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L'ISOLA IN CUCINA di Roberto Loddi de Santu ‘Engiu Murriabi – Ricette Febbraio 2025

 Costixeddas de mannali a sa piscadura de is bonesus

 Immerso nel cuore della Sardegna, si trova Bono, un paese dove il tempo sembra essere rimasto sospeso e rispecchiare l’anima interna dell’Isola, con la quiete immutata di un tempo, che persiste come l’antica natura di un mondo antico che l’uomo saggio continua ad amare ed apprezzare.

Bono è uno dei più importanti paesi del Goceano, incorniciato da un panorama affascinante, ricco di storia e di meraviglie, legato alle antiche tradizioni, con immagini fiabesche che non hanno eguali al mondo.

Per questi sentieri è passata la leggendaria storia di un popolo fiero e coraggioso, persone che hanno la consapevolezza di essere fortunate a vivere in questo magico luogo e ne colgono ogni sfumatura.

Questi luoghi naturali ricchi di arte e di cultura, di storia, di culto e spiritualità, hanno lasciato testimonianze suggestive, che si saldano al loro destino millenario.

 

Il carattere degli uomini e delle donne, forgiato e messo alla prova dalle avversità della vita è rimasto indelebile nel tempo da sempre e per sempre.

Il territorio di Bono è abitato sin dall’era nuragica, come lo comprovano i 24 nuraghi distribuiti sul territorio comunale. 

In epoca medioevale, il paese fu di proprietà del giudicato di Torres, per la precisione apparteneva all’amministrazione della regione storica del Goceano, assieme al paese di Bultei, Benetutti, Bottidda, Esporlatu, Anela e Burgos.

Durante il dodicesimo secolo, la Sardegna visse un periodo di forte vitalità con il fiorire di edificazioni, di costruzioni di chiese, il sorgere di comunità religiose, conventi e castelli, a Bono poi venne innalzata una bellissima chiesa di scuola romanico pisano esistente ancora oggi, ed è la parrocchia di San Michele Arcangelo.

Si tramanda una vicenda che accadde il 20 luglio del 1796, nella quale si racconta di un prezioso calice donato alla circoscrizione ecclesiastica da “Donno Gunari de Schano” nel XIV secolo e trafugato da una banda di guerrieri del condottiero Efìsio Pintor Sirigu, detto “Pintoreddu”, il quale divenuto in seguito viceré, restituì la coppa dell’allora parroco della chiesa del paese.

Nel 1721, con il trasferimento del Regno di Sardegna ai Savoia, e dopo le condizioni economiche critiche, si registrò una ripresa che favorì la crescita delle attività agricole.

Alla fine del Settecento il paese venne distrutto dall’esercito piemontese, che dopo averlo annientato ne prese il governo.

Agli inizi del Novecento, Bono fu capoluogo di provincia e dopo alcuni anni venne accorpato alla circoscrizione di Sassari.

Oggi Bono è un paese di 3500 abitanti circa, in provincia di Sassari e dal secolo scorso mantiene uno stretto legame col Nuorese. La sua economia si basa principalmente sulle attività agropastorali e artigianali, in particolare la lavorazione del ferro, dell’ebanistica e dell’arte antica della tessitura. La panificazione avviene nel rispetto della tradizione come si tramanda da tempi ancestrali, con il rito di una preghiera “brebus”, prima di dare inizio alla lavorazione del pane.

In paese non mancano le tradizioni, le feste, gli eventi e le sagre enogastronomiche con degustazioni di piatti poveri ed antichi che Pro Loco, Associazioni varie ed enti preposti ogni anno si impegnano a mantenere vive.

Un piatto in particolare mette in risalto, is costixeddas de mannali a sa piscadura de is bonesus, piatto invernale a base di costolette e le parti meno nobili del maiale, che si preparava dopo la macellazione. L’usanza prevede, dopo la selezione della carne per confezionare gli insaccati, di mettere sotto sale i piedini, le orecchie, il musetto, le cotenne, parti della pancetta e del lardo e persino le ossa grossolanamente disossate. Con questa tecnica il tutto si manteneva commestibile per parecchi mesi. Al momento di preparare la ricetta, si puliscono accuratamente dal sale le parti da utilizzare e si fanno cuocere in una sorta di brodo, iniziando dalle parti che necessitano tempi più lunghi di cottura e, man mano le altre parti, poi si aggiungono fave secche precedentemente ammollate, lardo, cipolle, patate e finocchietto selvatico.

Una volta che gli ingredienti risultano cotti si inizia a “pescare”, piscadura, i componenti a piacimento, mentre il brodo ci cottura viene utilizzato per ammollare il pane raffermo a fette, il quale, dopo diversi strati forma una sorta di zuppa, suppas, suppasa, che alla fine viene ricoperta di pecorino grattugiato.

Ingredientis:

kg 3 di carne mista di maiale: costine, pancetta, cotenna, orecchie, musetto, lardo e testa sotto sale, 6 belle cipolle di Banari, 4 pomodori secchi ben dissalati, vino bianco secco, 8 patate di Buddusò, fumuderra, g 800 di fave secche precedentemente ammollate, un mazzo di finocchietto selvatico, pane raffermo, 2 spicchi di aglio, pecorino, olio extravergine d’oliva, sale e pepe di mulinello q.b.

Approntadura:

per prima cosa, preoccupati di lavare in acqua fredda accuratamente tutte le costine, i piedini, il musetto ed il resto delle cotenne del maiale, ripeti più volte questa operazione in modo da eliminare tutto il sale di conservazione. Fatto, poni sul fuoco una capace pentola di terracotta dalle pareti alte, pingiada, strexiu, olla manna, al centro tuffaci un generoso giro di olio, i pomodori secchi con la pancetta a listarelle, il lardo battuto a coltello e lascia rosolare il tutto per cinque minuti, poi bagna con una spruzzata di vino. Evaporato, aggiungi tutte le parti del maiale e dopo cinque minuti tanta acqua quanto basta a coprire le costolette ed il resto, subito dopo aggiungi il finocchietto e le fave secche precedentemente ammollate. Quando saranno trascorse due ore, aggiungi le cipolle, le patate pelate fatte in metà e prosegui la cottura per un’altra abbondante mezzora, quindi regola il sapore di sale e impreziosiscilo con una lodevole macinata di pepe.  Giunti al termine della cottura, un profumo nuovo si spargerà per la cucina, sottolineando l’ottima riuscita del piatto. Arrivati a questo punto, disponi delle fette di pane abbrustolite e strofinate con l’aglio che hai in dotazione in un vassoio, bagnandolo leggermente con il brodo bollente e alternandolo a strati di pecorino grattugiato (a piacere puoi sostituire il pane raffermo con del pane carasau), a parte pesca il bollito di maiale, sa piscadura, suddividila dentro a quattro terrine di coccio e servila assieme al pane raffermo inzuppato e arricchito con il formaggio grattugiato.

Vino consigliato: Monica di Sardegna frizzante, dal sapore sapido, con tipico retrogusto asciutto.

 

 

Sas scroccias de arangiu e limoi de Zerfaliu cunfettàdas

 

 

Nel mondo, tra gli agrumi, l’arancia è il frutto maggiormente consumato, la sua forma è tra il tondo e l’ovale e il colore della buccia, a maturazione avvenuta, va dal giallo al rossiccio, a secondo delle varietà. L’arancia è un frutto veramente prezioso, in quanto è utilizzato in ogni sua componente; infatti dalla scorza si ricavano oli essenziali, che vengono utilizzati nell’industria chimica, oltre a poterla consumare candita.

Originario dell'Estremo Oriente, l'arancio deriva il proprio nome dal persiano, narang, (arancia amara, gusto apprezzato dagli elefanti), altre fonti lo fanno derivare dall’arabo.

Pare che fosse noto ai Romani già nel 1 secolo d.C., e fu certamente introdotto in Spagna e Portogallo all'inizio del XIV secolo. La storia dell’arancio e del suo frutto presentano aspetti molto contrastanti, la maggior parte degli studiosi ammette che quest’albero è entrato a far parte dei vegetali coltivati dall’uomo inizialmente in Cina e in Giappone e successivamente nei paesi europei che si affacciano sul Mediterraneo.

Le prime notizie certe sull’introduzione di questa pianta risalgono al 1100 d.C. ma soltanto nei secoli XVIII e XIX la sua coltura cominciò ad assumere una rilevante importanza soprattutto in Sicilia, Calabria, in Campania e in Sardegna, diffondendosi solo nelle regioni mediterranee, proprio per la scarsa resistenza al freddo.

L’arancia dolce (citrus sinensis) è l'agrume più coltivato nel mondo. Gli alberi sempreverdi hanno una fronda compatta, simmetrica e rotondeggiante e possono raggiungere anche l’incredibile altezza di otto e persino di dieci metri ed hanno la chioma folta di colore verde acceso. Può raggiungere i 100 anni di età, anche se nelle colture moderne viene rinnovata velocemente, al fine di ottenere la massima produzione dei frutti. I rami di alcune cultivar possono essere spinosi, con le foglie ovate, lucide e presentano un picciolo leggermente alato. I fiori, zagare, sono bianchi e profumati; possono essere singoli o riuniti in gruppi fino a sei per infiorescenza. La fioritura è primaverile, mentre i frutti arrivano a maturazione nell'autunno o nell'inverno successivo, in alcuni casi i frutti dell'anno precedente possono essere ancora sulla pianta durante la fioritura successiva. I frutti dell'arancio dolce non maturano dopo la raccolta, vanno quindi lasciati sulla pianta fino al grado di maturazione desiderato.

Nelle zone tropicali i frutti rimangono verdi, e per far assumere loro la colorazione arancione vengono trattati con etilene, un gas che è anche un ormone che favorisce la maturazione. Resiste abbastanza bene alla siccità, ma per ottenere produzioni copiose

richiede irrigazioni abbondanti. Per la propagazione si innesta su un arancio amaro un limone volkameriamo (limone rosso) e un arancio trifogliato (amaro spinoso).

Le varietà di arancia dolce possono essere classificate in base a vari parametri ed epoca di maturazione; quelle precocissime che maturano fino a metà novembre come le Navelina, Skaggs Bonanza, Washington Navel, mentre le varietà Valencia Late molto tardive maturano fino a tutto maggio.

Anche in Sardegna si producono diverse varietà di arance, famose sono quelle Moro, Sanguinello comune, Sanguigno e Tarocco, prodotte soprattutto nel territorio di Muravera e di San Sperate. Altre aree di produzione si trovano a Zerfaliu, Milis e Villacidro.

In quasi tutte le abitazioni dell’Isola che hanno la fortuna di possedere un cortile con orto adiacente, tra le varie piante da frutta, c’è almeno una pianta di arance, arangiu, aranzuruggiu ruiu,   arrubiu, e una di limoni, limoi,  limoni e ognuna è sufficiente per il fabbisogno della famiglia. Ma ci sono anche paesi come Zerfaliu, Tzorfolìu, piccola comunità con poco più di mille abitanti, in provincia di Oristano, che grazie alle piantagioni di agrumi ricavano un reddito, rifornendo il fabbisogno locale attraverso mercati rionali e supermercati.

Il paese era già popolato in era nuragica, come dimostrano le testimonianze archeologiche lasciate nella regione.

In periodo medievale fu aggregato alla curatoria del Campidano di Oristano nel Giudicato di Arborea.

Nel 1420 fu inglobato nel marchesato di Oristano e, a seguito di una sconfitta nel 1478, il paese venne incorporato nell’egemonia aragonese e si trasformò in un feudo.

Nel 1767, in periodo sabaudo, venne assorbito nel marchesato d’Arcais, proprietà dei Flores Nurra e nel 1839, con l’abolizione del regime feudale, venne svincolato e si trasformò in un comune autonomo governato da un sindaco e un consiglio comunale.

Nel 1927 il comune di Zerfaliu si fuse con il comune di Solarussa, per poi ritornare autonomo nel 1946.

Oggi Zerfaliu è un paese nel quale l’economia è tradizionalmente basata sull’artigianato locale, sull’agricoltura, sulla viticoltura, sulla produzione di olio, salumi, formaggi, tappeti e cestini artigianali, ma anche sulla pastorizia e sull’ortofrutta, settore di peso per l’economia e il reddito degli zerfaliesi.

Ogni anno dal 1997 a Zerfaliu, tra febbraio e marzo, viene dedicata una importante mostra mercato agli agrumi, con stand e bancarelle che espongono i prodotti locali ed è un’autentica vetrina per far conoscere e valorizzare i gustosi frutti della terra locale.

Un vecchio detto narra: “l’arancia se consumata al mattino è oro, se consumata al pomeriggio è argento, se consumata alla sera è piombo”. A chi vuol capire subito non occorrono tante spiegazioni, paucis verbis sapienti, a buon intenditore poche parole.

Ingredientis:

2 belle arance e 2 limoni gialli con la buccia spessa e rigorosamente non trattati, acqua q.b., zucchero comune uguale al peso delle scorze pronte per essere candite, un bicchierino di limoncello, per cospargere: zucchero comune e zucchero al velo q.b.

Approntadura:

l’operazione più importante è quella di preferire agrumi senza imperfezioni e di lavarli accuratamente in acqua fredda corrente ed eliminare tutte le impurità prima di utilizzarli. Fatto, asciugali, elimina le calotte degli agrumi, asportane le scorze, rifilale tutt’intorno e tagliale a listarelle larghe un centimetro, lasciando intatta la polpa bianca, poi tuffale dentro a una bacinella e coprile a filo con acqua corrente fredda.  Passata una mezz’ora, ricambia l’acqua e procedi in questo modo per 3 volte, questo accorgimento serve per far perdere l’amaro alle scorze. Terminata questa operazione, pesa le bucce, riempi una marmitta d’acqua e portala a bollore, dopodiché tuffaci le zeste e lasciale cuocere per un paio di minuti, dopo allontanale dal fuoco e lasciale intiepidire, quindi ripeti la stessa procedura per tre volte. A questo punto, metti tanto zucchero quanto il peso delle bucce dentro a un largo recipiente, unisci il liquore, quindi ponilo sul fuoco e con l’aiuto di una schiumarola scolaci le scorze, lasciando la poca acqua che rimane sul mestolo e inizia a cuocerle a fiamma vivace, sempre mescolando, onde evitare che si attacchino sul fondo mentre lo zucchero eccedente verrà riversato sulle pareti del recipiente. Quando inizi a vedere delle bolle grosse che man mano si restringono e lo sciroppo tende ad asciugarsi, allontana il tegame dalla fiamma e sempre mescolando in senso rotatorio, vedrai che le scorze tenderanno a raggrupparsi formando una palla. Solo allora rovesciale dentro a una teglia e scuotendole, si slegheranno l’una dall’altra, spolverale subito con dello zucchero e continua a scrollarle per qualche minuto. Una volta che saranno tutte sciolte accomodale sopra a una grattella ad asciugare e lasciale così per un paio di giorni, girando sotto sopra le scorze che in superficie sono ancora umide. Trascorso il tempo occorso, versale dentro a una teglia, cospargile con dello zucchero al velo e scuotile ancora in modo da inzuccherarle tutte. Le zeste candite si conservano a lungo in scatole di latta e sono ideale golosità se glassate con cioccolato fondente e servite con una tazzina di caffè, ma il massimo della goduria si raggiunge quando vengono servite assieme ai, pirichittus, dolcetti avvolti in una candida glassa di zucchero… Le scorzette brinate e, is pirichittus, che preparava mia mamma erano dolcetti paradisiaci e per la sua bontà e bravura, le venne conferita una targa ad honorem come miglior pasticcera di San Gavino Monreale.

L’abbinamento ideale è gustarli con un buon caffè nel pomeriggio, ma se consumati dopo un pasto è perfetto un Vino tipo Moscato di Sardegna, dal sapore delicato, fruttato, tipico e dolce.

 

 

 

 

 

 

 

 

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