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L'ISOLA IN CUCINA di Roberto Loddi de Santu ‘Engiu Murriabi – Ricette Novembre 2024

 Pani e casu e àturu cun piriciòu o binu ammesturau

 La storia del vino si riallaccia alla preistoria. Indubbiamente la scoperta fu casuale e pare risalga tra 9 e 10000 anni fa, nella striscia montuosa del Caucaso.

Nell’antico Egitto il vino ebbe una funzione fortemente simbolica nei riti e nel modo di vivere del popolo. In Mesopotamia, sempre nel Terzo millennio, sussistono testimonianze che documentano la vinificazione.

I Fenici furono il popolo con la maggior produzione di vino e grazie ai loro viaggi lungo le coste i primi a diffondere la tecnica della viticoltura e della trasformazione dell’uva.

Nella cultura dei Greci invece il vino era di tre qualità; vino rosso, vino bianco e vino rosato ai quali si aggiungeva un quarto, probabilmente consumato solo dalle classi più agiate, chiamato vino confettato liquoroso.

 

Nell’antica Roma il vino ha affascinato a lungo i buongustai delle tavole importanti.

Plinio narra che dopo la salita al potere di Augusto, l’unico vino ammesso a corte era il, Setinum, perché il solo vino apprezzato dall’imperatore e che non creava problemi al suo stomaco delicato.

Omero, immortale autore dell’Iliade e dell’Odissea, con Esopo, scrittore noto per le sue favole, citano spesso nelle loro opere Dioniso, dio della viticoltura e amante del buon vino.

Erodoto, considerato da Cicerone il “Padre della storia”, nelle sue Storie afferma che i persiani “sono molto appassionati del buon vino bevendone in grandi quantità”.

Nel quarto secolo, il cristianesimo attraverso la celebrazione dell’Eucarestia contribuì al consolidamento della meraviglia del vino, minando con la sua affermazione le basi dell’impero romano già avviato ad un impietoso declino.

In periodo medievale, il vino ebbe una impennata di consumi per via della miglior qualità nella produzione a favore dei signori che avevano disponibilità, mentre il vino destinato al consumo popolare era ottenuto dalla vinificazione di uve di minor qualità e una volta torchiate, il succo ottenuto veniva mescolato e allungato con acqua.

Sempre in quel periodo, grazie ai monaci dei monasteri, la viticoltura mantenne una buona qualità, nonostante la produzione fosse finalizzata al vino da messa.

Il vino, ritenuto una bevanda di eccellente qualità, rimase al culmine dei consumi fino alla fine del XVII secolo.

In Italia la coltivazione della vite risale a tempi lontani, tant’è vero che originariamente l’Italia si chiamava Enotria, ovvero terra del vino, dal nome, Enotri, abitanti dell’attuale Basilicata, che avevano migliorato il procedimento della coltivazione delle viti, la vinificazione e la conservazione del vino fin dal lontano 500 a. C..

In Sardegna, la coltura della vite e la vinificazione si pratica da tempo immemore. Nel corso della storia, la vite come l’olivo hanno lasciato importanti tracce risalenti al periodo nuragico e con l’arrivo dei fenici la viticoltura ha fatto un salto di qualità, così come la sua diffusione si è estesa in tutta l’area del Mediterraneo. 

La Sardegna da sempre gode di un clima mite e così con la fine dell’Impero romano, le successive invasioni barbariche, l’arrivo dei Bizantini e dei monaci Basiliani, la viticoltura riprese vigore con nuove tecniche di lavorazione ed impianti più evoluti.

Durante il Medioevo, la produzione del vino isolana viene regolamentata con la, Carta de Logu, in vigore fino al termine del 1300 e, dal XIV al XVIII secolo si registrò una significativa crescita con un’espansione dei vini sardi in costante aumento.

Oggi la Sardegna si caratterizza per la qualità di ottimi vini in continuo miglioramento, grazie anche alla cura di tutti coloro che lavorano nel settore con grande impegno e competenza.

Dopo il ritrovamento di un torchio in pietra nel 1993, nelle campagne di Monastir, vicino a Cagliari, si è arrivati ad una tesi solida e un po’ partigiana: il vino della Sardegna è il più antico del mondo.

“Paese che vai”, vigneti e vino che trovi, come i vigneti che si trovano a Villanovaforru, un paese della provincia del Sud Sardegna, con poco più di 600 anime, immerso tra le colline della Marmilla, generoso territorio del Medio Campidano, ritenuto per lungo tempo granaio dell’antica Roma.

Ogni anno Villanovaforru nel mese di novembre, dedica al vino, un importante appuntamento, un vino in particolare a, su piriciou, piriciolu, piritzolu, piriciò.  Il paese intende far conoscere ai visitatori le tradizioni di un tempo e quelle che ancora resistono, con degustazioni di, piriciolu, abbinate a salumi, formaggi e piatti della tradizione.

In particolare uno molto antico è quello preparato con il grano cotto con mosto d’uva, saba, e melagrana. Infatti, su piriciolu, il vinello, era il vino che i ricchi possidenti, is meris, is merisi, davano a, is serbidoris, is srebidorisi, alla servitù e ai lavoranti che a loro avviso non apprezzavano di bere un vino vinificato in purezza, in realtà non intendevano dividere il vino migliore.

Per riprodurre il “vinello” come un tempo occorre un quarto di uva da pigiare, un quarto di succo d’uva appena spremuta, vinacce della vendemmia in corso e due quarti di acqua di fonte (c’è chi aggiunge dello zucchero), il tutto passato al torchio più volte, poi posto a fermentare per qualche giorno ed ecco, su piricciòu, o, binu ammesturau, pronto da bere in meno di un mese e a disposizione per la sagra di novembre.

Nei miei ricordi da adolescente è ancora vivo quello di quando io ed alcuni amici, alla messa domenicale facevamo i chierichetti e, per fare uno scherzo al prete che celebrava, scambiammo il vino dell’ampolla (vinello annacquato leggermente dolce) da noi bevuto e sostituito poi con l’aceto. Il prete che con ironia accettò lo scherzo e mentre lo beveva recitava: “agrum est!”… ma è agro!, e noi rispondevamo, bufissiddu cument’est, se lo beva così com’è. Quanto ridere… e lo stesso prete si divertiva a rincorrerci per tutta la canonica e il cortile della chiesa.

Ingredientis:

formaggio marcio, casu fràzigu, o, casu martzu, pecorino fiore sardo, formaggio di capra, casu cràbinu, cas’e craba, peretta, casiggiollu, casizzolu, salsiccia secca, sattitzu siccu, guancial, grandua, lardo, lombo di suino, mustèba, mustèla, prosiutto crudo di desulo, presuttu cruu, cruàngiu, olive, olias, obias, pomodori secchi sott’olio, tamata, tamatiga siccada a sutt’e ollu, pane: pane carasau, pan’e fresa, civraxiu, moddizzosu, coccoi, aglio, vino: piriciou, piriciolu, abbàdu, q.b.      

Approntadura:

prepara la tavola, sa mesa, tàulla, disponendo nelle quantità desiderate tutti i formaggi tagliati a triangoli e a schegge su un vassoio di sughero, maizzoba, sippa, concheddu, la stessa cosa vale per la salsiccia, il guanciale, il lombo, il lardo, il tutto disposto a rotazione in un’altro vassoio, terminando al centro con la disposizione del prosciutto crudo a forma di rosa. Fatto, versa le olive dentro ad una ciotola di sughero, ricavata dall’intaglio del nodo di una pianta di quercia (in commercio se ne trovano di ogni forma). In un altro recipiente simile accomodaci i pomodori secchi sott’olio ben sgocciolati e in un ulteriore vassoio disponi i vari tipi di pane a fette, in un altro ancora il, pane carasau, sa fresa, fette di pane, civraxiu, moddizzosu, coccoi, abbrustolite e a parte una ciotola di terracotta con degli spicchi di aglio già pelati. Completa l’apparecchiatura della tavola con brocche di vino, piricciòu o binu   ammesturau, e lo spuntino, spuntinu, picchettada, murzu, è pronto per il ristoro dei, licoinàrgius, licoinàrxus, gutturrosus, golosi. Vino consigliato: piriciou, piriciolu, piritzolu, piriciò, o, binu ammesturau… naturalmente, e a chi non beve vino, Dio neghi anche l’acqua!. Ma se ne bevi tanto, ricordati che non puoi condurre nemmeno il carrello della spesa!.

 

 

***

 

Suppas de pani de Santu ‘Engiu Murriabi

 

È una seduzione molto antica quella che evoca ed avvolge la Sardegna.

La Sardegna è un’isola dall’incanto indescrivibile, qui si estende una terra dall’atmosfera magica e spettacolare, circondata da un mare trasparente e da una   macchia esuberante di colori. Questa meravigliosa terra, grazie al suo clima sempre gradevole, regala una temperatura piacevole tutto l’anno e la bellezza dei posti ripaga la fatica del lavoro di chi vi abita.

Paesaggi naturali incontaminati e luoghi legati alla storia e alla spiritualità hanno lasciato testimonianze di un passato importante e significativo. Spiagge di grande bellezza bagnate da un mare cristallino, rocce modellate dal vento, boschi ricchi di vegetazione Mediterranea e frequentati da mufloni, cervi, daini, cinghiali ma anche un territorio dove fenicotteri rosa trovano casa, rifugio, e luogo ideale per riprodursi.

Ad arricchire la storia dell’Isola sono i nuraghi e i resti archeologici del passaggio delle varie etnie nel corso dei secoli. Tutto questo patrimonio rappresenta il vanto e l’orgoglio del popolo sardo che è stato capace di difendere caparbiamente le usanze, i costumi e le tradizioni che sono mantenute vive con rievocazioni ed eventi presenti nei programmi ben dettagliati delle Pro Loco ed Enti pubblici dei molti paesi dell’Isola, tutti con la loro identità e storia.

La Sardegna è una terra di antiche tradizioni contadine e ricca di specificità ed eccellenze legate all’agricoltura, alla pastorizia, alla viticoltura e all’olivicoltura. Altrettanto sono da citare con plauso la gastronomia, l’arte della panificazione, e quella dolciaria oltre all’artigianato.

La gastronomia offre una vasta gamma di piatti, soprattutto quelli che da secoli vengono tramandati e sono ancora presenti in tutto il territorio, se pur impreziositi e rivisitati da successive contaminazioni.

Sicuramente la cucina isolana conserva una ricca e antica tradizione, depositaria di saperi e sapori e sintesi di diverse culture. 

Una ricetta in particolare, preparata con ingredienti umili: pane, acqua, sugo di pomodori e pecorino (gli stessi ingredienti che utilizzava mia mamma), è la zuppa di pane raffermo (il termine zuppa deriva dal gotico “suppa”, che significa pane inzuppato), famosa è quella che si prepara a San Gavino Monreale, ridente paese di circa 8,500 abitanti della provincia del Sud Sardegna, sa suppa de pani de Santu ‘Engiu Murriabi, la zuppa di pane casereccio raffermo di San Gavino Monreale. Questa zuppa fa parte della cucina contadina e pastorale della Sardegna; si prepara con pochi ingredienti e varia da paese a paese con nomi differenti. Nonostante la semplicità dei suoi ingredienti, la zuppa di pane un tempo era il piatto principe delle grandi occasioni e immancabile nei menu dei pranzi nuziali in tanti paesi dell’Isola.  

La prima presenza dell’uomo sul territorio di San Gavino risale all’epoca prenuragica, le successive tracce rinvenute nel territorio riconducono al passaggio dei romani, lo testimoniano il ritrovamento di una necropoli, il peristilio (cortile circondato da porticati che cingono uno spazio delimitato) di una villa rurale e altri reperti.

Il nucleo originale sorse attorno alla trecentesca chiesa di San Gavino Martire, che diede il nome al borgo e attualmente decentrata, si trova al margine del paese.

Il borgo in periodo medievale appartenne al giudicato di Arborea, incluso nella curatoria di Bonorzuli, l’attuale Mogoro.

Il villaggio nel corso dei conflitti con i catalani fu pressoché annientato.

Verso il 1410, data della cessazione del giudicato cadde sotto il dominio degli aragonesi, una volta riedificato, il paese venne accorpato al marchesato di Quirra, feudo dei Centelles, per poi essere annesso agli Osorio de la Cueva.

Nel 1839 con la soppressione del sistema feudale il paese divenne autonomo.

San Gavino nel 1932, diede lavoro a gran parte degli abitanti del paese con l’attività dello stabilimento della fonderia “Italpiombo”, nel quale veniva lavorato lo zinco e il piombo provenienti dalle miniere di Montevecchio collegate da una ferrovia alla stazione di San Gavino. Nei miei ricordi infantili è ancora vivo quello legato a mio padre, che negli anni cinquanta faceva il macchinista della locomotiva che trasportava i vagoni carichi di zinco, piombo, galena e altri minerali provenienti da Montevecchio, che arrivati alla stazione di San Gavino venivano poi smistati allo stabilimento della fonderia. Io con miei fratelli, aspettavamo allineati in cortile con grande gioia il passaggio del convoglio, infatti la nostra casa era di fronte alla linea ferroviaria e nostro padre si rallegrava ai nostri calorosi saluti e rispondeva azionando la leva del fischio della locomotiva.

Negli anni Sessanta la fonderia Italpiombo era considerata la più grande d’Europa, dato riportato anche in alcuni libri di testo scolastici e, per noi ragazzini era un motivo di orgoglio.

Oggi San Gavino Monreale è un paese dedito all’agricoltura e alla pastorizia, reso famoso per la coltivazione dello zafferano, tanto da guadagnarsi l’appellativo di “Città dell’oro rosso” per la sua importante produzione, che copre con il suo settanta percento il fabbisogno nazionale.

In occasione della festa del, crocus, che è una celebrazione di questo prodotto tipico, ho avuto il privilegio nelle edizioni del 2006 e 2011, di preparare le degustazioni ha base di zafferano con cucina a vista, con un notevole consenso di pubblico.

Fortunatamente gli assaggi sono stati graditi da tutti i partecipanti, meno che… dall’asino che non apprezza lo zafferano, su mobenti no papada tzaffanau!.

Ingredientis:

una dozzina di fette di pane raffermo tipo pane grosso di Sanluri, civraxiu de Seddori, o, coccoi, un paio di litri di acqua, per il sugo: un mazzo di cipollotti, un mazzetto di prezzemolo,4 pomodori secchi ben dissalati, due spicchi di aglio, vino bianco secco, g 800 di polpa di pomodori freschi ridotta a poltiglia, un bel mazzetto di basilico, g 200 di pecorino di San Gavino poco stagionato, zafferano San Gavino, olio extravergine di oliva, sale, zucchero comune e pepe di mulinello q.b.

Approntadura:

monda, lava, asciuga i cipollotti e il prezzemolo, poi tritali assieme ai pomodori secchi e il battuto ottenuto versalo dentro a un tegame assieme a un generoso giro di olio e l’aglio, quindi ponilo sulla fiamma, lasciando rosolare il soffritto dolcemente, dopo qualche minuto spruzzalo con poco vino e fallo evaporare. Non appena trascorso un quarto d’ora, aggiungi la polpa di pomodori, una presa si sale, un pizzico di zucchero, una macinata di pepe, il basilico ed amalgama insieme gli ingredienti proseguendo la cottura per una mezz’ora circa a recipiente coperto. Passato questo tempo, metti una pentola con dell’acqua sul fuoco (nelle cucine dei più agiati l’acqua veniva sostituita con del brodo di manzo o di pecora e agnello) e appena arriva al bollore salala leggermente e impreziosiscila con una presa di zafferano, di seguito tuffa una alla volta le fette di pane, scolale velocemente con un mestolo a ragno onde evitare che si inzuppino troppo, strizzale e accomodale in una teglia irrorata con del sugo. Terminato il primo strato, condisci la superficie con altro sugo, una generosa spolverata di formaggio e una carezza di olio, quindi procedi in questo modo fino al termine degli ingredienti. Arrivati a questo punto, passa la preparazione in forno già caldo a 180° per una ventina di minuti o poco più, subito dopo sforna la pietanza e servila immediatamente, abbellendo ogni piatto con un ciuffo di basilico.

Vino consigliato: Monica di Sardegna superiore dal sapore sapido con tipico retrogusto asciutto.

 

 

 

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