pazienza ed io pazienza ne posseggo a tonnellate, a vagoni, a case (ti ricordi come diceva Carlo quando era piccino e mangiava qualche dolce saporito? «Ne vorrei cento case»; io di pazienza ne ho - kentu domus e prus-). Sono sicuro che ci vedremo ancora tutti assieme, figli, nipoti e forse, chissà, pronipoti, e faremo un grandissimo pranzo con - kulurzones e - pardulas - e - zippulas - e - pippias de zuccuru - e - figusigada - (non di quei fichi secchi, però, di quella famosa zia Maria di Tadasuni). Credi che a Delio piaceranno i - pirichittos e le - pippias de zuccuru -? Penso di sie che anche lui dirà di volerne cento case”.

Pensieri commoventi che dimostrano come la memoria e il ricordo di cose buone aiutino a superare anche il dolore di essere rinchiusi e privati della libertà.

È questo il motivo per cui i dolci rappresentano per gli esseri umani non solo un piacevole nutrimento per il corpo, ma anche sublimi coccole che sanno riempire i vuoti, avvolte incolmabili del nostro animo.  E chi può farne a meno… scagli il primo dolce!!!

Ingredientis:

g 600 di farina, g 600 di acqua, g 250 di strutto suino, 18 uova freschissime, un cucchiaino di lievito per dolci, una presa di bicarbonato, per la - cappa - glassa: g 500 di zucchero comune, 2 cucchiai di acqua di fior d'arancio, acqua o succo di limone o liquore tipo anisetta o villacidro, la scorza grattugiata di un limone grande giallo non trattato, farina per le teglie, sale q.b.

Approntadura:

per prima cosa, poni dentro a una casseruola l’acqua che hai in dotazione e portala ad ebollizione, poi aggiungi un pizzico di sale e il bicarbonato, subito dopo lo strutto e non appena si sarà sciolto tuffaci la farina tutta in una volta. Fatto, con l’aiuto di un cucchiaio di legno mescola energicamente il composto per una mezz’oretta fino a quando l’impasto si staccherà agevolmente dalle pareti del recipiente. Una volta raffreddato, rovescia la massa dentro a una conca di terracotta - schivedda - xivedda-, allorché unisci il lievito setacciato (un tempo si usava il cremore tartaro al posto del lievito in polvere), le uova una alla volta, non aggiungendo il successivo fin quando non si sarà assorbito il primo, proseguendo in questo modo sino al termine delle uova ed avrai ottenuto un impasto liscio e malleabile. Terminata questa operazione, preleva una cucchiaiata per volta di pasta, modella delle palle a forma affusolata di pera e man mano che le sagomi, accomodale dentro a una o più teglie spolverate di farina o foderate con carta oleata distanziandole fra loro. Arrivati a questo punto, passa i dolci in forno già caldo a 250°, giusto il tempo che occorre a far gonfiare i - pirichittus - poi abbassa la gradazione del forno a 170° e prosegui la cottura per quaranta minuti circa, fino a quando non avranno raggiunto un bel colore dorato (in base alla tipologia del forno è bene prestare attenzione, affinché i dolci non diventino troppo colorati). Quando i - pirichittus - avranno raggiunto la colorazione desiderata, lasciali asciugare ancora nel forno a 100° per un paio di ore con lo sportello leggermente aperto. Passato il tempo richiesto, prepara la - cappa - nel seguente modo: metti un tegame sul fuoco a fiamma moderata con dentro lo zucchero, l’acqua fior d’arancio, la scorza di limone, un bicchierino di villacidro ed eventualmente poca acqua, fai cuocere il tutto sempre mescolando fino a che avrai ottenuto uno sciroppo viscoso e prendendo una goccia di liquido tra la punta delle dita pollice e indice, allargandole si formerà un filamento elastico. Questa operazione prende il nome di - zuccuru a mesu punto - zucchero a mezzo punto, da qui il nome dei - pirichittus de bentucunzuccuru a mesupuntu -. Prendi quindi un dolce tenendolo fermo con una mano e con l’altra un pennello, intingilo nello sciroppo e pennella la superficie, adagialo su una griglia per dolci e prosegui la stessa operazione sugli altri dolci. Asciugati, ricomincia da capo a pennellare con la glassa i - pirichirttus -, ripetendo più volte la glassatura fino a quando avranno raggiunto una bella coloratura biancastra.

Vino consigliato: Malvasia di Cagliari dolce, dal sapore alcolico con retrogusto di mandorle tostate

 

***

 

Arrosucunbuttàriga de pix’e ponti s’oru o prendasa de Crabas

 

 

Cabras in Sardegna è sinonimo di bottarga, l’ambrata baffa, la cui locuzione proviene dall’arabo “bottarikh”, i quali la diffusero in tutto il Mediterraneo, ma ha anche radici nel vocabolario greco-bizantino il cui termine significa uova di pesce salate ed essiccate.

Resti di bottarga si sono trovati anche nelle piramidi egizie.

L'estrazione del sale marino in Sardegna risale a circa 3000 anni fa, all'epoca dei Fenici e costituiva uno dei prodotti più importanti dell'economia nell’Isola, oltre a essere uno dei motivi per cui i mercanti stranieri presero a frequentare stabilmente il territorio.

Furono proprio loro a scoprire la tecnica della salagione e stagionatura delle uova del muggine (Mugilcephalus) - cefalu - pix’e ponti - pix’epontisi -, termine che potrebbe derivare pure dal cognome di un commerciante pescatore dei tempi antichi: - Ponti - Pontis - Pontisi - pix’eiscatta - muzzaru - muzzera - muza - conchillada - conchedda - conchedda de pischera- lissa - glissa - mugheddu - mussulu - loi - e tanti altri ancora sono i nomi dialettali utilizzati per definire questi pesci.

Anche i Greci apprezzavano la bottarga e dopo di loro, i Romani dal palato sopraffino iniziarono a gradire le pregiate uova di muggine, fino a diventare i più grandi buongustai dell’epoca e consumarne grandi quantità.

Il documento più antico che cita la bottarga - “buttàriga” - risale al 1386, ed è quello rilasciato a un potente commerciante che trasportava via mare un carico di barili di bottarga essiccata e di fronte al golfo di Oristano subì un naufragio, fortunatamente il prezioso bottino fu messo in salvo.

Nel Quattrocento la bottarga “butarghe”, definita uova di cefalo o muggine, conservata sotto sale, era un ingrediente molto gradito a Maestro Martino da Como, che nel suo “Libro de arte coquinaria”, descrive la ricetta del procedimento utilizzato per la salatura ed essiccazione delle uova del muggine.

Il cuoco Giovanni Nelli, nel suo trattato universale “Il re dei cuochi” 1880, scrive del cefalo: “La loro carne è ricercata perché tenera e gustosa; colle uova compresse, salate e disseccate si forma la così detta bottarga, assai usata in Corsica, Sardegna e Provenza”.

In Sardegna la bottarga  un tempo non era conosciuta come lo è oggi, che viene chiamata  “l’oro di Cabras” o caviale del Mediterraneo, era nota solo alle famiglie di pescatori delle coste e la ristorazione la proponeva nei menu solo se  aveva la fortuna di conoscere pescatori del luogo che garantissero la fornitura, infatti all’interno dell’Isola nessuno la conosceva, perciò era assai difficile commercializzarla, nemmeno nelle strisce costiere e rimaneva un prodotto riservato solo alle famiglie dei pescatori e ai loro parenti ed amici.

Da sempre la lavorazione delle uova della femmina del cefalo era mansione che spettava alle donne, che con l’aiuto di affilati coltelli - lepas - arrasojas - arresojas - arburesas - patadesas - brozas- còrrìnas - gotteddus - gorteddus - guateddus - gurteddus - e tanti altri nomi ancora, incidevano la pelle dove erano custodite le uova per estrale, per poi sottoporle alla salatura e alla pressatura tra tavole, in luogo aerato, fino a quando non erano asciutte.

Solo mezzo secolo prima del Novecento, la bottarga ha iniziato ad affermarsi, attraverso il passa parola, l’uso da parte della ristorazione e la disponibilità dei piccoli commercianti, rimanendo comunque un prodotto di nicchia.

La bottarga di muggine, con quella di tonno, sono due eccellenze e fiore all’occhiello della Sardegna, si differenziano fra loro per il colore giallo ambrato e per il sapore spiccato e intenso, che rilascia al palato una raffinata sensazione che ricorda la frutta e un sensibile ricordo di mandorla,  che contraddistingue il primo, mentre quella di tonno si differenzia alla vista per il colore dal rosa molto chiaro al bruno-rossastro, a seconda della varietà e che regala note più volitive al palato.

Ogni anno a Cabras viene dedicato un appuntamento alla bottarga, con degustazioni e piatti tipici del territorio, abbinati a vini del Sinis. Faranno da contorno alla rassegna gli stand con prodotti del luogo e mostre artigianali, il tutto condito con balli sardi, attrazioni varie e, per i più ghiottoni - gullosusu - licoinàrgius - licoinàrxus - non resta che prendere parte alle danze, si… ma delle mandibole però!.

Ingredientis:

g 320 di riso carnaroli Molas di San Gavino Monreale, una mezza cipolla di Zeppara (prosperosa area della Marmilla), due pomodori secchi ben dissalati, uno spicchio di aglio, un mazzetto di prezzemolo, un ciuffo di timo, mezzo bicchiere di vino bianco secco, brodo leggero di carne, zafferano San Gavino, bottarga di muggine di Cabras, un ciuffo di finocchietto selvatico, un limone giallo non trattato, olio extravergine di oliva, sale e pepe di mulinello q.b.

Approntadura:

prima di ogni altra operazione, prepara un trito finissimo con la cipolla, i pomodori secchi e il ricavato fallo imbiondire assieme a un generoso giro di olio. Trascorsi alcuni minuti unisci il vino e una volta evaporato il riso e man mano che cuoce (18 minuti circa) allungalo con del brodo bollente. Fatto tuffaci lo spicchio di aglio ridotto a poltiglia e prosegui la cottura sempre mescolando. Quando mancano alcuni minuti al termine, regola il sapore di sale (poco sale, perche la bottarga è salata), impreziosiscilo con una presa di zafferano, il prezzemolo tritato, il timo sbriciolato, una lodevole macinata di pepe e una volta cotto al dente scodella il risotto leggermente all’onda dentro a delle fondine individuali. Prima di servirlo, cospargilo con una cospicua piallata di bottarga e una ulteriore macinata di pepe, completalo con una spolverata di finocchietto spezzettato, una grattugiata di scorza di limone e un filo di olio.

Vino consigliato: Sardegna semidano Mogoro, dal sapore morbido, sapido, fresco e asciutto.

 

 

 

 

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