La zuppa o minestra di vento, sa suppa o tzuppa de entu, è un piatto della memoria, molto antico, che fa parte della cucina povera lussurgese. De entu, perché molto probabilmente, a causa dei pochi ingredienti che la componevano (olio, cipolla, acqua, sale e pane), risultava essere leggera come un alito di vento. Ma l’astuzia aguzza l’ingegno, tanto è vero che sin dai tempi della guerra, per gli abitanti dell’Isola non era facile sbarcare il lunario, in quanto la fame si faceva sentire e le famiglie dovevano ingegnarsi a preparare piatti con i pochi ingredienti che possedevano.
Infatti l’approvvigionamento e le risorse disponibili in base alla stagione, erano quelle ricavate dall’orto attiguo all’abitazione, che ogni famiglia disponeva ma, il raccolto non era sempre sufficiente e di conseguenza occorreva trovare alternative. Ben poche erano le famiglie agiate che potevano permettersi di mettere mano al portafoglio per fare la spesa, quindi alla maggior parte della popolazione non rimaneva altro che andare per campi in cerca di erbe e, in base alla stagione raccogliere: cicoria, bietola, eda, tarassaco, gicoia, germogli di papavero, babajou, carciofi selvatici, cuguzzua, ardu leu, cardi selvatci, gureu de sattu, eccetera, funghi, asparagi, castagne, frutta e quant’altro commestibile. Era con tutto questo ben di Dio, donato dalla provvidenza, che insieme agli ortaggi e ai legumi quali fagioli, ceci, cicerchie e fave, mescolati a sugna, cipolle, pane e pomodori che nascevano i piatti più robusti e che le abili mani delle cuoche di casa riuscivano a realizzare. La carne, il formaggio, la pasta, il pane bianco o ingredienti di lusso si consumavano la domenica e per le grandi feste, in compenso si disponeva sempre di vino, saba, mosto d’uva, fichi secchi, pane, aglio, cipolle.
Chi aveva il pollaio con le galline e pure dei maiali, oltre alla carne si poteva permette l’uso delle uova giornalmente, i maiali venivano ingrassati con le ghiande, i fichi d’India, gli scarti dell’orto e con i pochi avanzi della cucina. Con la macellazione del maiale, si otteneva il grasso da utilizzare durante l’anno, salsicce, sartizzu, saltizzu, sattizzu, da stagionare, pancetta, guanciale, grandua, lonza, mustela o musteba, tutti prodotti impiegati come moneta di scambio per acquistarne altri. Mentre dagli scarti, si fa per dire: le orecchie, le zampe, la coda e le frattaglie si preparava il banchetto per tutte le persone che avevano collaborato, a conferma del detto che del maiale non si getta via niente. Certo, i tempi da allora sono cambiati, il progresso e gli agi hanno migliorato le abitudini di vita, comprese quelle alimentari. I giovani sono sempre più attratti dal cibo industrializzato e condizionati dai media, si stanno allontanando dal genere culinario tradizionale e di conseguenza le mamme, per ovviare a questo problema cercano di introdurre in cucina innovazione e ricerca nella trasformazione degli ingredienti, proprio per rendere i piatti più appetibili e aggiornati con i tempi.
Gli anziani, da parte loro invece sono rimasti ancora attaccati ai sapori di un tempo, in particolare alla loro, suppa, o, tzuppa de entu, zuppa di vento a base di olio, cipolla, acqua, sale, pane raffermo e a quei piatti che ricordano la loro infanzia e da appassionati che sono, continuano, magari nel loro tempo libero, raccogliere erbe di campo, funghi, asparagi e tante altre essenze ancora, riuscendo in questo modo a mantenere in vita i piatti, la cultura, le usanze, i valori e le tradizioni lussurgesi.
Ingredientis:
4 cipollotti con il verde o una bella cipolla, un mazzetto di prezzemolo, g 300 di pane raffermo o pane carasau, olio extravergine d’oliva, pecorino semi stagionato, acqua di fonte o brodo vegetale, zafferano San Gavino, sale e pepe di mulinello q.b.
Approntadura:
affetta al velo i cipollotti o la cipolla, poi tritali insieme al prezzemolo e il battuto ottenuto, fallo rosolare dolcemente in un abbondante giro di olio, poi aggiungi otto mestolate di acqua o brodo bollenti e prosegui la cottura per mezz’ora circa. Passato il tempo indicato, unisci il pane raffermo o quello carasau spezzettati, regola il sapore di sale ed impreziosiscilo con generosa macinata di pepe, una presa di zafferano e quando il pane risulterà una poltiglia allontana il recipiente dal fuoco. Servi la zuppa dentro a delle scodelle, cospargendola con una grattugiata di pecorino, un ulteriore macinata di pepe e un filo di olio.
Vino consigliato bianco: Sardegna semidano Mogoro, dal sapore morbido, sapido, fresco e asciutto.
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Gureu aresti asutt’e ollu
Carduus, il cui nome deriva dal latino volgare, cardus, è una varietà di pianta che fa parte della famiglia delle “Asteraceae” ed ha trovato il suo habitat nei paesi che si affacciano sul bacino del Mediterraneo e nei terreni erbosi delle campagne della Sardegna.
In Etiopia, si sono trovate le prime presenze del cardo, in seguito in Egitto.
Secondo una leggenda, la Madonna in fuga dalla persecuzione di Erode, in una sosta frettolosa, mentre allattava il Bambino Gesù, alcune gocce di latte caddero su delle piante di cardo, la vergine Madre nascose il piccolo Gesù sotto le sue foglie che divennero benedette.
Il cardo selvatico era molto apprezzato dagli antichi Romani e dai Greci e per lungo tempo è stato l’ortaggio che ha soddisfatto i palati più esigenti.
Il cardo era molto apprezzato nell’antica Roma, infatti all’epoca era considerato l’ortaggio preferito dal popolo, a differenza dei patrizi che lo snobbavano, probabilmente per via del suo sapore; aspro, amarognolo ed acidulo.
Questo ortaggio è presente nella mitologia e nelle leggende, quasi sempre ad avvalorare il fatto di quanto questa pianta abbia un aspetto… pungente.
Marco Gavio Apicio, il più grande gastronomo della Roma del Basso Impero, famoso per la preparazione di sontuosi banchetti e autore del trattato di cucina “De re coquinaria”, nel quale vi sono numerose ricette dedicate al cardo, tutte accompagnate con salse e spezie.
Il famoso “Caciofiore” di Columella, descritto nel trattato “De re rustica”, è ritenuto il predecessore del Pecorino Romano, prodotto nella Riserva Naturale di Decima Malafede, formaggio ricavato dalla lavorazione del latte con l’aggiunta di caglio ottenuto dal cardo selvatico, gureu aresti, gureu de sattu, per i sardi, originariamente infatti anche il pecorino “Fiore Sardo” era ottenuto in questo modo, da cui il nome.
Platone ed Ippocrate erano grandi conoscitori del cardo e lo consigliavano come rimedio contro svariate indisposizioni.
Nell’antichità fra gli ortaggi più apprezzati c’erano i cardi, più volte descritti da Plinio il Vecchio nella sua “Naturalis historia”.
I cardi erano coltivati nell’agricoltura romana e, Marco Porcio Catone, detto il Censore, nel suo “Liber de agricoltura”, annota l’importanza dell’utilizzo di questo ortaggio sia in cucina che a scopi medicamentosi.
Nelle abitudini alimentari nel Medioevo, tra gli ortaggi comuni i cardi venivano utilizzati in svariate preparazioni ed erano coltivati massicciamente in tutta Europa.
In Scozia, all’epoca del regno di Giacomo III, nel 1470, il cardo compare come matrice su alcune monete d'argento e, tra la fine del Cinquecento e gli inizi del secolo successivo, una leggenda narra che una frotta di vichinghi, pensando di cogliere di sorpresa gli scozzesi mentre dormivano, un incauto invasore con ai piedi dei semplici sandali, per via del buio pesto della notte, urtò delle piante di cardo, fundus de gureu, in sardo e urlando per il dolore causato dalle acuminate spine mandò in aria lo strategico attacco. Il fiore del cardo è anche il simbolo nazionale della Scozia e l’Ordine del cardo è il massimo riconoscimento cavalleresco scozzese.
Alla fine del XVI secolo Caterina de Medici sosteneva che tra i tanti ortaggi ritenuti afrodisiaci, il cardo era l’ortaggio che più gradiva.
Nel Settecento il cardo viene citato come ortaggio immancabile nella sontuosa “bagna cauda”, ricetta piemontese, annotata nel manuale di cucina “Il Cuoco Piemontese”.
Il cardo è un ortaggio che cresce spontaneo in tutto il Centro Italia, il Meridione e nelle isole e viene chiamato Cardo Mariano “Silibum marianum”, cardo della Madonna, o cardo Benedetto e, le innumerevoli ricette confermano l’apprezzamento e la soddisfazione di migliaia di famiglie.
In Sardegna, il cardo selvatico, gureu aresti, o, carduleu de sartu, è ritenuto uno dei più importanti ortaggi che la terra possa donare agli isolani, che lo consumano sia crudo, che cucinato come ingrediente essenziale in tantissime ricette tradizionali, come quella dei cardi selvatici sott’olio, gureu aresti asutt’e ollu, e i cardi in salamoia per cucinare la capra e la pecora nera di Arbus, tanto per citarne alcune. Superbo e prelibato è il liquore di cardi selvatici, gli stessi dai quali le api sanno trasformare un nettare a dir poco paradisiaco. Il miele di cardo è una eccellenza di tutto rispetto che ha proprietà digestive con la peculiarità di disintossicare il fegato e migliorare la circolazione sanguigna, inoltre ha un profumo che ricorda i fiori e il suo sapore raffinato si intreccia con il retrogusto delicatamente tannico, che ricorda tutte le caratteristiche allappanti dei cardi.
Ingredientis:
5 mazzi di cardi selvatici freschi di taglio, 5 spicchi aglio, 5 pomodori secchi ben dissalati, 1,5 litri di aceto di ottimo vino bianco, 1,5 litri di vino bianco secco, il succo filtrato di 5 limoni gialli non trattati, un mazzetto di timo selvatico, armidda, foglie di alloro a piacere, olio extravergine d’oliva, sale e pepe in grani q.b.
Approntadura:
come prima operazione, monda, pulisci accuratamente i cardi eliminando spine e pellicina interna delle coste, poi tagliali a bastoncini di circa 6-7 centimetri (l’importante che siano tutti della stessa lunghezza, in modo da farli entrare agevolmente dentro ai vasetti di conservazione), quindi lavali in acqua corrente fredda. Fatto, scolali direttamente dentro ad un ampio recipiente d’acciaio colmo di acqua molto fredda e il succo dei limoni (questo accorgimento serve per non fare annerire i cardi). Nel mentre che si sbianchiscono, poni una capace marmitta sul fuoco con l’aceto, il vino bianco e quando arriva al bollore unisci una manciata di sale grosso e di seguito tuffaci i cardi. Quando saranno al dente, scolali su dei panni di orbace (tessuto di lana di pecora nera di Arbus molto antico, utilizzato dai romani per confezionare i vestiti) e lasciali raffreddare tamponandoli accuratamente per asciugarli perfettamente. Trascorso il tempo occorso, sistemali dentro a dei vasetti precedentemente fatti sterilizzare assieme ai coperchi in forno caldo a 110° per 40 minuti. Ora fai sbollentare per cinque minuti sempre nella miscela di aceto e vino bianco anche i pomodori secchi e l’aglio, dopodiché scolali, asciugali accuratamente, tritali e con il ricavato condisci i cardi, inserisci anche un rametto di timo dentro ad ogni vasetto, mezzo cucchiaino di grani di pepe e a piacere delle foglie di alloro. Arrivati a questo punto, colma i vasetti con dell’olio e, prima di chiuderli attendi almeno un’ora, in modo da colmarli del tutto con altro olio e posiziona su ognuno il classico pressello. Solo allora, chiudili ermeticamente, etichettali e riponili in luogo buio e asciutto per almeno un mese prima di consumarli. I cardi così preparati, sono ottimi serviti come antipasto o come contorno con carne di pecora, di capra e altro ancora.
Vermentino di Sardegna doc, di piacevole sapidità e gradevole freschezza accompagnate da note fruttate.