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L'ISOLA IN CUCINA di Roberto Loddi de Santu ‘Engiu Murriabi – Ricette Gennaio 2025

  Busecca o matzàmini a sa sarda

 Marco Gavio Apicio, gastronomo, cuoco e scrittore romano, vissuto nel primo secolo d.C., cuciniere ufficiale e personale dell’imperatore Tiberio, autore del “De re coquinaria”, una raccolta di ricette e viaggi culinari, famoso per la sua ricchezza e la passione per i piaceri della gola, noto anche per spendere cifre folli pur di avere i migliori ingredienti e sperimentare nuove ricette.

Nel suo trattato descrive ricette che ancora oggi sono di straordinaria attualità, come per esempio la trippa, entrata nella tradizione romana, cucinata con diverse parti dello stomaco bovino, ma adorava cucinare con grande interesse anche piatti con le interiora degli animali e le parti di bassa macelleria.

I Greci arrostivano la trippa sulla brace (in Sardegna ancora oggi cucinano le budella, longusu, dei bovini sulla griglia), a differenza dei Romani che la impiegavano non solo cucinata in umido, ma anche per preparare salsicce.

Sempre al tempo dei Romani, nelle, tabernae, thermopolia, cauponae e popinae, precursori dei nostri bar, osterie e tavole calde come testimoniano le recenti scoperte archeologiche di Pompei, era possibile trovare frattaglie di vario genere e trippe cucinate con abbondante grasso e vendute anche agli angoli delle strade.

Erano veri e propri ed antesignani del cibo di strada presenti in tutto il territorio dell’Impero.

In questi luoghi di ristoro dove consumare un pasto veloce, i passanti oltre alle trippe compravano e consumavano bevande fresche o vino caldo e, lungo vie era facile incontrare ambulanti e bancarelle “lixae” che vendevano pane, frittelle, salsicce, olive, formaggi, dolci e quant’altro.

Plinio il Vecchio e Galeno decantavano lo zafferano per le sue importanti qualità e per la caratteristica di impreziosire i cibi, specialmente le minestre di trippe, che risultavano essere davvero “goduriose” e senza eguali.

In periodo Medievale, la trippa veniva cucinata a lungo con un brodo denso e gustoso con varie spezie (noce moscata, chiodi di garofano e pepe lungo) ed erbe aromatiche fresche (finocchio, menta, salvia, nipitella e maggiorana), famosa è la, calcatum, o, calcadum, descritta nel “Liber de coquina”, un ricettario anonimo scritto in latino tra il tredicesimo e il quattordicesimo secolo.

 

Sempre nello stesso periodo, in un certificato ritrovato a Verona, si menzionano “budellas… tripes”, in altri documenti del 1300, rinvenuti in Toscana, la trippa viene citata con lo stesso lemma che usiamo noi. Nel quindicesimo secolo, il famoso poeta fiorentino Luigi Pulci, nel suo “Poema Morgante”, edito nel 1478, chiama la trippa “trippaccia”, nella stessa epoca in cui Maestro Martino da Como, autore del trattato “Liber de arte coquinaria”, lasciava in custodia a Bartolomeo Scappi, altro eccelso cuoco del Rinascimento, la ricetta della trippa.

Nel 1554 il medico milanese Ortensio Laudo scrive: “Goderai a Trevigi, trippe e gamberi del Sile, de’ quali quanto più ne mangi più ne mangeresti”.

Nell’Ottocento nasceva in Piemonte, a Moncalieri l’azienda “Tripa ‘d Muncalè”.

Nei primi del Novecento diventa famosa la frase “Nun c'è trippa pe gatti”, infatti il sindaco di allora Ernesto Nathan, a causa del drastico crollo del bilancio pubblico, decise di tagliare le spese sostenute per comperare le “frattaglie per gatti”, cibo per sfamare i gatti, allora ritenuti fondamentali per dare la caccia ai topi ed evitare rosicchiassero i documenti degli archivi e a bilancio scrisse: "Nun c'è trippa pe gatti".

Oggi la trippa è un alimento che appartiene alla tradizione di molte regioni d'Italia, per esempio in Sardegna, il quinto quarto, trippe comprese è facile da reperire nelle varie macellerie dei paesi, ma anche nelle loggette, panghe, che si trovano nell’area del quartiere storico marina di Cagliari. Era, ed è tuttora compito dei maschi passare la mattina del giorno dopo la macellazione degli animali nelle macellerie, alla ricerca della trippa (parte dell’apparato digerente compresa fra esofago e stomaco) e delle frattaglie, uscellè, uxellè, migliori.

Tante sono le varianti della ricetta classica che gli isolani preparano, possono cambiare alcuni ingredienti come le patate, i fagioli e le verdure, ma la costante che le accomuna tutte è la trippa, busecca, matzàmini. Qualunque sia la ricetta, la trippa rimane un succulento piatto che si prepara specialmente nei mesi più freddi. Nelle macellerie si trova la trippa sbiancata, già pulita ed anche parzialmente lessata, perciò quando andate dal vostro macellaio a comperarla, cercate di non complicarvi la vita mettendolo in difficoltà ed elencandogli l’infinita lista dei nomi della trippa, onde evitare che vi venga detto: portas pinnicas chi mancu su centu pillonis, sei più contorto della trippa millefoglie. Basta chiedere una semplice trippa mista!

Ingredientis:

kg 2 di trippa mista pronta a cuocere, una grossa cipolla di Zeppara (proficua regione della Marmilla), un mazzetto di prezzemolo, 4 pomodori secchi ben dissalati, un peperoncino rosso piccante (facoltativo), 2 foglie di alloro, un ciuffo di menta (facoltativa), vino bianco secco, kg 1,5 di polpa di pomodori maturi ridotta a poltiglia, 3 spicchi di aglio, zucchero, zafferano San Gavino, brodo, olio extravergine d’oliva, pecorino sardo stagionato, sale e pepe di mulinello q.b.

Approntadura:

innanzi tutto lava accuratamente la trippa e ponila a sgocciolare dentro a un colapasta, poi tagliala a listarelle e tienila da parte. Fatto, trita la cipolla con il prezzemolo, i pomodori secchi e il peperoncino se decidi di usarlo, quindi trasferisci il battuto ottenuto dentro a una capace casseruola di terra cotta, grassanera, càccau, detta, caccavella, sattaina, sciacuera, strexiu, cassarolla, assieme a un generoso giro di olio e lascialo appassire dolcemente per cinque minuti, dopodiché, bagnalo con una spruzzata di vino. Evaporato, tuffaci la trippa e falla rosolare per dieci minuti, subito dopo unisci la poltiglia di pomodori, un cucchiaino di zucchero, due spicchi di aglio, l’alloro, una presa di sale, una macinata di pepe (in tante famiglie usano anche l’originale miscela di spezie “La saporita”) e prosegui la cottura dolcemente per due ore circa a recipiente coperto, mescolando di tanto in tanto e se la trippa tendesse ad asciugarsi, bagnala ogni tanto con poco brodo vegetale bollente. A cottura quasi ultimata regola il sapore di sale, impreziosiscilo con una lodevole presa di zafferano e aggiungi la menta se gradita, dai una mescolata e infine scodella la, busecca, dentro a delle ciotole, sulle quali avrai distribuito delle fette di pane raffermo tipo, civraxiu, o, moddizzosu, abbrustolite e strofinate con l’aglio rimasto. Prima di portare in tavola completa ilpiatti con un’abbondante grattugiata di pecorino e un filo di olio.

Vino consigliato: Cannonau Istiga di Arbus, dal sapore asciutto e morbido, caldo, con ottima struttura, persistente, giustamente tannico e armonico, secco, dal tipico retrogusto amarognolo.

 

 

***

 

Sas cattas de sa dìe de is tres gurreis

 

 

Il termine Epifania deriva dal greco, “manifestazione della divinità”.

L’Epifania è la festa cristiana che celebra la rivelazione di Dio agli esseri umani nella figura di suo Figlio il Cristo, davanti all’arrivo dei re Magi. Col passare dei secoli la ricorrenza dell’Epifania si è sovrapposta alla festa della Befana, una simpatica vecchietta che porta i doni ai bambini a cavallo di una scopa, infilandoli dentro ai comignoli delle case.

La ricorrenza dell’Epifania viene celebrata il sei gennaio di ogni anno, infatti la festa cade dodici giorni dopo il Natale, vale a dire in seguito al solstizio d’inverno, periodo che commemorava il sonno e il risveglio della natura per mezzo di Madre Terra.

L’origine di questa festa risale a tempi lontani, pare che già nel II secolo d.C. si celebrasse la ricorrenza. Agli inizi veniva associata ai seguaci di Basilide, maestro religioso dello gnosticismo cristiano delle origini. I basilidiani infatti credevano che l’incarnazione di Cristo fosse avvenuta con il suo battesimo e non alla sua nascita.

Una volta consacrata la festa dell’Epifania dal clero del levante, nel Quarto secolo si propagò anche tra i popoli occidentali, fino ad essere accettata nel Quinto secolo dalla Chiesa di Roma.

In Italia la festa dell’Epifania ha differenti tradizioni folcloristiche, meno evidenti di quella natalizia, però pur sempre sentita, probabilmente essendo questa l’ultima festività del periodo natalizio riveste un senso di chiusura, lo dice anche un antico detto che “l’Epifania, tutte le feste porta via”.

Nelle credenze popolari alla notte dell’Epifania vengono attribuiti poteri straordinari, una sorta di sortilegio, pare che gli animali parlino nelle stalle e nei boschi vicini, in ciascun paese si trovano varianti e convinzioni, accomunati da quella simpatica e cara vecchietta.

La Befana durante l’anno, si dice, viva dentro a una spelonca, per poi spostarsi di casa in casa, o meglio di comignolo in comignolo durante la notte del cinque gennaio a cavallo di una scopa, per portare doni e dolci ai bambini ubbidienti e il carbone a quelli monelli. Dopo tutte le fatiche affrontate, stanca e provata, la Befana rassegnata e pronta per il sacrificio del rogo, come un tralcio rinsecchito di un albero, in attesa di rinascere l’anno seguente.

La befana è conosciuta nel nostro Paese con differenti nomi: troviamo la “Vecchia” a Pavia, la “Berola” a Treviso, la “Redodesa o Marentega” a Venezia, la “Barbasa” a Modena – “sa Femia béccia”, la Donna vecchia o, “sa Bacucca ‘eccia cun sa scova”, la Donna vecchia con la scopa in Sardegna.

Nell’Isola, la mattina del sei gennaio, i bambini appena alzati erano soliti avvicinarsi al caminetto acceso, dove la sera, prima di andare a nanna avevano appeso le calze con una letterina, nella speranza di trovarle piene di regali al risveglio. I doni non erano altro che mandarini, ficchi secchi, noci, nocciole, dolciumi vari e qualche rara strenna.

I bambini algheresi la mattina della befana andavano e tuttora vanno a bussare ai portoni del vicinato esclamando: nem’estrèna, con un arancio in mano, nel quale venivano applicati due tagli (una sorta di salvadanaio), nella speranza che qualcuno facesse una strenna infilandoci dentro delle monetine.

I tempi erano sicuramente difficili e ci si accontentava di quello che la provvidenza passava, promettendo di essere ancora più buoni per il successivo anno.

Sempre in Sardegna e per la precisione, negli anni sessanta a San Gavino Monreale (città dell’oro rosso di Sardegna) da ragazzo ricordo che la notte della Befana si rendeva omaggio alla “festa della matricola”, una serata danzante in onore degli universitari novelli. Terminati i balli si usava andare con gli amici di casa in casa a sgranocchiare stuzzichini e dolcetti lasciati sul tavolo dalle nostre mamme, che presagendo le visite notturne volevano soddisfare i nostri robusti appetiti giovanili. Mi è rimasto impresso un dolce particolare della Befana: is cattas de sa dìa de is tres gurreis, frittelle dei Magi. In diverse località isolane esistono altri dolci dedicati alla Befana, ad esempio: la torta dei tre re, con all’interno dell’impasto una fava, un fagiolo e un cece, espediente che voleva significare che chi trovava uno dei tre cereali doveva ritenersi fortunato, perché gli veniva propiziato un anno di cospicuo raccolto (questa tradizione è in uso anche in altre città d’Italia).

Potete trovare storie, racconti e curiosità molto interessanti sull’Epifania in Sardegna sul sito di Claudia Zedda - http://www.claudiazedda.it/epifania-in-sardegna/.

Nel Goceano, Meilogu, Monteacuto e territori contigui, si preparava un dolce a forma di focaccia di complessa lavorazione chiamato, su kàpidu ‘e s’ànnu, o, sas fikkas, o, càpude, (dal latino “caput annis”, cioè inizio dell’anno), in superficie venivano impressi dodici piccoli circoli, abbinati a dodici soli per rendere comprensibile i mesi dell’anno e dodici cerchietti per simboleggiare le lune.

Questi sono solo alcuni dei dolci sardi preparati per l’Epifania. In Sardegna un tempo, al posto della Befana si aspettava l’arrivo dei Magi, in dialetto sardo, sa Pasca de is tres reis, la Pasqua dei tre re. Tante sono le storie, come tante sono le leggende legate alla Befana, che da secoli hanno allietato la fantasia dei bambini… e perché no, anche quella degli adulti.

Ingredientis:

kg 1 di farina manitoba oppure del tipo 0, g 500 di patate vecchie, 4 uova, g 180 di zucchero comune, g 350 di ricotta di pecora, g 200 di latte di pecora, g 20 di lievito di birra freschissimo, 1 cucchiaio di miele per attivare il lievito, g 1 limone giallo e 1 arancio non trattati, zafferano San Gavino, liquore tipo Villacidro, olio per friggere, zucchero comune per inzuccherare le frittelle, sale q.b.

Approntadura:

per prima cosa, un paio di ore prima fai sciogliere il crescente dentro a un boccale con il latte tiepido, il miele, un etto di farina di quella che hai in dotazione, mescola e ponilo a lievitare dentro al forno spento con la sola luce accesa. Nel mentre pela le patate, lavale e cuocile a vapore. Una volta cotte, pelale, poi passale con l’apposito attrezzo e il ricavato versalo dentro a una conca di terracotta, scivedda, xivedda, aggiungi le uova montate a spuma con lo zucchero, il lievito, le scorze degli agrumi grattugiate e il succo filtrato, tre cucchiai di liquore, la farina poca alla volta, una presa di zafferano, una di sale, la ricotta e mescola accuratamente tutti gli ingredienti. Terminata questa operazione, copri il recipiente con un panno e ponilo dentro al forno spento sempre con la sola luce accesa per un paio di ore, fino a quando avrà raddoppiato il suo volume e in cima alla superficie si saranno formate delle bolle. Solo allora l’impasto sarà pronto, perciò preleva con le mani unte d’olio parte del composto, con la pressione del dito pollice e quello dell’indice fai un buco in mezzo, allargalo e tuffa la frittella in abbondane olio bollente, quindi infilaci dentro al buco il manico di un mestolo di legno, fallo roteare affinché il foro rimanga rotondo è una volta che la ciambella e dorata da ambo le parti, scolala su dei fogli di carta assorbente per alimenti a perdere il grasso eccedente. Friggi le altre frittelle poche alla volta, procedendo come hai fatto con la prima, fino ad esaurimento dell’impasto. Arrivati a questo punto puoi inzuccherare le ciambelline e servirle ancora calde, ma sono buone anche a temperatura ambiente.

Vino consigliato: Moscato di Sardegna, dal sapore delicato, fruttato, tipico e dolce.

 

 

 

 

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