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L'ISOLA IN CUCINA di Roberto Loddi de Santu ‘Engiu Murriabi – Rìcette Settembre 2023

 Minestroni de fasou siccau coxinau cun ollu de lostincu peri sa festa de Santa Maria Angiargia

 
Una delle feste più antiche e folcloristiche della Sardegna è senz’altro quella di Santa Maria Angiargia - Bagnaria, che affonda le radici agli inizi del XII secolo. Ogni anno, nella prima decade del mese di settembre, la comunità di Collinas, (in antico sardo - Forru -, dal latino “forum”, in quanto anticamente esistevano dei forni per cuocere il vasellame e da qui probabilmente il nome di questo piccolo centro agricolo), festeggia la Santa.

Collinas, è situato a sud del medio Campidano è circondato da morbide colline e immerso nell’esteso e florido territorio della Marmilla orientale, la terra del sole.

I solenni festeggiamenti dedicati a Santa Maria Angiargia coinvolgono l’intero paese che partecipa con entusiasmo e passione.

La celebrazione, avviene portando l’effigie di Maria Bambina in processione nel tratto di bosco venerato dai fedeli che dista un paio di chilometri dal paese, proprio dove sorge la chiesa campestre dedicata alla Santa e costruita intorno al XII secolo, secondo altre fonti l’edificazione sarebbe anteriore all’anno mille. La chiesa inizialmente di proprietà dei frati benedettini - parasa  arestisi - che probabilmente la costruirono con i lasciti ricevuti nel tempo da alcuni giudici di Cagliari.

Una leggenda racconta che adiacente alla chiesa si trova un pozzo con all’interno diverse nicchie, proprio dove un agricoltore facendo rientro in paese, dopo avere caricato il carretto con fascine di lentisco - modditzi - lostincu - e ciocchi di cisto - cotzinas -, finì con le ruote impantanate nel suolo e nonostante la fatica e i ripetuti tentativi di rimuovere il mezzo risultò tutto inutile. Non riuscendo quindi da solo, chiese aiuto ad altre persone, ma solo dopo innumerevoli tentativi, finalmente riuscirono a smuovere il carro e mentre rassettavano i solchi lasciati dallo stesso, nelle vicinanze tra arbusti e fogliame scoprirono uno specchio d’acqua e in una delle cavità intravidero una piccola statuina di Maria. Passato lo stupore, il gruppo di uomini prese la statuetta della Santa e caricata sul carretto si incamminò verso il paese, ma il cavallo dopo un piccolo tratto si fermò e indietreggiò, diventando irremovibile. Solo allora quei contadini capirono che sarebbe stato giusto lasciare la statua sul posto con tutto il carico di legna sottratto nel luogo dove poi venne eretta l’attuale chiesetta.

Da allora si racconta che chiunque partecipi alla festa nel bosco e si impossessi di un ramo o quant’altro, sarà soggetto a una sanzione divina.  

A proposito dell’olio di lentisco segnalo che, già ai tempi di Roma antica, Marco Gavio Apicio, gastronomo e cuoco ufficiale e personale dell’imperatore Tiberio, nel suo trattato “De re coquinaria”, consigliava di utilizzare l’olio di lentisco per cucinare le erbe selvatiche.

“L’olio dei poveri”, cosi era chiamato l’olio di lentisco  - ollu de lostincu - ollu ’e stincu - in Sardegna, prodotto con le drupe del lentisco (Pistacia lentiscus, della famiglia delle Anacardiaceae), in uso sino agli inizi degli anni sessanta e oggi tornato di moda, in piccole produzioni artigianali. Quest’olio aromatico veniva impiegato nelle grigliate di pesce, di carne, di salsicce e le immancabili spiedate di agnelli e maialini, dando modo agli addetti alle griglie della festa - arrustidoris - di esaltare le loro prelibatezze, immancabilmente accompagnate con il tradizionale vino dolce di Collinas - binu druci de Forru -.

L’antica festa di Santa Maria Angiargia con la processione è rimasta inalterata, ma all’interno del bosco “sacro” non c’è più il folclore autentico e sentito dell’antica tradizione. Oggi restano poche bancarelle con prodotti locali assieme a quelle di qualche ambulante, che non sempre ha delle connessioni significative con la cultura e le usanze dei collinesi.

Ingredientis;

g 400 di fagioli borlotti - fasou siccau - siccu -, un mazzetto di finocchietto selvatico - fenugheddu aresti -, due foglie di alloro - lau -, un ciuffo di prezzemolo, un ciuffo di salvia, 4 cipollotti - cibudittu -, g 80 di guanciale sardo - grandua - 4 pomodori secchi ben dissalati - pibadra - piarra -, 2 spicchi di aglio - allu - ,2 belle patate, g 200 di fregola sarda tostata - fregula – oppure g 200 di pasta tipo ditali - babbu nostusu -. vino bianco secco, pecorino grattugiato, olio di lentisco o extravergine d’oliva, - bicarbonato - bicarbonau -, sale e pepe di mulinello q.b.

Approntadura:

la sera prima poni ad ammollare in fagioli in un recipiente contenente abbondante acqua a temperatura ambiente con un cucchiaino di bicarbonato. L’indomani, trita il finocchietto assieme ai pomodori secchi, i cipollotti, il guanciale, il prezzemolo, la salvia, uno spicchio di aglio e il battuto ottenuto accomodalo dentro a una pignatta di terracotta dalle pareti alte - olla -, insieme a un giro di olio (se lo possiedi usa l’olio di lentisco). Trascorsi un paio di minuti spruzza il soffritto con poco vino e quando evaporato, tuffaci le patate affettate sottilmente, le foglie di lauro, i fagioli ammollati, sgocciolati e tanta acqua o brodo vegetale che si riveli sufficiente a coprire i legumi almeno quattro dita. Fatto, lascia cuocere la zuppa dolcemente a recipiente coperto per un’ora e mezza circa, girandola ogni tanto per evitare che si attacchi sul fondo. Quando manca un quarto d’ora, regola il sapore di sale e impreziosiscilo con una lodevole macinata di pepe, poi aggiungi la pasta prescelta e non appena risulterà cotta al dente, allontana il recipiente dal fuoco. Lascia riposare la minestra qualche minuto prima di scodellarla dentro a delle ciotole insieme a delle fette di pane raffermo tipo - civraxiu - abbrustolite e leggermente sfregate con l’aglio rimasto, completa il piatto con un filo di olio, una grattugiata di pecorino e un ulteriore macinata di pepe.

Vino consigliato: - “Binu de Forru” - Nuragus, dal sapore sapido e piacevolmente fresco al palato, secco,   morbido e leggero di corpo.

 

***

 

Comment’est durche su mele siat durche s’amori

 

 

 

 La Sardegna è una terra dagli scenari incantati, con luoghi ricchi di fascino introvabili in altri angoli di mondo, dove resistono ancora tradizioni arcaiche legate ai costumi e agli usi di un tempo. Per esempio a proposito del matrimonio e in particolar modo nei paesi dell’entroterra, questi valori sono rimasti molto saldi e spesso inviolati. Leggendario è - sa coja antiga - l’antico matrimonio - coja - cojóngiu - cojantza -  sposallitziu - sposoriu - in costume selargino, vissuto profondamente  come legame fisico e religioso di due esseri viventi.

 

Tante sono le storie e le leggende legate al matrimonio, tutte legate alla dolcezza, così

“come è dolce il miele, così sia dolce l’amore” - comment’est durche su mele siat durche s’amori - come quelle più ricorrenti che sono legate al cibo e alla festa, proprio perché si differenziano dal consueto e dal quotidiano.

La preparazione richiede tempo e personale e immancabilmente si ricorre alla parentela degli sposi. Le cuoche più anziane coinvolgono le nuove forze giovanili, insegnando loro l’arte culinaria e la tecnica di mescolare i preziosi ingredienti. Abili e sapienti gesti modellano pani - pani pintau - e dolci, ottenendo in questo modo delle stupende opere d’arte.

A tal proposito, tra i racconti più originali sul pane, si narra che in passato le fate che dimoravano nelle spelonche - is domus de janas - le case delle fate (caverne scavate nella roccia dalle antiche civiltà dell’Isola risalente a oltre 5.000 anni fa), sedussero una ragazza per insegnarle l’arte di fare il pane rituale. Secondo la narrazione l’impasto iniziale avvenne dentro a utilizzando l’acqua purissima che filtrava dalle pareti rocciose e farina di grano. La ragazza rimase estasiata per l’esperienza che stava vivendo, e le fate con eleganza e atto di ossequio le consegnarono - su frommentu - framentu - il lievito madre, con preghiera di trasmettere alla gente l’origine della lavorazione del pane. Infatti, tutt’ora in varie aree dell’Isola è ancora in vita l’abitudine rituale del procedimento di panificazione. Se la storia sul pane ha del fantastico, non è da meno quella sui dolci, a Oliena in Barbagia, ad esempio, di solito era la suocera che offriva il dolce alla sposa - turta ‘e sa ocra - torta della suocera.

A Bortigali in provincia di Nuoro, nei matrimoni era usanza, come lo è tuttora, preparare un dolce delicato che ricorda il fascino e l’armonia della vita rurale: la - frissura de latte - latte fritto, simile alla crema fritta ligure. Sempre nel nuorese era, ed è usanza, preparare - sos coros - coricheddos nugoresos - i cuori e altri dolci con le sembianze di pesciolini, colombine, foglie e roselline. Il tutto preparato con una sottilissima pasta - pasta violada - la pasta sfoglia dei sardi, modellata con delicati ghirigori, arricchita con un ripieno a base di mandorle, miele e scorze d’arancia. Vere opere d’arte!. Però il dolce degli sposi una volta era il - gattò - gattòu - dolce croccante. Svariate sono le ipotesi circa la sua provenienza.

In un testo spagnolo della metà del Quattrocento si parla di croccante, facendoci supporre che la sua nascita sia avvenuta proprio nel paese iberico.

Il capo cuoco dell’Ambasciatore d’Inghilterra Francesco Chapusot ne “La cucina sana, economica ed elegante” prima edizione Torino 1846, descrive a pagina 129: “… un mandorlato (nougat) scrosciante da fare scorrere piano, piano dentro a una forma a capriccio, unta d’alcun poco olio e prosegui così fin quando la forma sia piena”.

Con il  gattòu  in passato si usava riempire  degli appositi stampi di latta a forma di pesce e mia zia Iside, esperta dolciaia di San Gavino Monreale (città dell’oro rosso per via dell’importante produzione nazionale di zafferano), mi diceva, che questa operazione voleva essere una forma di rispetto nei confronti delle credenze, che ancora oggi ispirano la nostra vita.

Le storie raccontate su questo delizioso dolce sembrano non esaurirsi, così come quelle di altri dolci caratteristici preparati per i matrimoni. Tra questi è d’obbligo ricordare i gesminus - garminos - germinos, dolci creati con filetti di mandorle glassati e decorati con confettini di zucchero argentati - tragera - tragea - dragea - che ricordano le rose del deserto. Un vero capolavoro di raffinata fattura. Da non dimenticate i - pastiyzus – pastissus - camèllie - capigliettas - del Montiferru nell’oristanese - pastine reali di mandorle.  pistocus de cappa - biscotti glassati con candida ghiaccia - cappa -. biancheddus - bianchinus - bianchissime meringhe classiche. gallettinas - ciambelleddas - ciambelline a forma di fiore con al centro confettura di frutta o marmellata di arance. gueffus - palline a base di farina di mandorle, zucchero e acqua fior d’arancio. - amarettus de is sposus - amaretti degli sposi, preparati con farina di mandorle dolci e mandorle amare, albumi, zucchero (in alcune zone aggiungono pure il miele) e acqua fior d’arancio, in passato si utilizzava l’acqua di gelsomino. Tanti altri ancora sono i dolci preparati per i matrimoni, uno in particolare sembra accomunarli tutti ed è - sa turta de mendula - la torta di mandorle, dalle decorazioni originali ed impegnative artisticamente, servita alla fine del pranzo nuziale. Da non trascurare il fatto che ogni dolce descritto ha una sua virtù metaforica, e in questa occasione ognuno deve essere perfetto e armonico, proprio come la sposa.

Ingredientis:

kg 1,2 di mandorle già pelate, g 700 di miele, g 500 di zucchero comune, 2 cedri maturi non trattati, confettini colorati, limoncello q.b.

Approntadura:

cospargi un piano di lavoro in marmo con il succo dei cedri filtrato (tieni da parte due mezzi cedri), poi passa le mandorle per un minuto in acqua bollente, quindi scolale, asciugale e tagliale a filetti (se lo preferisci lasciale intere e non farle nemmeno sbollentare). Deciso la scelta, falle asciugare dentro a una teglia foderata con un foglio di carta oleata in forno già caldo a 130° per qualche minuto. Fatto, poni su fuoco dolce un recipiente dal fondo pesante (il recipiente ideale è il polsonetto di rame di adeguata capacità), tuffaci all’interno il miele e dopo cinque minuti lo zucchero. In una versione di croccante più moderna è prevista l’aggiunta di una cucchiaiata di limoncello. Quando gli ingredienti cominciano a caramellare, unisci poche alla volta le mandorle (otre alle mandorle in diverse regioni utilizzano le nocciole, il sesamo, le arachidi, i pistacchi e pinoli), mescola il tutto in continuazione con un mestolo di legno dal manico lungo, fino a quando il tutto si sarà ben amalgamato, prestando parecchia attenzione per evitare di bruciarti e appena il composto sarà diventato di un bel colore dorato, rovescia l’impasto sul piano di marmo che avevi inumidito con il succo dei cedri. Arrivati a questo punto, allargalo comprimendolo con l’aiuto dei due mezzi cedri tenuti da parte o un matterello dello spessore di un centimetro circa, subito dopo taglialo velocemente a rombi con un coltello a lama pesante, in modo da evitare che il caramello si solidifichi. Terminata questa operazione, decora a piacere il - gattòu - con dei confettini colorati - tragera - tragea - dragea -.

Vino consigliato: Malvasia di Settimo San Pietro dolce, dal sapore alcolico con retrogusto di mandorle tostate.

 

 

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