Catalufastzcarramanucun bagna burda
Iscatalufastzacarramanu, che si preparano a Sardara nel Centro-Sud Ovest della Sardegna in occasione della “festa del grano”, vengono fatti con un tipo di pasta molto antica dalla forma più o meno arrotondata e piatta. Il diametro può variare dai cinque ai sei centimetri, spessi poco meno di cinque millimetri e sono pressoché simili per forma alle, pellizzas, pellitzas, di Pattada, alle, tallutzas, tallutzas de coxia, de genugu, di Siddi, alle, lilleddas, della Planargia, Planàlza, pasta che ha molte similitudini alle, de lasanis, che si usavano nel Medioevo e venivano condite con latte di mandorle, pepe, zucchero e formaggio stagionato grattugiato.
Iscatalufastzacarramanu, si ottengono dalla lavorazione di un impasto a base di semola di grano sardo antico, trigu arista niedda, coltivato a Sardara in località, Sincuri, e acqua di fonte. Trascorsa un’ora di riposo, si prelevano dei pezzetti di impasto e si modellano delle palline grosse quanto un’oliva, poi con l’aiuto del pollice, dell’indice e medio di una mano si assottigliano fino ad ottenere un medaglione (questa operazione deve essere alquanto veloce) e man mano che si preparano, si tuffano dentro a un paiolo colmo di acqua salata a bollore posto sul treppiedi sopra al fuoco del caminetto, in mancanza del caminetto, va benissimo l’utilizzo dei fornelli della classica cucina economica a gas.
Per agevolare la foggiatura della pasta è bene inumidirsi le dita in modo che i medaglioni si appiattiscano senza difficoltà. Una vera, grande opera d’arte culinaria.
Anticamente questa preparazione aveva luogo nei cortili, pranzas,arzolas,arjolas,adiacenti alle abitazioni, cuilli,dominarius,furriadroxius, furriadroxus, (case campidanesi), dal sardo,furriài, ritirarsi, abitare e nei tempi più remoti, de s’incungia, vale a dire prima che il grano appena mietuto venisse ricoverato negli appositi locali, era compito dei maschi preparare il pranzo, per poter rifocillare i lavoratori, che non vedevano l’ora di potersi sedere a tavola per gustarsi,iscatalufastzacarramanu,con quel semplice ma succulento intingolo di pomodori che ancora oggi viene chiamato, bagna burda, e spolverato con abbondante pecorino stagionato grattugiato, oppure conditi con pecorino fresco prima fatto stemperare nell’acqua di cottura della pasta (alcuni usavano insaporire l’acqua con una presa di zafferano) che una parte di crema veniva spalmata su fette di pane abbrustolite e condite di pecorino grattugiato.
Il paese in occasione della ricorrenza di san Gregorio, santu Gregori, in cui gli agricoltori aggiornano le convenzioni agresti che coincide con il rinnovo dei contratti agrari, mette in scena il pezzo forte dell’antica tradizione gastronomica, iscatafulestzacarramanu, peraltro piatto inserito nell’elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali (PAT), un formato di pasta preparato con semola di grano antico locale, trigu arista niedda, coltivato in regione, Sincuri.
Un tempo, iscatafulestzacarramanu, era il piatto che le donne preparavano ai loro uomini al rientro dai campi (anche se la preparazione di, iscatafulestzacarramanu, è una delle poche paste prettamente di esecuzione maschile), utilizzando parte dell’impasto per il pane o con gli avanzi della pasta dei ravioli, cruguxionis, che poi venivano conditi con un semplice sugo di pomodori, bagna burda, o con pecorino fresco fatto slegare nell’acqua di cottura della pasta, pasta incasada.
Sardara nella sua epica storia si riallaccia al fatto che i primi uomini che calpestarono il suolo del territorio risalgono al periodo nuragico, lo testimoniano l’esistenza di numerosi ritrovamenti archeologici: villaggi nuragici, necropoli, nuraghi, pozzi sacri e tante altre scoperte ben conservate.
Sardara, in età romana, era nota per le terme, Aquae Neapolitanae, dedicate alla città di Neapolis, che in quel periodo era popolata dai cartaginesi.
Nelle vicinanze del paese sulla collina, c’è il castello di Monreale, che risale al periodo giudicale, di rilievo la disputa infinita sulla proprietà della fortezza, contesa con la vicina cittadina di San Gavino Monreale, oggi nota come città dell’oro rosso, per l’importante produzione a livello nazionale di zafferano.
Una leggenda narra che dal maniero ci sia un passaggio sotterraneo che porta fino al castello di Eleonora d’Arborea di Sanluri.
Sardara durante il Medioevo, fece parte del giudicato di Arborea e della curatoria di Bonorzuli.
Nel 1324 culmine delle ostilità tra gli aragonesi e la Sardegna, il principe Alfonso d'Aragona (futuro re Alfonso IV il Buono), come prima operazione, prese possesso del castello di Monreale, luogo in cui mandò la moglie Teresa di Entenza, con il suo seguito, perché sofferente di malaria, con lo scopo di ottenere una rapida guarigione.
Nel 1328 i giudici di Arborea, spodestarono gli aragonesi dal castello e dopo questa azione bellica il maniero divenne una roccaforte per la difesa dell’intero territorio.
Ottant’anni dopo Brancaleone Doria, assieme a Guglielmo III di Narbona, vengono vinti da Martino il Giovane nella “Battaglia di Sanluri”, battalla de Seddori.
Nel 1410 il castello venne nuovamente in possesso del viceré aragonese Pietro Torellas, per poi passare nel 1470, data della sconfitta inflitta agli aragonesi nello scontro di Uras, al marchese di Oristano Leonardo Alagon, a sua volta sconfitto nella battaglia di Macomer. Solo allora il castello e il popolo sardarese ripassarono sotto la supremazia aragonese e il territorio fu ammesso alla contea di Quirra, possesso dei Carroze, che dopo un lungo dominio, nel 1603, vide la giurisdizione modificata e inglobata nel marchesato dei Centelles.
Il paese fu poi autonomo nel 1839 a seguito dell’abolizione del latifondismo.
Oggi Sardara, Sàrdara, in sardo è un comune del Monreale - Bonorzuli nel Medio Campidano, della provincia del Sud Sardegna con poco meno di 4000 abitanti. Dal 2005 si fregia del riconoscimento di “Bandiera arancione”, il marchio di qualità turistico ambientale del Touring Club Italiano e nel 2009 è stata onorata con la Certificazione Herity - Organismo Internazionale non governativo e non profit per la Gestione di Qualità del Patrimonio Culturale.
Sardara è un paese nel quale la gente si sente coinvolta nel progetto di accoglienza e partecipe, anche attraverso svariate iniziative promozionali.
L’economia del paese si incentra soprattutto sull’agricoltura e la pastorizia, mentre la viticultura è sufficiente a soddisfare l’esigenza degli abitanti, così come i frutti della terra che in ogni stagione offre generosamente e che i residenti sanno trasformare in ricchi e deliziosi “bottini”, che regalano al palato sensazioni indimenticabili.
Diverse sono le proposte che movimentano la vita degli abitanti. Una in particolare è quella riservata alla festa dei, catafulestzaccarramanu, vanto della comunità, in occasione della quale alla fine di agosto di ogni anno è possibile degustare questo piatto assieme ad altre ricette della tradizione, il tutto abbinato a vini di produzione locale. Fanno da cornice, come sempre, gli stand con l’esposizione di prodotti e mestieri locali. Che dire gente… partecipate!.
Ingredientis:
g 500 di semola fine di grano duro locale, trigu arista niedda, acqua tiepida, zafferano a piacere, g 600 di polpa di pomodori maturi ridotta a poltiglia, pecorino grattugiato, olio extravergine d’oliva, sale e pepe di mulinello q.b.
Approntadura:
per cominciare disponi la semola a fontana su il ripiano della madia o su una spianatoia, al centro tuffaci un pizzicone di sale e tanta acqua che si riveli sufficiente ad ottenere un composto liscio e malleabile che terrai raccolto a palla, avvolto con un canovaccio di orbace (antico tessuto sardo) a riposare per un’ora. Trascorso il tempo richiesto, rimaneggia la massa, poi preleva piccoli pezzetti di pasta grossi quanto un’oliva e con l’aiuto delle mani forma delle pallottoline, quindi collocale fra le dita inumidite (pollice, indice e medio) e facendole roteare appiattiscile con la pressione delle stesse (fino al termine dell’impasto), formando dei medaglioni che man mano tufferai in un capace recipiente, pingiada, strexu, contenete abbondante acqua salata a bollore (in diverse famiglie è usanza aromatizzare l’acqua con una presa di zafferano). Non appena risulteranno al dente, scola, iscatafulestzaccarramanu, dentro a un largo tegame, frixorium, frisciòlu, sartàina, nel quale avrai posto la salsa di pomodori bagna burda, cucinata in precedenza, unisci una bella spolverata di pecorino, una generosa macinata di pepe e padella velocemente il tutto a fiamma vivace, giusto il tempo che occorre per fare insaporire armonicamente gli ingredienti. Servi immediatamente la pasta cospargendola con un ulteriore nevicata di formaggio, una macinata di pepe e un filo di olio.
Vino consigliato: Vermentino di Sardegna, di piacevole sapidità e gradevole freschezza accompagnate da note fruttate.
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Sa mebapirongia de issiresus
Il melo cotogno è un antico albero originario dell’Asia Minore e della zona del Caucaso, regione dell'Eurasia posta tra il Mar Nero e il Mar Caspio, e in seguito si è esteso in tutta l’area del Mediterraneo e in Cina.
È un frutto dimenticato ma dalle virtù nascoste, che vanta un passato importante.
Il melo cotogno è una delle piante da frutto più antiche note all’uomo, tanto è vero che era coltivato già nel 2000 a. C. dai babilonesi, mentre i greci lo reputavano frutto sacro ad Afrodite come segno di riconoscimento dell’amore, della fecondità e proposto come emblema di buon auspicio nei banchetti matrimoniali.
Nel periodo romano, grazie alle citazioni di Catone, Plinio e Virgilio la mela cotogna divenne famosa.
Plinio, con il medico geografo greco Ippocrate, consideravala mela cotogna uno dei frutti più salutari e utili all’umanità
Plutarco racconta che, secondo la riforma di Solone nota anche come riforma timocratica o censuaria, le spose dovevano consumare una mela cotogna la prima notte di nozze, in modo che il rapporto risultasse appagante e allo stesso tempo, il frutto avrebbe favorito un felice concepimento.
La mela cotogna fu molto apprezzata nel Medioevo, mentre oggi il suo consumo è assai poco diffuso.
Nel Rinascimento alcuni medici e botanici, dal Mattioli al Durante, la consigliavano come rimedio contro gli avvelenamenti.
Era un frutto così amato dagli Arabi da ispirare anche poesie.
Secondo un’antica usanza serba, nei mesi freddi, quando si prevedeva un rapporto coniugale, era uso sbarazzarsi di una mela cotogna tra quelle che si avevano in casa, questo gesto propiziatorio per stimolare l’arte amatoriale.
Anticamente era considerata favorevole alle donne incinta perché le aiutava a partorire figli dotati di grande intelligenza e personalità.
La mela cotogna, Cydonia vulgaris, ma anche, Cydonia oblongaMill,1768, appartiene alla famiglia delle, Rosaceae, coltivata per i suoi frutti ed è una varietà di incrocio tra pera e mela.
La pianta di mele cotogne ben si adatta a terreni poveri, richiede un buon drenaggio e non ama i terreni molto calcarei.
È un frutto dimenticato, ma dalle virtù nascoste, di forma tondeggiante e irregolare, assomiglia vagamente a una grossa pera, è di un bel colore giallo che tende al verdognolo e ricoperto da una lieve lanugine.
La mela cotogna che ha la forma più tondeggiante è la cotogna maschio, quella con la forma più allungata è la cotogna femmina.
Oggi i frutti sono adoperati principalmente nell'industria dolciaria per preparare deliziose gelatine e confetture.
Le mele cotogne si trovano sui mercati durante l’autunno, quando le acquistate prestate parecchia attenzione perché anche la minima ammaccatura intacca rapidamente tutto il frutto. Per questo motivo preferite sempre frutti sani e piuttosto sodi e lievemente immaturi, li farete maturare in casa a temperatura ambiente.
Cuocendo il frutto nel forno senza zucchero si ottiene una purea particolarmente profumata e agrodolce che accompagna armonicamente formaggi e carni di maiale, bolliti misti e selvaggina.
Le mele cotogne, essendo molto ricche di tannino, non si possono mangiare crude e tantomeno acerbe perché risultano allappanti, sono deliziosamente profumate e per questo motivo le nostre nonne le utilizzavano per profumare la biancheria.
I frutti del cotogno sono preziosi per le proprietà emollienti, epatiche, sedative, astringenti e dietetiche. Sono ricchi di acido malico, di fosforo e di vitamina C. Con il decotto si ottiene un ottimo antinfiammatorio per la gola, mentre la tisana fatta con i semi, ha grandi proprietà calmanti e addolcenti.
Nei miei ricordi d’infanzia, in Sardegna, è ancora vivo quello delle mele cotogne con lo zucchero cucinate da mia mamma, che secondo le credenze popolari erano una medicina per curare il mal di gola e quel sughetto dolce e la polpa dei frutti, mi avvolgono ancora come allora in un abbraccio indimenticabile.
Altrettanto indimenticabile la ricetta delle mele cotogne sciroppate con zucchero e cannella.
Sempre in Sardegna, e per la precisione a Siris, in provincia di Oristano, un minuscolo paesino di poco più di 200 anime, ogni anno, nel mese di novembre, viene dedicato un appuntamento alle mele cotogne.
Siris, come dimostra la presenza di alcuni resti di nuraghi fu abitata già in epoca nuragica.
Nel Medioevo il paese appartenne al giudicato di Arborea e fece parte della curatoria di Marmilla.
Nel 1420, con la perdita del potere del giudicato venne annesso al Marchesato di Oristano e nel 1478, dopo la sconfitta degli arborensi, subì la supremazia aragonese e fu assorbito nell’Incontrada di Parte Montis, presidiato dai soldati del feudatario di Quirra Berengario BertranCarroz che avendo sposato Eleonora Manriquez, ottenne in concessione dal re il dominio fino al 1511, anno di estinzione della famiglia dei Carroz.
Siris venne aggregato al marchesato di Quirra nel 1603 e il feudo appartenne prima ai Centelles, quindi ai CatalàValeriola e dal 1766 agli Osorio de la Cueva.
Il paese fu infine svincolato nel 1839, con la soppressione del sistema feudale.
Nel 1927 il comune di Siris si fuse con quelli di Masullas e Pompu e nel 1961, riconquista la propria autonomia.
In Sardegna Siris è conosciuto anche per alcune manifestazioni che richiamano un gran numero di visitatori. Originale è la festa dei latticini, che si svolge in primavera, nella quale i partecipanti si esibiscono con il lancio delle forme di pecorino.
In autunno si svolge la sagra della mela cotogna, mebapirongia, mela chidònza,mellaghidòngia, dove è possibile degustare prodotti locali e piatti a base di mela cotogna, che è tipica del territorio. Viene spontaneo mettere in evidenza che: raccogliere i frutti che le piante in ogni stagione ci offrono generosamente è un’arte saperli trasformare in ricchi e deliziosi “bottini” per allietare il palato e la vita.
Ingredientis:
kg 5 di mele cotogne gialle e sane, kg 2 di zucchero comune, il succo filtrato di 5 limoni maturi non trattati, 4 litri di acqua, un cucchiaio raso di cannella in polvere.
Approntadura:
come prima operazione, lava accuratamente le mele cotogne sotto il getto di acqua fredda, eliminando totalmente la lanugine che le avvolge. Fatto, pelale, poi tagliale a spicchi, quindi elimina il torsolo, lasciando solo le parti più tenere, dopodiché tagliale a pezzi e tuffa il ricavato dentro a un capace recipiente contenente abbondante acqua e il succo dei limoni. Questo accorgimento serve per evitare che le mele cotogne diventino scure. Arrivati a questo punto, poni sul fuoco una marmitta di adeguata misura contenente l’acqua che hai in dotazione, lo zucchero, la cannella, porta ad ebollizione e non appena sciolto lo zucchero allontana il recipiente dal fuoco. Subito dopo travasa i pezzi di cotogna dentro a dei vasi di vetro con tappo a vite precedentemente sterilizzati in forno a 110°, colma ognuno con lo sciroppo ancora caldo e man mano che li riempi chiudili ermeticamente. Terminata questa operazione, accomodali dentro a un pentolone avvolti con dei canovacci, di seguito coprili di acqua fredda almeno due dita e falli bollire per mezzora a recipiente coperto. Quando sarà passato questo tempo, allontana la marmitta dal fuoco e lascia che l’acqua diventi fredda. Solo allora, preleva i vasi, asciugali, etichettali e riponili in luogo fresco, asciutto e al buio.