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L'ISOLA IN CUCINA di Roberto Loddi de Santu ‘Engiu Murriabi – Rìcette Ottobre 2023

 Purenta e tocio

 Trent’anni dopo la scoperta dell’America e, precisamente in Andalusia, nascevano le prime coltivazioni di mais per opera di agricoltori di origine araba, che lo impiegavano come mangime per gli animali.

 

Dal Golfo di Biscaglia, il mais si diffuse nel XVII secolo in tutta Europa, anche per impulso dei coloni americani e, si espanse rapidamente lungo una fascia precisa, attraverso la Spagna, la Francia, l'Italia, i paesi danubiani e l'Ucraina, fino al Caucaso. Infatti più a nord il clima era troppo freddo, più a sud troppo secco.

La preparazione del mais in cucina è ovunque pressoché la stessa: si fa cuocere la farina gialla in acqua o brodo, si aggiunge alla fine; burro, latte, formaggio e si condisce con sughi o intingoli a base di funghi o di carne.

Le attuali ricette della polenta - impastizada -, della polenta - infasolà -, della polenta - onta -, ecc., si rifanno tutte a questo antico uso derivato dalla maniera di preparare la - puls - romana.

L’etimo della parola polenta, rimanda alla sua origine latina, - puls -, al plurale - pultes -.

Allora, la polenta era fatta con il farro, un cereale più grosso e duro del comune frumento e non offriva la consistenza della polenta di farina gialla. Si condiva con latte, formaggio, carne di agnello, oppure con salsa acida e maiale.

La - puls - era conosciuta in tutta l'area mediterranea e, Marco Gavio Apicio, ci parla della - puls - punica, preparata con farina, formaggio fresco, miele e uova. Lo stesso autore ci riporta la preparazione delle - pultes julianae -, riconducibili alle polente friulane e venete con la spelta o il panico, con l'aggiunta di olio o latte, formaggio e sughi di carne.

Nel “De honestate voluptate et valetudine” del Platina, alla fine del XV secolo, ritroviamo il farro. La torta si otteneva mettendo la polenta a strati in padella, o in una teglia, alternandoli con una "spolverata" di zucchero e acqua di rose.

 La polenta di granoturco storicamente risolse i molti problemi alimentari delle popolazioni povere, fino a quando nella metà del XVIII secolo, non apparve la pellagra, malattia causata, si disse, dal consumo costante di polenta.

Gianni Brera indimenticato giornalista sportivo diceva: “Non più di tre generazioni addietro, la mia parte di Padania, la Bassa Lombarda, era afflitta dalla pellagra, che è una malattia causata dalle insufficienze nutritive e vitaminiche del granoturco, una malattia collegata alla mancanza di vitamine del gruppo B, niacina, vitamina PP o di triptofano, amminoacido necessario per la sua unificazione e venne sconfitta solo con rilevanti modifiche alimentari”.

Ancora peggio dei Lombardi stavano i Veneti, etnicamente molto somiglianti, con i quali condividevano il triste declino politico-economico, non stavano meglio i Piemontesi, in gran parte di ceppo lombardo, che scontavano una situazione socio- economica e politica altrettanto delicata.

Ci sono voluti decenni e si è dovuto arrivare al secolo scorso per capire che la pellagra era conseguenza di una mancanza di vitamine e si riconobbe l'antica saggezza dei Maya e degli Incas, che avevano fatto del mais la base della loro alimentazione in modo equilibrato.

In Sardegna la polenta è denominata - purenta - pulenta - o - farru - polenta di orzo, era conosciuta già dai tempi della civiltà nuragica, ne sono una conferma i resti dei diversi utensili utilizzati per la macina di questo alimento e le tracce dei fossili delle coltivazioni di piante graminacee impiegate per ricavare la farina. Non ci sono certezze, ma si risalirebbe al 3000 a.C.

I Romani si alimentavano anche di polenta di farro e orzo, tra il 238 e il 456 a.C. faranno della Sardegna, principalmente della piana del Campidano, terra di coltura di cereali e frumento, quest’ultimo necessario per la panificazione, tanto che durante l'epoca repubblicana, la Sardegna assunse il titolo di "granaio di Roma".

Sempre in tema di polenta, in Sardegna, ad Arborea in provincia di Oristano, paese a due passi da mare, con poco più di 4000 abitanti, ogni anno nel mese di ottobre viene dedicata una sagra a questo alimento, con degustazioni associate a diversi condimenti. Nell’ambito della stessa manifestazione, vengono promossi prodotti agroalimentari locali.

Il paese venne fondato durante il periodo fascista, infatti fu inaugurato il 29 ottobre del 1928 come “Villaggio Mussolini” e l’otto marzo 1944 il paese venne chiamato Arborea.

Da sempre il grano sardo rimane la coltura più diffusa nell’Isola, che insieme alla farina di ghiande e di castagne, hanno sfamato intere generazioni.

Durante il Medioevo erano utilizzate le farine di avena e di segale, per arrivare poi al riso e alla farina di mais, la farina gialla per cucinare la polenta alla sarda, utilizzata per abbinare intingoli a base di spezzatini, di salsiccia, di formaggi locali e condimenti vari, tutti ingredienti utili per impreziosire questo meraviglioso piatto... La polenta!.

Ingredientis:

per la polenta: g 400 di farina di polenta gialla fine, 2 litri di acqua,  sale q.b. per l’intingolo: g 400 di polpa di maiale, g 300 di polpa di stinco di manzo, g 60 di pancetta, 2 belle cipolle di Zeppara (rigogliosa regione della Marmilla), g 250 di carote, il cuore di un sedano, un mazzetto di prezzemolo, 4 pomodori secchi ben dissalati, un cucchiaio raso di aghi teneri di rosmarino, vino rosso tipo Arborea Sangiovese, g 500  di polpa di pomodori ridotta a poltiglia, 2 spicchi di aglio, alcune bacche di ginepro, brodo leggero di carne, olio extravergine di oliva, zafferano, sale e pepe di mulinello q.b.

Approntadura:

elimina l’eventuale grasso della carne, riducila a spezzatino e tienila al fresco. Fatto, monda, pulisci e lava le verdure, poi tritale finemente assieme al prezzemolo, gli aghi di rosmarino e i pomodori secchi, quindi fai rosolare il ricavato in un capace recipiente di terracotta - tianu mannu - assieme alla pancetta battuta a coltello e un giro di olio. Trascorsi cinque minuti, bagna il soffritto con una generosa spruzzata di vino e quando evaporato unisci la carne tenuta da parte, le bacche di ginepro pestate e falla rosolare da ambo le parti, bagnandola ogni tanto con del brodo bollente. Dopo una mezz’ora, aggiungi la polpa di pomodori, l’aglio e prosegui la cottura dolcemente a recipiente coperto per un’ora e mezza, aggiungendo altro brodo bollente qualora il fondo di cottura tendesse ad asciugarsi, comunque sia l’intingolo alla fine dovrà risultare vellutato. Quando mancano cinque minuti al termine della cottura, regola il sapore di sale e impreziosiscilo con una macinata di pepe (c’è chi aggiunge all’intingolo anche una presa di zafferano San Gavino). Arrivati a questo punto, tieni il - tocio - spezzatino con il suo intingolo al caldo e prepara la polenta nel seguente modo: poni l’acqua dentro a una marmitta e portala ad ebollizione, dopodiché aggiungi un cucchiaino colmo di sale grosso e di seguito la farina di mais a pioggia, mescolando continuamente con l’apposito bastone o una frusta per quaranta minuti circa (la polenta deve rimanere vellutata e priva di grumi). Servi la polenta dentro a dei piatti di terracotta assieme allo spezzatino e parte del suo condimento caldo.

Vino consigliato: Arborea Sangiovese, dal sapore asciutto, morbido, fresco e aromatico.

 

***

 

Ghisadu de sriboni cun tzinnibiri e tzaffanau

 

Il ginepro “ginepro fenicio”, proviene dall’Europa settentrionale, anche se presumibilmente è originario dell’area tibetana e, col passare del tempo si sarebbe divulgato nelle zone montane verso la Russia, per poi arrivare in Europa e nel bacino del Mediterraneo. Il suo nome botanico è “Juniperus communis”, appartiene alla famiglia delle “Cupressaceae” e il termine ginepro si pensa sia di origine celtica e vuol dire acre. Dal greco “arkeuthos”, che vuol dire scacciare il nemico.

La pianta mostra le sue foglie aghiformi, di colore verde-argenteo o giallognolo tutto l’anno e con la sua maestosità è capace di raggiungere eccezionalmente anche i dodici metri di altezza. I frutti, comunemente detti bacche, dapprima appaiono di un colore verde opaco, successivamente di colore verde-ocra e a maturazione si tingono di rosso-bruno con tendenza al violaceo. Cresce per lo più nelle aree piuttosto fredde, fino a oltre duemila metri d’altezza sul livello del mare, ma ha trovato il suo habitat anche lungo le coste della Sardegna, dove in dialetto sardo viene chiamato - tzinnìbiri - ajacciu - ed è un legno di durissima consistenza e non facile da lavorare.

Gli artigiani isolani lo ritengono materiale ideale per formare l’ossatura delle imbarcazioni, modellare i pioli delle scale di legno, costruire rudimentali aratri, tridenti, rastrelli, grate per sostenere il fieno nelle stalle e tanti attrezzi utili ai contadini, ma anche per forgiare palette per prelevare il grano e la farina dai sacchi, cucchiai e mestoli adatti per l’uso quotidiano in cucina, spiedi per arrostire la carne, oppure come travi per sostenere la cappa e allo stesso tempo per abbellire i caminetti di un tempo, la costruzione delle capanne dei pastori - pinnettas - e tanto altro ancora.

Il ginepro era apprezzato dagli antichi greci che adoravano l’odore emanato dai rami e dai frutti arsi durante i riti di purificazione, per depurare gli ambienti e allo stesso tempo per scacciare spiriti indesiderati.

Il ginepro è citato anche da Ippocrate, medico, geografo e aforista greco, considerato il padre della medicina, vissuto nel V secolo a. C.. Anche Dioscoride, medico, botanico e farmacista greco alla corte di Nerone, nel suo “De materia medica”, erbario scritto in lingua greca, decantava le peculiarità del vino al ginepro come rimedio ai problemi di digestione e l’utilizzo delle bacche era indicato per guarire le affezioni del colon, le infiammazioni delle vie urinarie e gli inconvenienti al sistema respiratorio.

Il ginepro era molto apprezzato anche dai romani, infatti Marco Gavio Apicio, vissuto sotto Tiberio, famoso gastronomo e cuoco romano, fu un personaggio ricchissimo e dedito ai piaceri della gola, nel suo trattato “De re coquinaria” raccomandava l’impiego delle bacche in cucina per impreziosire le pietanze e lo utilizzava anche in sostituzione del pepe.

Marco Porcio Catone, più conosciuto come Catone il censore, detto anche Censorius, Priscus, Superior o Maior, per distinguerlo dall'Uticense, fu pretore nel 198 in Sardegna, il quale riparò i danni arrecati dai suoi predecessori e nella sua affermata opera “De agri cultura”, descrive di quanto sia straordinariamente efficace e diuretico l’infuso di vino e bacche di ginepro pestate.

Marco Terenzio Varrone, letterato, scrittore e militare romano elogiava le proprietà del ginepro e il poeta romano Virgilio, in una delle sue opere annotava come la pianta del ginepro fosse di un legno talmente duro che nemmeno i tarli potevano corroderlo e che era di una longevità ultra secolare. Consigliava inoltre di costruire gli utensili da cucina con questo legno, in quanto non ammuffisce e lascia alle pietanze un buon aroma.

Lo scrittore romano Lucio Giunio Moderato Columella, uomo assai dotto, in uno dei suoi libri di agricoltura scrive che gli animali quando si attrezzavano il proprio giaciglio, preferivano utilizzare le foglie di felce, di quercia o d’alloro e che scartavano quelle del ginepro perché pungenti.

Anche durante il Medioevo si consigliava l’uso di utensili in legno di ginepro, soprattutto per gli spiedi usati nella cottura della selvaggina, infatti nelle convinzioni popolari il ginepro era ritenuto efficace contro la malasorte e contro le pestilenze e, secondo una leggenda pare che proprio sotto una pianta di ginepro, si riparò la Madonna quando scappò dall’Egitto e riconoscente benedisse la pianta.

Nel Rinascimento era ritenuto un rimedio efficace contro i morsi dei serpenti. Ma le storie che ruotano intorno a questa pianta sono infinite, dai poteri magici a quelli per allontanare le streghe, sino alle proprietà benefiche che la storia ci ha raccontato in tutti questi millenni.

Nel Nord Italia, fino ai primi del Novecento era tradizione bruciare dei rami di ginepro la notte di san Silvestro come augurio di buon auspicio, mentre nei paesi nordici, tutt’ora si possono trovare rami di ginepro propiziatori appesi nelle case durante le feste di Natale.

In Sardegna, sin dai tempi remoti utilizzavano i rami di ginepro per costruire i rifugi - pinnetas - dei pastori, i recinti degli ovili e tanto altro ancora e in cucina le bacche per insaporire ulteriormente gli stufati - istuvadu - ghisau - cassolla - succhittu -, impreziosire un’infinità di altre preparazioni, rendere speciale il liquore e se avete bisogno di “coccole” (nome delle bacche)…  invocate il ginepro, verrà sicuramente in vostro aiuto!.

Ingredientis:

kg 2 di polpa di cinghiale, g 100 di lardo pancettato, 2 coste di sedano, 2 carote, 2 cipolle, 4 pomodori secchi ben dissalati, 2 foglie di lauro, 6 spicchi d’aglio, prezzemolo, timo, grani di pepe, bacche di ginepro, cannella, chiodi di garofano, zafferano San Gavino, cacao amaro, saporita, scorza d’arancio non trattato, vino rosso tipo cannonau, zucchero, brodo vegetale, olio extravergine d’oliva, farina, sale e pepe di mulinello q.b.

Approntadura:

la sera prima, metti a marinare il cinghiale in un recipiente d’acciaio o di terracotta - olla - insieme a una costa di sedano, una carota, una cipolla, le foglie di lauro, tre spicchi di aglio, alcuni grani di pepe e 4 bacche di ginepro schiacciate e tanto vino quanto ne occorre per coprire la carne (circa due litri). Il giorno dopo, prepara un vin brulé ponendo in una marmitta una stecca di cannella, alcuni chiodi di garofano, alcune bacche di ginepro pestate, la scorza dell’agrume, due bottiglie di vino e porta il tutto ad ebollizione. Intanto prepara il soffritto tritando molto finemente il lardo con il sedano, la carota, la cipolla tenuti da parte, i pomodori secchi, un ciuffo di prezzemolo e un mazzetto di timo. Fatto, versa il ricavato in un capace tegame di terracotta - tianu mannu - insieme ad un bel giro d’olio, il rimanente aglio e lascia rosolare il battuto dolcemente. Trascorsi dieci minuti bagnalo con del vino e lascialo evaporare, poi aggiungi un cucchiaino di cacao, un cucchiaino di zucchero, una presa di saporita (miscela di spezie), la carne scolata dalla marinata, quindi tagliata a spezzatino e passata nella farina. Amalgama insieme il tutto e lascia che gli ingredienti si insaporiscano, aggiungi il vin brulé filtrato e sempre mescolando per evitare che la preparazione si attacchi, porta a cottura la pietanza a fiamma dolce, occorreranno circa tre ore. Se la preparazione tendesse ad asciugare, bagnala con del brodo bollente, regola dunque il gusto di sale, impreziosiscilo con un’idea di zafferano e una generosa macinata di pepe. Servi lo stracotto - ghisadu - insieme ad una polenta fumante in abbinamento allo stesso tipo di vino che hai utilizzato per la cottura, oppure come sugo per condire la pasta preparata con la farina di castagne. Comunque sia la tua scelta, il successo è garantito, riceverai tanti complimenti e per quanto possa sembrare incredibile, nessuno si lamenterà per non aver digerito la pietanza.

Vino consigliato: Cannonau Istiga  di Arbus, dal sapore asciutto e morbido, caldo, con ottima struttura, persistente, giustamente tannico e armonico, secco, dal tipico retrogusto amarognolo.

 

 

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