Lu casgjufurriatu o su casufurriaduin sa liggenda e in sa istoria
La prima trasformazione del latte in formaggio è talmente antica da perdersi nella notte dei tempi ed è riconducibile a una storia curiosa.
Si narra che un pastore dovendo recapitare il latte appena munto, lo mise dentro a delle bisacce ottenute dallo stomaco di capre e quando arrivò alla meta prefissa, grande fu lo stupore nel vedere che il latte all’interno dell’otre era diventato una poltiglia spessa di colore giallastro. La trasformazione avvenne sicuramente a causa del caldo torrido, dai sobbalzi causati dalle asperità del viaggio, ma anche dalle sostanze organiche presenti all’interno delle sacche decisive per far inacidire e rapprendere il latte mutandolo in formaggio.
Una leggenda invece racconta che furono le ninfe di Ermes, divinità della mitologia greca, a insegnare ad Aristeo, figlio di Apollo, divinità protettrice del bestiame e dell’agricoltura, la tecnica di lavorazione del latte e la sua trasformazione in formaggio per poterla poi divulgare tra i popoli.
Avvincente è anche una storia piemontese, che racconta di quando Annibale nella seconda Guerra Punica (218-202 a.C.), durante l’attraversamento delle Alpi, diretto alla conquista di Roma, si fermò a lungo a, Taurinia, Torino perché trattenuto e sedotto dalle suggestive “tome” di formaggio.
Gli antichi greci si specializzarono e divennero esperti maestri nella lavorazione e produzione di formaggi tanto da meritare una citazione da Omero nell’Odissea, nel libro IX, dove descrive Polifemo, il ciclope pastore che nella sua grotta munge meticolosamente le pecore per trasformare il latte appena munto in formaggio.
Secondo Omero, Zeus fu allattato e sfamato con il latte e i formaggi della capra Amaltea in una grotta sul monte Ida, nell'isola di Creta.
Il filosofo Aristotele, una delle menti più profonde e lucide di tutti i tempi, nella sua, Storia degli animali, (IV secolo a.C.), annota la pratica da eseguire per fare addensare il latte ricorrendo al caglio estratto dallo stomaco di agnelli e capretti, oltre a soffermarsi sull’impiego del latte di fico e dei fiori (pistilli) di cardi selvatici.
Mentre il padre della medicina Ippocrate, nel primo secolo a.C. consigliava il consumo di formaggio per l’apporto di vitamine, proteine e per la sua efficacia curativa.
Secondo Virgilio il formaggio era indicato nella dieta degli atleti e in quella dei legionari, con la differenza che gli atleti lo utilizzavano mescolato con dell’olio d’oliva, farina, frutta e miele, in modo da trarne benefici durante le gare, mentre per i legionari era fondamentale la razione giornaliera di 27 grammi, che permetteva di sostenere gli sforzi della fatica e resistenza nella battaglia.
La testimonianza più remota che attesta le tecniche di trasformazione del latte è visibile nel bassorilievo “il fregio della latteria” che raffigura dei sacerdoti sumeri del terzo millennio a.C. in Mesopotamia intenti a lavorare la cagliata.
Furono i Romani ad affinare la tecnica della lavorazione del latte, adoperando anche il latte di giovenca, nonostante le convinzioni popolari lo ritenessero malsano, e aggiungendo aceto e zafferano per favorire la cagliata.
Sempre i Romani, nel primo secolo d.C., scoprirono che pressando l’amalgama in appositi cesti forati si velocizzava la stagionatura e l’imperatore Diocleziano (III secolo d.C.) ordinò con apposito decreto che il formaggio fresco fosse commercializzato con un involucro di foglie e che quello indurito e stagionato, salato in superficie.
Sulla procedura della lavorazione del latte sono stati descritti particolari dettagliati da famosi scrittori; tanto per citarne uno, Marco Terenzio Varrone segnala i principali tipi di formaggio che venivano consumati a Roma nel primo secolo a.C., soffermandosi sui vaccini, caprini e ovini, sia freschi che stagionati e documenta i gusti dei suoi contemporanei.
Agli inizi del Medioevo, il formaggio veniva consumato in quantità ridotte, per evitare inconvenienti alla salute, perché ritenuto ricco di calorie. Col trascorrere del tempo, al formaggio, giudicato “cibo dei poveri” venne riconosciuto un nuovo ruolo come alternativa alla carne, soprattutto nei periodi di astinenza e della Quaresima. Non a caso nelle comunità religiose i frati diedero un rilevante impulso alla produzione casearia.
In Italia, intorno al 1220, iniziano a sorgere le prime aziende con produzione di formaggi di pregio e in particolare in Lombardia e in Emilia iniziarono quelle di alta qualità, grazie anche all’utilizzo di macchinari che per l’epoca erano innovativi.
In Sardegna già in epoca Nuragica e in quella del bronzo è accertato il consumo di formaggio, essendo la popolazione da sempre dedita alla pastorizia e all’allevamento di ovini, caprini e bovini.
In epoca cartaginese prima, e romana dopo, l’Isola divenne uno dei luoghi più adatti alla produzione di formaggi, anche grazie alla ricca vegetazione e al clima favorevole.
Alla fine del Settecento, i formaggi iniziano ad essere classificati con dei nomi precisi, quali i bianchi e i rossi fini, gli affumicati, la, fresa, e lo, spiatatu. I formaggi affumicati e i rossi fini, hanno il pregio di essere ritenuti i progenitori del pecorino sardo.
Agli inizi del novecento si impongono nuove tecniche di lavorazione del latte; l’uso del termometro, le procedure di filtraggio, l’uso più scientifico del caglio e grazie a evoluti macchinari e a moderne tecnologie, si arriva a una maggior garanzia e sicurezza delle norme igieniche e sanitarie.
L’arte casearia isolana con i costanti aggiornamenti e attenzione alle evoluzioni organolettiche, senza mai dimenticare la sapienza degli antichi, già negli anni sessanta ha dato inizio a significativi miglioramenti qualitativi e quantitativi della produzione del pecorino e di tanti altri formaggi che oggi si possono degustare in purezza e utilizzare in migliaia di ricette tradizionali.
A proposito del pecorino sardo credo sia legittimo rivendicare un giusto orgoglio per i numerosi riconoscimenti e apprezzamenti da tutto il mondo.
Una conferma del legame che il popolo sardo ha storicamente con il formaggio viene da un passaggio di una novella di Grazia Deledda dal titolo: “il vecchio servo” che cito con piacere: “… e alla sella legò la bisaccia di lana grigia, entro la quale stavan le forme di legno col cacio fresco coperto di foglie d’asfodelo, e la ricotta e il recipiente del latte…”.
Ingredientis:
g 300 di pecorino fresco di qualche giorno inacidito oppure di peretta fresca, g 100 di semola grossa di grano sardo, g 250 di acqua di fonte o acqua minerale naturale, un bicchiere di latte di pecora fresco (il massimo sarebbe appena munto), una noce di strutto, pane, olio extravergine d’oliva, sale q.b.
Approntadura:
il formaggio tra leggenda e storia, lucasgjufurriatu,o, su casufurriadu in sa liggenda e in sa istoria,si prepara in questo modo: una volta che hai tagliato a fettine o a cubetti il formaggio prescelto, accomoda il ricavato dentro a un piccolo paiolo di rame, quello che di solito si usa per preparare la polenta, poi aggiungi l’acqua, il latte, un giro di olio, lo strutto, la semola a pioggia e una presa di sale. Fatto, avvia la cottura sul fuoco, quindi con l’aiuto di un bastone (quello che hai in dotazione con la pentola di rame), inizia a mescolare, furriari, furriatu, il composto di formaggio, fino a farlo amalgamare (un quarto d’ora circa) e quando avrai ottenuto una massa omogenea e filante è la prova che il formaggio si sarà sciolto, quindi allontana il paiolo dal fuoco. Arrivati a questo punto, preleva parte di formaggio e spalmalo su delle fette di pane, moddizzosu, raffermo abbrustolite o su brandelli di pane, pistoccu. Servi la preparazione immediatamente. Vino consigliato: Cannonau di Sardegna rosato, dal sapore sapido, tipico e asciutto.
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Su pàne de òrjucunollu ‘e stincude sosscalepranesusus
La macchia mediterranea della Sardegna è composta da piante e arbusti che risalgono a tempi ancestrali e configura il paesaggio con quei tratti caratteristici e unici per bellezza e armonia.
Le piante più comuni sono: il Cisto,mudregu,murdegubiancu,Cistus L., 1753, varietà di arbusto sempreverde, appartenente alla famiglia delle, Cistaceae, la Ginestra,tiria,spina’etopisi,GenisteaeDumort, 1827, è una tribù di piante appartenenti alla famiglia delle, Fabaceae, l’Erica Arborea,(scopa da bosco), scova lida,tùvara,tùvara ‘era, è un arbusto sempreverde dalla corteccia rossastra, a portamento eretto, appartenente alla famiglia delle, Ericaceae, l’Ilatro,tàsuru, Phillyrealatifolia, è un alberello appartenente alla famiglia delle, Oleacee, e del genere, Phillyrea, l’Olivastro,in collor’eollìa, è un albero da frutto che si ritiene sia originario dell'Asia Minore e della Siria, il Corbezzolo,ollioni, oioni, che viene chiamato anche, albatro, o, arbuto, è un albero da frutto appartenente alla famiglia delle, Ericaceae, e al genere, Arbutus, l’Euforbia,allua,allua de monti,Euphorbia L., comprende un importante numero di piante a fiore nel cui seme il germoglio è fornito di due foglie carnose, l’Alloro, lau,lau‘eru, è una pianta aromatica e officinale appartenente alla famiglia, Lauraceae, e al genere, laurus, il cui nome scientifico è, Laurus nobilis, l’Oleandro,lionaxru, è una pianta sempreverde appartenente alla famiglia delle, Apocynaceae, unico esemplare del genere, Nerium, il Carrubo, o, Carrubio,carruba,sillibba, è una pianta da frutto appartenente alla famiglia delle, Caesalpiniaceae, e al genere, Ceratonia, l'Agnocasto,pebarusardu,pibirisardu - samucu de arriu - (pepe falso o pepe dei monaci) è una pianta della famiglia delle Verbenacee, trova il suo habitat in luoghi umidi delle boscaglie più impervie dell’Isola, il Ginepro,tzinnìbiri,Juniperus L., è un genere di pianta delle, Cupressaceae, il Mirto,mutta, Myrtus L, è una pianta della famiglia delle, Myrtaceae, originario delle zone calde dell'Europa meridionale e del Nordafrica, il Leccio,ìllixi,ixibi, detto anche elce, è un albero appartenente alla famiglia, Fagaceae, e al genere, Quercus, l’Acacia,acàciaaresti, spina deCristu, (mimosa), Acacia cyanoplylla, è un albero sempreverde, il Castagno,castàngia,kastagna,kastìngia, il Perastro,perastru,pirastu’eru,pirastu, pira,piroi,piroi de boi,pireddu,Pyrus spinosa, è una pianta che ha la caratteristica di crescere nelle aree all’interno dei boschi e ai margini degli stessi, il Lentischio,moddizzi,modditzi, su fruttulostincu, (lentisco è il frutto) è una pianta sempreverde della famiglia delle, Nacardiaceae, nome scientifico, Pistacialentiscus.
Quest’ultimo, come sosteneva Plinio il Vecchio nella sua, Naturalishistoria, ha la peculiarità di possedere molte proprietà curative.
I frutti del lentischio, da tempo remoto, erano usati in Sardegna per estrarre un olio chiamato, ozzu de listincu, s’ollu e stincu, s’ozzu de listinchinu, l'ociulistincu,ozzuristìncu,olio di lentisco.
Io associo da sempre l’olio di lentisco al ricordo di mia nonna materna, cuoca della mensa dei minatori ad Ingurtosu, borgo minerario e frazione di Arbus, che raccontava
di come era faticoso raccogliere le bacche migliori e trasformarle nel cosiddetto “olio dei poveri”. Mia mamma e le sue sorelle, verso la metà di novembre di ogni anno si dedicavano alla raccolta delle bacche di lentisco, che dovevano essere ben mature e di colore scuro che poi sarebbero diventate il surrogato dell’olio d’oliva, ma anche “olio lampante”.
L’olio di lentisco un tempo veniva impiegato per friggere le frittelle di Carnevale, per me l’aroma sprigionato toccava corde emotive, la stessa sensazione evocata dalla frittura dei funghi. Per me è una vera e propria esperienza sensoriale, pari all’ascolto di una melodia e mi sembra ci siano delle affinità strette tra la magia di combinare suoni con quella di mescolare ingredienti e aromi. Quando il dialogo riesce, l’armonia è garantita!.
Queste sensazioni si possono avvertire a Escalaplano, Scalepranu,Iscalepranu, un paese di poco più di 2100 abitanti, in provincia di Cagliari, sito nel centro-orientale della Sardegna.
Il paese è caratterizzato da un territorio suggestivo, dove le tracce del passato suggellano una forte identità che sembrano renderlo unico.
Lo sguardo si perde nell’orizzonte e abbraccia tutti i colori del Mediterraneo, il blu delle acque e del cielo, il verde della macchia mediterranea, esuberante di colori e sfumature.
Una leggenda narra che il paese era conosciuto con il nome di, Escall 'e oru, per via di una scala d’oro di proprietà di una antica famiglia aristocratica ritrovata nella periferia del paese.
A Escalaplano c’è una fitta presenza di resti archeologici, a partire dalla presenza di alcune, domus de janas, tombe preistoriche scavate nella roccia di periodo prenuragico, di vari nuraghi sparsi nel circondario e alcuni ruderi del periodo romano.
In periodo medievale, il paese venne governato dal giudicato di Cagliari e fu annesso alla curatoria di Suergus.
Nel 1258 cadde sotto l’egemonia dei pisani e nel 1323 sotto quella aragonese.
Nel 1363 Pietro IV detto il “Cerimonioso”, re di Aragona annesse Escalaplano nel territorio in cui avevano la giurisdizione i Quirra.
Nel 1604 fu unito al ducato di Mandas e nel 1839 fu riscattato con la soppressione del sistema feudale.
Oggi Escalaplano è un paese prettamente incentrato sull'agricoltura, sulla pastorizia e i prodotti derivati, sulla produzione di cereali, di sughero e attività artigianali, come la produzione di olio di lentisco, sicuramente fiore all’occhiello.
Gli escalaplanesi, sosscalepranesus, ogni anno nell’ultima domenica di maggio, dedicano all’olio di lentisco un ricco appuntamento nel corso del quale è possibile assistere alla lavorazione tradizionale dell’estrazione dell’olio di lentisco, vedere la preparazione del pane e del formaggio, axridda, formaggio di pecora che viene prima massaggiato con l’olio di lentisco, poi asciugato e subito dopo avvolto con l’argilla, anch’essa impastata con lo stesso l’olio.
Sempre nell’ultima domenica di maggio a Escalaplano si può assistere anche alla lavorazione dei cestini, alla tessitura con, su trellaxiu,trobaxiu,telaio di legno, così come è possibile degustare piatti tipici del territorio e assaggi preparati con, pàne de òrjua fittas, pane d’orzo a fette abbrustolite, unte con olio di lentisco.
Ingredientis:
g 600 di farina integrale d’orzo, g 400 di semola, g 350 di lievito madre,su framentu, su frammentu,su fromentu, su fremmentalzu, s’imbonidori, sa madriga, sa mamma, 2 cucchiai di olio di lentisco, un cucchiaio raso di zucchero comune, un cucchiaino colmo di sale.
Approntadura:
il giorno prima, prepara un impasto ponendo le farine miscelate assieme sul ripiano della madia, tianedda de suexi, (oppure dentro al boccale della planetaria), forma un cratere e al centro tuffaci l’olio di lentisco, lo zucchero e il lievito rinfrescato dentro a una ciotola contenente mezzo litro di acqua tiepida e il sale stemperato in mezzo bicchiere di acqua che unirai poco alla volta all’impasto. Una volta incorporata l’acqua, lavora il tutto accuratamente fino a quando otterrai un impasto liscio e malleabile che sistemerai dentro a un capace recipiente unto con dell’olio di lentisco, coprilo con una pellicola e ponilo a lievitare tutta la notte dentro al forno spento ma con la sola luce accesa. L’indomani mattino, riprendi l’impasto e lavoralo, ciusexi, ancora per un quarto d’ora circa, sbattendo la massa sul piano di lavoro, allargalo e applica delle pieghe. Quindi forma quattro pagnotte, infarinale e accomodale su una o più teglie, anch’esse infarinate, dopodiché esegui delle incisioni sulla superficie dei pani, spolvera i tagli con della farina, subito dopo riposiziona la o le teglie dentro al forno spento, sempre con la luce accesa e lascia lievitare ancora una volta per altre tre ore. Trascorso questo tempo, togli i pani dal forno spento e mettili coperti vicino a una fonte di calore, allorché accendi il forno, portalo a una temperatura di 220° e fai cuocere il pane per circa 20 minuti (il tempo di cottura varia da forno a forno e alla forma del pane). Quando saranno trascorsi 10 minuti, abbassa il forno a 200°, dopo altri cinque a 180°, e porta a termine la cottura, fino a quando sul pane si sarà formata una bella crosticina croccante e dorata. Trascorsi due giorni dalla panificazione, taglia il pane a fette, abbrustoliscile e servile ancora calde (a piacere puoi strofinarle anche con dell’aglio) irrorate con un filo di olio di lentisco. Vino consigliato: Nuragus di Cagliari frizzante, dal sapore sapido, armonico, leggermente acidulo, gradevole e asciutto.