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L'ISOLA IN CUCINA di Roberto Loddi de Santu ‘Engiu Murriabi – Ricette Marzo 2025

 Malloreddus antigorius

Le prime notizie sull’impiego del grano da parte dell’uomo sono veramente lontane, risalgono infatti a circa 10.000 anni. Il genere umano nel tempo scoprì che sbriciolando le spighe e pestandole con mezzi rudimentali, si poteva ottenere un semolato. In seguito gli uomini scoprirono fortunosamente le prime tecniche manuali dell’impasto, dal quale ricavavano dei dischi appiattiti, simili alle attuali spianate sarde, come il pane tipico di Ozieri in provincia di Sassari, cotto su pietre infuocate dal sole, così come accadde durante l’esodo degli ebrei dall’Egitto, che casualmente scoprirono anche il processo di lievitazione.

Siamo così giunti al quinto secolo a.C., data alla quale si fa risalire il primo tipo di pasta lessata nell’acqua. Tuttavia, come viene citato nel libro “Le ricette per il piacere di una vita sbagliata” di Learco Learchi d’Auria, nel 450-385 a.C., il commediografo greco Aristofane, figlio di Filippo del demo di Cidateneo e il poeta romano Quinto Orazio Flacco di Venosa (autore dell’espressione “cogli l'attimo - afferra il giorno”), utilizzano termini come “legano” dal greco e “laganum” dal latino, che indicano un impasto di acqua e farina tirato e tagliato a strisce, proprio come le attuali tagliatelle. Questo formato di pasta, adesso in uso in tantissime ricette, una volta era considerato cibo dei poveri, anche se ben presto ottiene una tale popolarità che il gastronomo e cuoco romano Marco Gavio Apicio, nel quarto libro del suo trattato “De re coquinaria” descrive dettagliatamente i termini di preparazione ed i condimenti della pasta, ipotizzando che tale ricetta fosse già nota al popolo.

Nel quarto secolo a.C. a Cerveteri nella tomba della “Grotta Bella”, sono stati scoperti dei rilievi raffiguranti utensili in uso ancora oggi per la lavorazione della pasta, come la tavola di legno sulla quale si fa e si spiana la pasta col matterello e la rotella dentata per ritagliarla, che confermano la diffusione di questa pasta.

 

Si pensa siano stati gli arabi durante il loro dominio in Sicilia a far conoscere la pasta, in quanto era un ingrediente congeniale ad ogni circostanza e consentiva di avere enormi quantitativi di approvvigionamenti nelle dispense per sfamare in diverse occasioni eserciti e moltitudini di persone.

Il geografo e viaggiatore arabo Muhammad al-Idrisi nel 1154 nel suo “Il libro di Ruggero”, descrive un’area della Sicilia chiamata Trabia, dove si trovano tantissimi mulini idonei alla macinatura del grano e dal quale si ricavava una farina adatta alla preparazione di un tipo di pasta nota come “itrya”, dall’arabo, itryah, (focaccia tagliata a strisce), che veniva spedita con le navi in tutto il Mediterraneo, sia nei porti musulmani che in quelli cristiani.

Non a caso nei ricettari e nei trattati del trecento e del quattrocento si leggono ricette svolte con la tria (pasta), tanto è vero che per un lungo periodo in Sicilia era consuetudine del ceto aristocratico prevedere nelle feste e nei menu delle occasioni importanti i “maccaruna” ziti o maccheroni del fidanzato.

È comunque grazie ai liguri e alla loro estesa rete commerciale, che la pasta si diffonde in tutta la penisola. Probabilmente è con l’arrivo dei pegliesi provenienti da Tabarka (isola tunisina) nel 1736 a Carloforte in Sardegna che gli isolani iniziarono ad apprenderne le tecniche di lavorazione, della farina, dando poi vita a innumerevoli formati di pasta, come per esempio gli gnocchetti sardi, malloreddus, maccarrones de cioliriu, o, cioliri, cigiones, ciciones, macaone caidos, macarones de punzu, cravaos, e tanti altri nomi ancora.

Era, e ancora oggi resta, un indiscusso primo piatto regale della cucina sarda. Questo tipo di pasta viene preparato manualmente con semola di grano duro, acqua, sale e si modella utilizzando un crivello di giunco, cioliriu, cioliri, chiliros, ottenendo dei piccoli gnocchetti panciuti rigati e ruvidi (peculiarità che li rende ideali per insaporirsi con ogni tipo di condimento), chiamati, mallororeddus, vitellini – da, malloru, vitello.

La tecnica di preparazione è quella di un tempo, si impasta la semola con dell’acqua tiepida leggermente salata, che può essere aromatizzata con zafferano e con il composto ottenuto dopo averlo appiattito, si cavano delle stringhe che poi vengono tornite, quindi tagliate a pezzetti di poco più di due centimetri e subito dopo fatti rotolare con la pressione del pollice sul crivello o una tavoletta rigata, ottenendo così i classici gnocchetti con il dorso rigato.

La terra natale dei, malloredus, è il Campidano, poi diffusi in tutta l’Isola con i differenti nomi già citati.

Ingredientis:

per i, malloreddus: g 600 di  farina di  grano  duro di Sardegna, acqua e sale q.b., per il condimento: 3 cipollotti, 2 spicchi d’aglio, g 400 di pasta di salsiccia sarda preferibilmente  non condita con i  semi d’anice, g 200 di  polpa di  maiale battuta a coltello, g 600 di polpa di pomodori freschi ridotta a poltiglia, zafferano San Gavino, 1 foglia di lauro, lau, un ciuffo di  basilico,  vino tipo vernaccia, g 80 di pecorino  sardo stagionato grattugiato, strutto suino, olio extravergine d’oliva, zucchero comune, noce  moscata, sale e pepe di  mulinello q.b.

Approntadura:

disponi la farina setacciata a fontana su un piano di lavoro e al centro tuffaci una presa di sale e tanta acqua tiepida, quanta ne occorre per ottenere un impasto liscio e malleabile che farai riposare avvolto in luogo fresco per mezz’ora. Nel mentre affetta a velo i cipollotti e versa il ricavato dentro a un capace recipiente di terracotta, tianu mannu, insieme a una noce di strutto, un generoso giro d’olio, l’aglio che poi eliminerai e dopo cinque minuti aggiungi la salsiccia, la polpa di maiale e lascia rosolare il tutto per altri cinque minuti. Passato il tempo, bagna il condimento con mezzo bicchiere di vino e quando sfumato, unisci la polpa di pomodori, un cucchiaino di zucchero, il lauro e prosegui dolcemente la cottura per un’ora. Intanto che il sugo cuoce, prepara gli gnocchetti formando dei rotolini di pasta grossi come una matita, tagliali a pezzetti di tre centimetri e con l’aiuto dell’apposito canestro rigato, cioliriu, oppure una tavoletta rigata, forma i, maccarrones, malloreddus, gnocchetti sardi e man mano che li prepari allargali sul piano di lavoro infarinato ad asciugare. Nell’attesa che questo accada, regola di sale il sapore dell’intingolo, profumalo con una grattata di noce moscata, impreziosiscilo con una presa di zafferano e una generosa macinata di pepe. Fatto, lessa gli gnocchetti in abbondante acqua salata a bollore e appena al dente, scolali direttamente nel recipiente del sugo, aggiungi il basilico spezzettato, il formaggio e amalgama accuratamente il tutto a fiamma vivace, giusto il tempo che occorre per fare insaporire gli ingredienti. Servi i, maccarrones, immediatamente cospargendoli con un ulteriore macinata di pepe. Vino consigliato rosso: Monica di Sardegna fermo, dal sapore gradevole, morbido, vellutato e asciutto. 

***

 

Tzuppa aresti beranilli cun allu aresti e freguedda atturrada

 

L’aglio è una delle piante coltivate di origine più antica. Infatti era apprezzato sia come alimento che come pianta medicinale. Già nel 1550 a.C. il papiro di Ebers, in Egitto, elencava ben 22 impieghi terapeutici dell’aglio, nel libro dell’Esodo viene ricordato come “il bene più prezioso lasciato dagli Ebrei durante la fuga dall’Egitto”. Sempre nell’antico Egitto con l’aglio pagavano gli incaricati all’edificazione delle piramidi e gli addetti ai lavori faticosi per preservarli dalle malattie ed elevare la robustezza corporea. Anche i greci e i romani erano soliti adoperarlo come farmaco per difendersi dalle malattie epidermiche e come antidoto per espellere i vermi parassiti dell'intestino. Galeno di Pergamo e Dioscoride Pedanio, entrambi medici greci, botanici e farmacisti, menzionano l’aglio come antidoto al veleno per combattere il morso dei serpenti, terapia sostenuta anche dal poeta latino Publio Virgilio Marone nel II Idillio delle Bucoliche. 

Informazioni sull’aglio sono fornite anche da un altro personaggio dell’antichità conosciuto come il “padre della storia”, ovvero lo storico greco Erodoto, il quale ci svela che sulla piramide di Cheope vennero trovate delle scritte che indicavano le ingenti spese effettuate per l’acquisto di aglio e cipolle, in quanto servite come paga e cibo per sostentare le fatiche del lavoro durante la sua edificazione, a conferma della efficacia e delle proprietà del cibo.

Proprio per gli innumerevoli benefici che l’aglio fornisce, gli atleti, durante le Olimpiadi, prima di ogni gara mangiavano spicchi di aglio in modo da tenersi in forma.

La leggenda narra che Mercurio, nell’atto di mostrarsi ad Ulisse con le sembianze di un giovincello, dissodi un bulbo d’aglio e lo doni al mitico eroe esortandolo a farne uso per difendersi dai sortilegi della maga Circe.

Nel 1858, il chimico francese Louis Pasteur confermò dal punto di vista scientifico le proprietà dell’aglio di impedire la crescita e la sopravvivenza di microrganismi. Nel 1932 il medico e filantropo (premio Nobel per la pace 1952) Albert Schweitzer, utilizzò in Africa l’aglio come farmaco per debellare la dissenteria e combattere le malattie infettive come tifo, difterite, tubercolosi e colera. In Cina, l’impiego dell’aglio è datato oltre 3000 anni e recentemente ricerche scientifiche hanno scoperto che il bulbo ha il potere di combattere il rischio del cancro allo stomaco riducendone statisticamente il pericolo.

L’aglio, a seconda del soggetto che lo consuma, può risultare delizioso, ma anche indigesto.

Comunque sia, l’aglio tra storie, leggende e superstizioni, nel corso dei secoli è stato impiegato per eliminare tenia e parassiti intestinali, spalmato sul petto per aiutare l'espettorazione o sulle giunture per combattere artrosi ed artriti, bevuto in tisane ed elisir come tonico e depurativo, in Guascogna veniva strofinato sulla lingua dei neonati per prepararli ad affrontare la vita.

Ma è in cucina che l’aglio è vero protagonista, sterminati sono gli impieghi, fra i tanti: la soma d’ai cuneese, rustica e sublime merenda dei tempi andati. Nel Monferrato si prepara l’agliata verde Monferrina che all’aglio sposa: basilico, cuore di sedano con le foglie, alcuni aggiungono gocce di limone, olio extravergine d’oliva ligure, ultimamente si può impiegare anche olio extravergine d’oliva che viene riproposto come coltura sulle colline del Monferrato.

Un antico proverbio sardo racconta: andando ses azu e torrandu ses chipuddu, sei partito aglio, e sei tornato cipolla. Morale: non è che sei cambiato molto, anzi forse sei peggiorato. L’aglio, a seconda della zona, viene chiamato in dialetto con i seguenti nomi: allu, agliu, agiu, azu, azuin, appara, àciu, allu de carroga, porru de campu, spara. L’aglio selvatico è conosciuto anche come “pianta della salute”.

In Sardegna, è un’abitudine tradizionale raccogliere in primavera foglie, steli e bulbi dell’aglio selvatico per insaporire le insalate, le frittate, le carni e le minestre sostituendo degnamente l’utilizzo dell’aglio coltivato nell’orto. Una minestra in particolare, era quella della, tzuppa aresti beranilli cun allu aresti e freguedda atturrada, zuppa di erbe primaverili con aglio e fregolina tostata.

Ingredientis:

un bel mazzo di germogli di aglio fresco selvatico, allu de carroga, due porri selvatici, porru, un mazzo di asparagi selvatici, sparau, raccolti nella mattina, 8 carciofini selvatici, cuguzua, ardu leu, un mazzetto di erba cipollina selvatica, s’appara, chibudda camina, qualche stelo di acetosella, folla de axedu, argu, g 200 pisellini, prisucci, pisurucci, teneri già sgranati, g 200 di favette tenere primaticce, faixedda primarenga,  un mazzetto di finocchio selvatico, fenugu aresti, un mazzetto di germogli teneri di ortiche, spizzuafua, pitziadroxu, un mazzetto di bietole selvatiche, eda, un pugno di fiori di borragine, lingua arada, pizz’e cabombu, limburda, vino bianco secco, olio extravergine d’oliva, brodo vegetale, g 200 di fregolina tostata, pecorino sardo, sale e pepe  di mulinello q.b.

Approntadura:

monda, lava, asciuga alla centrifuga tutte le erbe e tienile da parte, poi elimina le parti più dure degli asparagi, le foglie esterne più coriacee e le spine dei carciofini, quindi sciacqua pure i pisellini, le favette e lasciali scolare dentro a un colino. Fatto spezzetta l’aglio e accomodalo dentro a una capace pentola di terracotta, olla manna, assieme a un generoso giro di olio, l’erba cipollina e il porro tritato, dopodiché, bagna il battuto con mezzo bicchiere di vino. Evaporato, unisci i carciofini fatti a fettine, dopo qualche minuto gli asparagi a tocchetti e lascia rosolare il fondo per una decina di minuti, quindi rabbocca la preparazione con cinque mestolate di brodo bollente. Trascorsi venti minuti, aggiungi le favette e i pisellini, dopo dieci minuti tutte le restanti verdure spezzettate e infine altri cinque mestoli colmi di brodo bollente e continua la cottura dolcemente per una mezz’oretta a recipiente coperto. Non appena questo tempo sarò passato, tuffaci dentro la fregolina e lasciala cuocere per un quarto d’ora circa, fino a quando risulterà al dente, aggiusta il sapore di sale e impreziosiscilo con una generosa macinata di pepe. Servi la zuppa ben calda dentro a delle scodelle assieme a delle fette di pane tipo, civraxiu, di Sanluri, abbrustolite e strofinate con dell’aglio, una grattugiata di pecorino, un ulteriore macinata di pepe e per ultimo un giro di olio extravergine d’oliva.

Vino consigliato: Arborea trebbiano fermo, dal sapore fresco, leggermente acidulo, armonico e asciutto.

 

 

 

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