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L'ISOLA IN CUCINA di Roberto Loddi de Santu ‘Engiu Murriabi – Ricette Agosto 2024

 Gorbàgliu a sa schiscionera cun patatas e vrennàccia

L’orata, carina, gorbàgliu, era talmente apprezzata dagli antichi Greci che la ritenevano sacra alla bellissima dea Afrodite. Infatti già in quell’epoca, la gastronomia greca si distingueva per l’uso dei vegetali, del pesce e dei dolci, in quanto la carne era consumata in occasione delle cerimonie religiose. Anche per i Romani l’orata assieme ad altri pesci era considerata una portata rilevante da inserire nella lista cibaria giornaliera, ma anche il popolo era solito consumare i prodotti del mare assieme a uova e i formaggi, particolarmente ricchi di proteine animali, cosi che le classi sociali più povere ne potevano beneficiare.

Sempre nell’antica Roma, era già nota l’attività dell’allevamento dei pesci e il filosofo, scrittore e funzionario Ambrogio Teodosio Macrobio descrive come tale attività fosse redditizia e diverse famiglie patrizie venissero chiamate con il nome del pesce che allevavano, come ad esempio: Sergio Orata, così chiamato perché ne era goloso e le allevava nelle piscine attigue alle proprie ville riempite con acqua di mare. Non va dimenticato che i Romani con pesce salato e fatto fermentare con erbe aromatiche producevano il, garum, una salsa che utilizzavano come condimento.

Anche i Francesi, utilizzano questa salsa seppur con alcune varianti e la considerano “Divina” e, non a caso vantano diversi piatti tradizionali veramente speciali, che ben si armonizzano con questi sapori decisamente particolari.

L’orata, Sparus aurata, appartiene alla famiglia degli sparidi. La striscia dorata che ha tra gli occhi è anche il suo più immediato segno di riconoscimento. Si trova nei mari aperti e in particolare nel mare mediterraneo, ma anche nei laghi salati, nel mare sottocosta, persino nell’area salmastra dove le acque dolci si mescolano a quelle marine e in prossimità delle foci dei fiumi. Parecchi esemplari raggiungono i quarantacinque centimetri, ma pare siano stati pescati esemplari di settanta centimetri. Altre varietà di sparidi sono rappresentate da pagelli, salpe, occhiate, pagari, mormore, dentici e saraghi.

L’orata è un pesce prezioso ed è una ricca fonte di proteine di alto valore biologico, indicato nelle diete ipocaloriche, raccomandato dai pediatri per la dieta dei bambini, è indicata nell’alimentazione degli anziani per prevenire l’arteriosclerosi e in quella dei convalescenti, e sicuramente dal punto di vista commerciale è fonte di guadagno per chi apre un’attività di acquacoltura.

Oggi sono allevate in Francia, in Italia, in Grecia e in Spagna. A Tunisi esiste un allevamento piuttosto curioso: i pescatori hanno riscontrato che questo pesce ha trovato nel loro lago il proprio habitat e vi cresce fino a grandi dimensioni, l’unico problema è la mancanza di ossigeno in particolari periodi che ne compromettono la sopravvivenza. Per ovviare a questo inconveniente gli allevatori hanno pensato di far transitare motoscafi, sviluppando cosi l’ossigeno necessario e allo stesso tempo offrire uno stimolo all’attività sportiva che attira numerosi turisti e appassionati.

Un’orata che supera il chilo può essere cucinata tranquillamente per quattro persone, nei mercati si trovano anche esemplari intorno ai trecento grammi, adatte nella ristorazione per il consumo di una persona. È ottima cucinata intera alla griglia, in forno e anche al cartoccio con pomodorini, patate, olive, capperi, pinoli e peperoncino. Si può preparare un brodetto facendo sobbollire per circa mezz’ora due litri d’acqua leggermente salata, una cipolla, un ciuffo di prezzemolo lavato e sgrondato, un gambo di sedano, una carota e nel brodo ottenuto si può poi cuocere l’orata.

È il pesce prediletto dalla gastronomia francese, i piatti più rappresentativi sono: l’orata con crema ai ricci di mare, alla nizzarda, con limoni in conserva e con salsa al pomodoro.

In Italia si distingue l’orata alla pugliese, cotta nel forno con le patate insaporite con il pecorino stagionato e l’orata all’Anconetana, lasciata insaporire in una marinata, poi cucinata alla griglia e condita con una salsa a base di filetti di acciughe, tuorli di uovo sodo e mollica di pane inzuppata in poco aceto di vino del contadino. L’orata in tegame alla sarda cucinata con patate, pomodorini, olive, capperi, erbe aromatiche e vernaccia di Oristano, un piatto veloce, leggero e succulento.     

Va precisato però che in Sardegna la cucina di mare, non è solo quella tipica che appartiene e si prepara nei soli paesi che risiedono delle coste marittime dell’Isola, ma è anche praticata delle genti che vivono all’interno, che in parte si differenzia dalla cucina costiera per gli ingredienti utilizzati, come i funghi, i cardi, i carciofi, le olive, le patate, le cipolle e il vino, la vernaccia di Oristano in particolare, vrannassa, vrennàccia, vernàccia, crannàccia. Una ricetta emblematica può essere l’orata cucinata in un’ampia padella con patate alla vernaccia, gorbàgliu a sa schiscionera cun patatas e vrennàccia.

Sicuramente la cucina marittima risulta essere più elaborata, più contaminata, se vogliamo più ispirata alla “nouvelle cuisine”, introdotta in Italia all’inizio degli anni sessanta dal “Maestro” Gualtiero Marchesi, che l’abbandonò alla fine dello stesso decennio. 

Con tutto ciò non è detto che un tipo di cucina prevalga sull’altra, tanto è vero che personalmente ho avuto modo di gustare l’orata in un ristorante in riva al mare, cucinata con le patate, fette d’arancia, di limone, ananas e melone, beh lo ammetto… una vera leccornia. Questo significa che la cucina isolana è straordinaria, fatta di ingredienti unici, mai banali, che possono essere declinati in modo rustico ed essenziale o con raffinate sperimentazioni che ricercano accostamenti a volte spiazzanti, ma l’esito non delude mai!.

Ingredientis:

4 orate freschissime di circa mezzo chilo l’una, 4 patate di Gavoi, 2 spicchi di aglio, g 600 di pomodorini appesi di Pula, g 100 di olive di Gonnos, 4 pomodori secchi ben dissalati, g 40 di capperi di Selargius, zafferano San Gavino, un ciuffo di timo, uno di finocchietto e uno di maggiorana, olio di oliva extravergine di Sardara, brodo, vino tipo vernaccia di Oristano, 1 limone giallo non trattato, sale e pepe di mulinello q.b.

Approntadura:

per preparare le orate con patate alla vernaccia, gorbàgliu a sa schiscionera cun patatas e vrennàccia, procedi nel seguente modo: prima di tutto, preoccupati di pulire accuratamente il pesce eliminando squame e interiora, poi lavalo sotto il getto dell’acqua fredda e subito dopo disponilo su un canovaccio da cucina ad asciugare. Nel mentre, pela le patate e tagliale a fette spesse meno di un centimetro, quindi poni il ricavato dentro a una terrina colma d’acqua fredda, dopodiché dividi a metà i pomodorini, lava bene i capperi e le olive. Fatto, prendi un ampio tegame, irrora il fondo con un generoso giro di olio e mettilo sul fuoco, intanto che si riscalda, tuffaci le patate asciugate, sfumale con un mestolo di brodo vegetale bollente e dopo dieci minuti unisci l’aglio, di seguito le olive, i capperi i pomodorini e dopo cinque minuti, bagna la preparazione con un bicchiere di vino. Evaporato, accomodaci le orate tenute da parte, regola il sapore di sale e impreziosiscilo con un’idea di zafferano, una macinata di pepe (a piacere puoi sostituire il pepe con il peperoncino), le erbe aromatiche tritate assieme ai pomodori secchi e prosegui la cottura dolcemente fino a quando le patate risulteranno tenere ma non sfatte e il sughetto risulterà ristretto. Controlla che il pesce sia ben cotto, allorché servilo immediatamente in piatti individuali con parte del suo condimento e uno spicchio di limone.

Vino consigliato: Vernaccia di Oristano superiore, dal sapore fine, sottile, caldo con leggero retrogusto di mandorle amare e asciutto.

 

***

 

 

Arrosu cun meboni de jerru de Lunamatrona e presuttu cruu de Dèsulu

 

Maometto (1430 - 1481), il crudele sultano che conquistò Costantinopoli ne era talmente goloso da inventarsi una dieta a base di meloni. Un giorno si accorse che dalle sue fornite dispense mancavano alcuni dei suoi pregiati meloni, in preda ad un’ira isterica, decise di punire in modo esemplare ben quattordici servitori aprendogli la pancia per scoprire chi avesse osato mangiarli.

Il melone - Cucumis melo L., 1753 - è un arbusto rampicante che appartiene alla specie delle Cucurbitaceae e molte sono le varietà che sono state selezionate per salvaguardarne la specie.

Parente stretto dell’anguria è il dolcissimo e saporito melone, che da sempre ha avuto grandi apprezzamenti e rinomati estimatori.

Non esistono notizie sicure sulla sua origine, alcuni esperti sostengono che provenga dall’Asia, nell’antica Persia, mentre altri attribuiscono l’origine all’Africa, dove è stata trovata presenza di meloni selvatici.

Gli egizi nel V secolo a.C., pare furono i primi a divulgarlo in tutta l’area del Mediterraneo e in Italia fu introdotto intorno alla metà dell'Impero Romano (27 a.C. - 476 d.C.). Plinio il Vecchio (Gaio Plinio Secondo; Como, 23 - Stabia, 79) asseriva che il melone piaceva moltissimo all'imperatore Tiberio, ne parla nel suo libro, Naturalis Historia, uniformandolo al cetriolo a forma di mela cotogna, melopepaes. Dai recenti ritrovamenti archeologici fatti in Sardegna nel sito Sa Osa a Cabras (Oristano), sono venuti alla luce dei semi di meloni, riconducibili al periodo del Bronzo tra il 1310 - 1120 a.C. nel pieno periodo nuragico, perciò antecedente alle testimonianze egizie.

Marco Gavio Apicio, famoso cuoco vissuto nella Roma del I Secolo dopo Cristo e autore di un famoso ricettario in dieci libri, De re coquinaria, descrive nella sua opera una ricetta a base di meloni acerbi conditi con un intingolo ottenuto da una  miscela di miele, menta selvatica, pepe, aceto e brodo.

Come attestano alcuni dipinti rinvenuti ad Ercolano, durante alcuni scavi, è stato trovato un affresco che evidenzia l’immagine di due meloni tagliati in metà.

Francesco Sforza, duca di Milano nel 1450, era solito ripetere che tre erano le cose difficili: acquistare un melone maturo al punto giusto, scegliere un buon cavallo e prendere una buona sposa, per semplificare le cose il duca proponeva questa soluzione: affidarsi a Dio, coprirsi gli occhi e scegliere a caso!.

Enrico IV di Francia adorava come aperitivo il melone e una ricetta culinaria del suo medico Yaques Pons che prevedeva: aceto, sale, pepe, preparazione che viene utilizzata tutt’oggi.

Francois de Malherbe, poeta francese del Cinquecento, era solito dire che nella vita esistono due cose belle: le donne e le rose e due cose buone: le donne e i meloni.

Sempre nel XV secolo, i meloni qualità Cantalupo (frutto dei papi), furono portati da missionari provenienti da lontani paesi asiatici a Cantalupo, castello pontificio situato sui colli di Roma.

Va ricordato che i meloni più dolci sono quelli femmina, quelli cioè che hanno, dalla parte opposta al picciolo una specie di areola più scura che ricorda il seno di una donna.

Alexandre Dumas, l’autore dei tre moschettieri, ne era talmente goloso che riuscì a farsi dare un vitalizio di dodici meloni all’anno in cambio di una copia di ogni volume pubblicato.

La Sardegna vanta un’importante produzione di meloni, infatti se ne coltivano parecchie varietà in tutta l’Isola.

La Sardegna è un'Isola incantata, un angolo di pace, un’Isola incredibile e seducente, bagnata da un mare trasparente, laddove sboccia un paradiso di acque azzurre e profonde che si confondono con il cielo mentre vanno ad incontrare il loro destino millenario.

In questi posti ricchi di spiagge, piccole spiagge di sabbia bianca e dorata che si abbracciano alle rocce arse dal sole e la vegetazione odorosa di gigli selvatici, ginepro, cisto, lentischio e mirto, fanno da contorno al paesaggio assieme a boschi lussureggianti, dove gli uccelli volano intorno a fantastici fiori.

In un luogo come questo, tutto è brullo, tutto è splendente come i colori che allietano la tavolozza di un pittore che dipinge un quadro a cielo aperto.

Tra questi scenari si trova Lunamatrona, che prima di diventare un paese                                                                                  era già popolata nel periodo nuragico, per via dell’esistenza di nuraghi sparsi in tutta l’area e successivamente in era romana, per la scoperta di diverse tombe con annessi resti archeologici.

Durante il Medioevo fu di proprietà del Giudicato di Arborea e fece parte della curatoria di Marmilla.

Nel 1410, alla perdita di potere del Giudicato, il paese venne ammesso al marchesato di Oristano.

Nel 1478 il luogo, passò sotto l’egemonia aragonese a causa del dissesto della ribellione di Leonardo Alagon ultimo marchese di Oristano, dopo la battaglia di Macomer.

Durante il dominio aragonese fece parte dell'Incontrada di Parte Montis, territorio feudale di proprietà del conte di Quirra, feudo dei Carroz.

Nel 1603 la contea divenne una provincia di confine, feudo dei Centelles, famiglia nobile spagnola di stirpe ducale.

Nel 1798, durante il ciclo sabaudo, il paese venne acquisito dagli Osorio de la Cueva e i loro domino durò fino al 1839 in quale tempo fu svincolato in conseguenza alla cessazione del regime feudale.

Oggi Lunamatrona è un paesino di circa 1680 abitanti della provincia del Sud Sardegna. Il suo nome pare che provenga da Juno, Giunone, seguito dall'attributo matrona, o da altra fonte che paragona il paese a luna (luna regina), alla divinità notturna Diana, la romana Proserpina dea delle tenebre.

Lunamatrona è un centro agricolo dove si coltivano: cereali, grano, ortaggi e la pianura è ricca di uliveti, agrumeti, frutteti, vigneti, ma il vanto degli agricoltori lunamatronesi è quello della coltivazione dei meloni (melone coltivato in asciutto - melone d’inverno, meboni de jerru), Lunamatrona annovera numerosi allevamenti di ovini, suini, equini, avicoli e bovini. In paese la pastorizia è legata con profitto ad imprese che operano nel settore lattiero-caseario e derivati.

Ogni anno a Lunamatrona viene dedicata una mostra mercato al “melone in asciutto” e alla malvasia, che si svolge dal 31 agosto al 1° settembre (chiedere conferma per la data agli organizzatori). Considerato che vino e melone vanno a braccetto, perché non chiudere in bellezza citando un antico proverbio sardo che citava sempre mio papà, quando si mangia il melone: binu a su meboni, vino al melone e, acqua a su maccarroni, acqua al maccherone. Quando si mangiano i maccheroni: binu a su maccarroni, vino al maccherone e, acqua a su meboni, acqua al melone. A buon intenditor poche parole!.

Ingredientis:

g 350 di riso qualità carnaroli is molas, mezzo melone d’inverno d’asciutto maturo di Lunamatrona, una cipolla  media di Zeppara - rigogliosa località della Marmilla - g 200 di vino bianco secco tipo vermentino, brodo vegetale, g 150 di prosciutto crudo di Desulo a fette, burro, olio extravergine d’oliva, sale e pepe di mulinello q.b.

Approntadura:

prima di tutto elimina la scorza del melone, poi riduci la polpa a piccole listarelle e il ricavato tienilo da parte. Fatto, in un capace recipiente di terracotta, tianu mannu, fai rosolare dolcemente la cipolla tagliata finemente insieme ad un filo d'olio aggiungi successivamente il riso e tostalo a fiamma media per un paio di minuti, girandolo spesso. Spruzzalo con il vino e una volta evaporato, aggiungi una mestolata di brodo bollente e anche metà del melone tagliato. Copri il recipiente e prosegui la cottura, mescolando e aggiungendo altro brodo bollente di tanto in tanto. Nel mentre fai rosolare il prosciutto crudo in una larga padella antiaderente e una volta rosolato scolalo su dei fogli di carta assorbente a perdere il grasso in eccesso e tienilo al caldo. Terminata questa operazione, regola il sapore di sale (tieni presente che il prosciutto crudo è piuttosto sapido, di conseguenza usa il sale con parsimonia) e impreziosiscilo con una macinata di pepe. Quando mancano circa 5 minuti al termine, aggiungi la restante parte del melone e porta a completamento la cottura. Passato il tempo allontana il risotto dal fuoco, aggiungi una noce di burro e fallo mantecare. Servilo in piatti singoli assieme a una fetta di prosciutto crudo tenuto al caldo e cospargi infine il risotto con il rimanente sbriciolato.

Vino consigliato: Vermentino di Sardegna spumante ben freddo, dal sapore delicato, gradevole, tipico, sapido, fresco, acidulo con retrogusto amarognolo e asciutto.

 

 

 

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