Il torrone viene consumato copiosamente durante le feste natalizie.
Il torrone prende il suo nome dal latino - torrere - tostare, probabilmente in riferimento alle mandorle e alle nocciole che generalmente lo compongono.
Altre fonti però attribuiscono a Cremona, la “città del torrone”, forse per via del “Torrazzo”, la torre del duomo l’origine del nome.
Sempre a Cremona, i maestri torronai sostengono che il torrone nacque nel 1441, e precisamente durante il banchetto nuziale di Bianca Maria Visconti e di Francesco Sforza, quando venne confezionato per l’occasione un dolce con la forma del Torrazzo. Il torrone per l’appunto.
Benché si abbiano testimonianze di una tipologia di torrone già nell’antica Roma, dove esisteva un dolce preparato con miele, albume e mandorle. Altre versioni attribuiscono l’invenzione agli arabi che lo portarono nel bacino del Mediterraneo, in particolare in Sicilia, dove si trova la "cubbaita" o "giuggiolena", un torrone simile a quello arabo, tanto è vero che il torrone - turun - viene citato nel trattato “De medicinis et cibis semplicibus”. scritto da un medico arabo.
In realtà, la sua origine rimane avvolta nel mistero.
Se si risale il corso della storia, si arriva addirittura in Cina, dove pare che il torrone sia nato, luogo dal quale proviene storicamente la mandorla.
Il lemma torrone viene menzionato per la prima volta in un testo italiano di cucina del 1500 nell’opera del Messisbugo: “Banchetti composizione di vivande e apparecchio generale”.
In Italia ci sono tante città che producono torroni speciali, come ad esempio: Benevento. Gli abitanti della splendida cittadina sostengono infatti che nel lontano 1266, quando Carlo d’Angiò giunse a Benevento, con al seguito pure il cuoco personale che lo deliziava di succulenti manicaretti, tra i tanti il “touron” ovvero il dolce di Tours, cittadina della Francia, dove Carlo d’Angiò era nato.
La forma cilindrica che lo chef attribuiva al dolce ricordava infatti la sua patria lontana, ma con il passare dei secoli, il torrone prese la forma quadrata che è tipica delle torri e dei campanili delle più belle città italiane. E, sempre a Benevento, l’arcivescovo Vincenzo Maria Orsini, in occasione delle feste natalizie, ebbe modo di assaggiare il torrone, dolce delizioso che i pasticceri del capoluogo campano preparavano con tanta passione. Quando l’arcivescovo fu eletto Papa, con il nome di Benedetto XIII, decise di promuovere la ricetta anche in Vaticano, legando al torrone il marchio indiscusso di dolce natalizio.
I cremonesi d’altro canto non sono rimasti a guardare e ricordano a loro favore una antica leggenda la quale narra che al tempo delle Crociate, un folto drappello di Cavalieri di Cristo si trovava assediato in una torre di pietra. Stanchi ed affamati, proprio alla vigilia del Santo Natale, senza nemmeno una briciola di pane per potersi nutrire, uno del gruppo ebbe l’istinto di pregare il Signore di trasformare quella prigione in “pignocata”, un dolce preparato a base di buon miele e mandorle, che pare somigliasse alle pareti di quella torre. All’improvviso il miracolo avvenne e i Crociati, una volta rientrati a Cremona, decisero di cambiare forma alle pignocate, dandogli l’aspetto del torrazzo, che è il simbolo della bellissima cittadina lombarda. Da allora i cremonesi imposero ai pasticceri di preparare il torrone con la forma a tutt’oggi attuale e ne rivendicano la paternità.
A mio avviso, in parecchie città italiane si produce una buona qualità di torrone, lo si ottiene non solo per la capacita e bravura dei nostri pasticceri ma anche grazie alla qualità delle materie prime quali: mandorle, nocciole, miele e tante altre ancora.
Ma tra storie e leggende, secondo alcune convinzioni furono i romani a far conoscere questo dolce, imparando la tecnica dai sanniti che lo facevano come tutt'ora lo preparano in Sardegna, con il miele, essendo lo zucchero un ingrediente allora ignoto e non disponibile.
Secondo altre fonti fu diffuso nei paesi iberici dagli arabi, per poi giungere in altri territori, anche se rimangono solo ipotesi.
In Sardegna il torrone viene prodotto in diversi paesi da secoli, i più rinomati sono Aritzo, Desulo, Pattada, Tonara e Guspini, solo per citarne alcuni. A Tonara, - sos torronargios - i torronai, preparano la maggior quantità di pregiato torrone consumato nell’Isola, anche se oggi gran parte viene esportato in tutta Italia.
Sempre a Tonara, il torrone veniva preparato solitamente dalle donne, dentro a - su gheddargiu - capace paiolo di rame, nel quale veniva fatto liquefare il miele per parecchie ore, con l’aiuto di un bastone ottenuto da un fusto di corbezzolo - sa moriga -. Il paiolo veniva sistemato su un treppiedi di ferro - trebini - o su un fornello in mattoni intrecciati - sa forredda - posto su un fuoco preparato con rami di agrifoglio, in quanto questi arbusti non fanno fumo.
Una volta sciolto il miele si allontanava il recipiente dal fuoco e si aggiungevano gli albumi, si mescolava per una mezzora, quindi si riposizionava il paiolo sul fuoco e si continuava a mescolare per altre quattro ore. Trascorso il tempo, veniva unito del succo di limone e poi le mandorle - turrone de mendula -, se invece si utilizzavano le nocciole, prendeva il nome di - turrone de linzola - e se adoperavano le noci il torrone prendeva il nome di - turrone de coccoro -. Questa lavorazione si ripete ancora oggi con gli stessi ingredienti e le stesse modalità per la gioia di ierei come quella di oggi.
Altra cittadina famosa per la produzione di torrone in Sardegna è Guspini, località di 11560 abitanti circa in provincia del Sud Sardegna, dove si trovano testimonianze pre-nuragiche, nuragiche, fenicio-puniche, bizantine e romane.
Guspini fece parte del giudicato d'Arborea, nella curatoria di Bonorzuli.
Nel 1164 il giudice Barisone I donò ai genovesi un castello sito sul monte Arcuentu eretto nel 1100.
Nel 1420 il paese entrò a far parte del Marchesato di Oristano.
Nel 1478, dopo la caduta degli arborensi, Guspini passò sotto la dominazione aragonese che lo inglobarono nella contea di Quirra, possedimento dei Carroz, per passare poi nel 1603 al potere dei Centelles, di seguito agli Osorio de la Queva, dai quali nel 1839 fu riabilitato con l’abolizione del regime feudale.
Dalla metà del secolo scorso, Guspini ha legato la sua storia con quella delle miniere di Montevecchio e di tutti i paesi vicini.
Oggi Guspini è un paese di agricoltori e di allevatori, dedito alla pastorizia. Il paese annovera diversi artigiani legati alla fabbrica di coltelli e vanta diverse aziende leader nel settore della ceramica. Nel settore enogastronomico si distingue la produzione della salsiccia sarda, dei formaggi di eccellente qualità e dei prodotti lattiero-caseari. Non da meno è la produzione di dolci tipici e dulcis in fundo… quella dei torroni, fiore all’occhiello dalla cittadina, laddove ogni anno nel mese di dicembre viene dedicata una fiera - sa mesa de is turronis - la tavola dei torroni, con degustazioni e preparazione del torrone dal vivo con esposizione di prodotti locali in bancarelle armoniosamente agghindate.
Da non dimenticare i piatti caratteristici della cucina paesana, ricchi di storia come - su pastu mistu o piocu a carraxiu - tacchino ripieno di volatili cotto sotto terra, solo per citarne uno.
Questa ricetta, un tempo era presente nella “lista cibaria” della cucina sabauda. Infatti ai tempi del regno Sardo Piemontese, i cuochi di corte ebbero l’estro e la maestria di affinare tale preparazione, cucinando un fagiano dentro ad un tacchino (fagiano in cocotte), il tutto cucinato per diverse ore in una capace marmitta, assieme a del lardo, strutto suino, vino bianco, brodo, olio extravergine d’oliva, sale, pepe e aromi vari.
Ingredientis:
g 750 di miele millefiori, di corbezzolo, di acacia o eucaliptus, 1 limone giallo non trattato, g 750 di mandorle sgusciate e tostate, 3 albumi d’uova, ostie q.b.
Approntadura:
fai sciogliere il miele prescelto dentro a un recipiente di rame stagnato posto a bagnomaria sul fuoco (di solito lo ponevano su un fornello di mattoni intrecciati - sa forredda - o su un treppiedi di ferro battuto - su trebini -). Intanto monta a neve ferma gli albumi e non appena il miele si è liquefatto allontana il paiolo dal fuoco, quindi aggiungili. Fatto, inizia a mescolare con un bastone ricavato da un fusto di corbezzolo per una mezz’ora circa, dopodiché riposiziona il recipiente sul fuoco nel suo bagnomaria e continua mescolare il composto per almeno tre ore, o finché l’impasto non diventa consistente. Solo allora unisci le mandorle (metà tritate grossolanamente e metà intere), una volta amalgamato il tutto, versa il torrone su appositi stampi foderati con delle ostie, livellalo con due mezzi limoni e ricoprili con altre ostie. Una volta raffreddato, ponilo in frigorifero, oppure ridotto a scaglie nel freezer. Vino consigliato: Vernaccia di Oristano dolce, dal sapore fine, sottile, caldo e asciutto con leggero retrogusto di mandorle amare.
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Pudda prena de domu buddia a sa sarda
Chi non conosce il vecchio detto: “gallina vecchia fa buon brodo…”, se ripiena ancora meglio!. Cosi dicono a Lunamatrona, in provincia del sud Sardegna. Immagino siano in tanti a conoscere tale detto.
In Sardegna, questa preparazione è tipica delle feste di Natale e la ricetta può variare secondo il paese e ognuno vanta la sua come la migliore, ma tutte quante sono tramandate da generazioni e ogni famiglia rimane custode dell’antica propria ricetta. Questo piatto nasce dalla necessità di impreziosire le carni bianche povere degli animali da cortile, che erano ritenute modeste e meno qualificate ad essere portate in tavola per le feste.
Con l’eccezione della gallina, che per tradizione veniva sacrificata in occasione delle feste natalizie e eccezionalmente in quelle pasquali, proprio perché ritenuta simbolo di ricchezza e benessere.
Ecco allora che dalle usanze, nasce la tradizione di cercare un sapore più gustoso, più intrigante e ricco del ripieno da utilizzare; naturalmente con la complicità del formaggio, delle uova, dei fegatini, del lardo, della salsiccia e delle spezie. Tutto questo ben di Dio serviva per impreziosire la gallina e ottenere così un sapore a dir poco… godurioso.
Al di là del risultato, che sicuramente è speciale in tutte le ricette, ciò che le accomuna è la gallina vecchia e ruspante, regina incontrastata che permette, grazie alla consistenza della carne, di accogliere tutto il ripieno come in uno scrigno.
Un tempo si aspettava proprio il Natale per cucinarla, anche perché essendo un mese freddo, chi possedeva gli animali da cortile e i maiali, con la macellazione di quest’ultimo aveva la possibilità di reperire il lardo e la carne utilizzata per “insaccare” la salsiccia fresca, questi due ingredienti infatti erano e sono tutt’ora componenti pregiati, impiegati insieme ad altri per preparare la farcia.
Quella che si propone non è che una delle tante ricette che gli isolani cucinano, ricette semplici con materie povere, non complicate, e tanto meno elaborate, ma che sintetizzano arte, gusto e territorio.
La Sardegna è un'Isola incantata, un angolo di pace, un’Isola incredibile e seducente, bagnata da un mare trasparente, dove un paradiso di acque azzurre e profonde si confondono con il cielo limpido.
Luoghi ricchi di spiagge, piccoli angoli di sabbia bianca e dorata che sembrano abbracciare le rocce arse dal sole e la vegetazione odorosa di gigli selvatici, ginepro, cisto, lentischio e mirto, con il contorno di un paesaggio di boschi lussureggianti e fantastici fiori.
In un luogo come questo, dove tutto è splendente come i colori che ricordano la tavolozza di un pittore che dipinge un quadro a cielo aperto, si trova Lunamatrona.
Lunamatrona era già popolata nel periodo nuragico, come testimonia l’esistenza di nuraghi sparsi in tutta l’area e così come in era romana, per la scoperta di diverse tombe con resti archeologici.
Durante il Medioevo appartiene al Giudicato di Arborea per poi fare parte della curatoria di Marmilla.
Nel 1410, con la perdita di potere del Giudicato, il paese viene annesso al marchesato di Oristano.
Nel 1478 passa sotto l’egemonia aragonese a seguito delle vicende legate alla ribellione di Leonardo Alagon, ultimo marchese di Oristano, dopo la battaglia di Macomer.
Durante il dominio aragonese fa parte dell'Incontrada di Parte Montis, territorio feudale di proprietà del conte di Quirra, feudo dei Carroz.
Nel 1603 la contea diventa una provincia di confine, feudo dei Centelles, famiglia nobile spagnola di stirpe ducale.
Nel 1798, durante il periodo sabaudo, il paese viene acquisito dagli Osorio de la Cueva e il loro dominio dura fino al 1839 e quindi svincolato in conseguenza alla cessazione del regime feudale.
Oggi Lunamatrona è un paesino di circa 1680 abitanti della provincia del Sud Sardegna. Il suo nome pare provenga da Juno, Giunone, seguito dall'attributo matrona, o da altra fonte che paragona il paese a Luna Regina, alla divinità notturna Diana, la romana Proserpina dea delle tenebre.
Lunamatrona è un centro agricolo, dove si coltivano cereali, grano, ortaggi e la pianura è ricca di uliveti, agrumeti, vigne e vanta splendidi allevamenti di ovini, suini, equini, avicoli e bovini. La pastorizia dà vita ad imprese che operano nel settore lattiero-caseario e derivati.
Il paese è ricco di tradizioni e avvenimenti, molte sono le ricette, come per esempio la gallina ripiena bollita alla sarda - pudda prena de domu buddia a sa sarda - che ogni famiglia gelosamente mantiene, trasmettendola di madre in figlia da generazioni.
Ricetta che sembra essere la sintesi della tradizione e riassume i sapori della cucina locale e le fragranze di questa meravigliosa terra.
Ingredientis
1 gallina ruspante di 1,8 kg circa, per il ripieno: g 80 di lardo o guanciale sardo -grandua - il fegatino dell’animale, 1 cipollotto, 1 spicchio d’aglio, mollica di pane coccoi, un bicchiere di latte fresco di pecora, g 60 di pecorino grattugiato, semi stagionato grattugiato, parmigiano, g 250 di - purpuzza - salsiccia fresca di maiale, un mazzetto di prezzemolo, 2 pomodori secchi, un ciuffo di timo, 2 uova, sale, noce moscata e pepe q.b., per il brodo: una bella cipolla di - Zeppara - (rigogliosa area della Marmilla), un gambo di sedano, - 1 carota, 4 pomodori secchi, 1 bella patata, un rametto di prezzemolo, zafferano San Gavino olio extravergine d’oliva, vino bianco secco, sale e pepe di mulinello q.b.
Approntadura:
inizia nel pulire accuratamente la gallina, elimina le interiora meno il fegatino, fiammeggiala esternamente per eliminare la peluria rimasta dopo la macellazione e tienila da parte. Fatto, prepara il ripieno nel seguente modo: pulisci e riduci a poltiglia il fegato della gallina, il guanciale o il lardo e falli rosolare assieme al cipollotto tritato finemente, l’aglio schiacciato e il soffritto ottenuto ponilo dentro a un recipiente. Metti poi in ammollo nel latte la mollica di una fetta spessa di pane tipo - coccoi -, quindi strizzala e aggiungila al fegato, dopodiché aggiungi il pecorino e una manciata di parmigiano grattugiato, la salsiccia sbriciolata, un mazzetto di prezzemolo tritato assieme ai pomodori secchi ben dissalati e un ciuffo di timo sbriciolato. Ora, lega il ripieno con un uovo grande oppure due medi, regola il sapore di sale (poco sale), impreziosiscilo con una generosa macinata di pepe e una grattata di noce moscata ed amalgama bene l’impasto fino a ottenere una consistenza asciutta e malleabile (volendo puoi inserire dentro al ripieno, tra uno strato e l’altro, delle uova sode sgusciate, come si fa quando prepari il polpettone). Terminata questa operazione, con il ricavato imbottisci la gallina, comprimi accuratamente il ripieno all’interno, ma senza esagerare, dopodiché, armati di ago e filo e cuci bene l’apertura usata per farcire, di seguito legala come un normale arrosto con del filo per alimenti (questo accorgimento serve per evitare qualche strappo in cottura). Arrivati a questo punto, prepara il brodo ponendo dentro ad una marmitta tutti gli odori, assieme ad un giro di olio e lascia rosolare il tutto un minuto, bagna il soffritto con mezzo bicchiere di vino e una volta evaporato, aggiungi la gallina e tanta acqua quanta ne occorre a coprirla almeno di quattro dita. Dopo un’abbondate ora di bollitura, aggiusta il sapore di sale, impreziosiscilo con la punta di un cucchiaino di zafferano e prosegui la cottura, fin quando la gallina risulterà lessata, (occorrono dalle due alle tre ore o anche più, dipende dalla gallina se è molto vecchia e in diverse famiglie, dopo un paio di ore di lessatura, usano infarinare la gallina con della semola e terminare la cottura in forno), badando che il bollore non si alzi mai troppo perché lacererebbe la pelle. Trascorso il tempo necessario, scolala, elimina lo spago che l’avvolge, tagliala lungo il petto su un tagliere ed estrai il ripieno. Riponi la gallina nel brodo bollente e quando la farcia si intiepidisce leggermente, tagliala a fette e servila con la gallina sgocciolata e ridotta in parti, insieme a un contorno di patate lesse, condite con olio, aglio (a piacere), prezzemolo e qualche goccia di aceto, o con un contorno di cipolle bollite di - Zeppara - (rigogliosa area della Marmilla) in agrodolce. Vino consigliato: Monica di Sardegna fermo, dal sapore gradevole, morbido, vellutato e asciutto.