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L'ISOLA IN CUCINA di Roberto Loddi de Santu ‘Engiu Murriabi – Ricette Maggio 2025

 Pisu fa cun fragu bellu antigóriu de fenugheddu aresti

Il finocchietto selvatico, originario del bacino mediterraneo è una pianta aromatica che appartiene alla famiglia delle Ombrellifere e il cui nome botanico è, Foeniculum Vulgare.

Del finocchietto si hanno notizie vetuste di circa tremila anni, pianta della quale gli Assiri-Babilonesi e gli atleti greci consumavano i semi per mantenere stabile la massa corporea. La stessa usanza la praticavano i soldati e i gladiatori dell’antica Roma per aumentare la forza fisica e il valore agonistico nei combattimenti, nelle loro convinzioni inoltre ritenevano che il finocchietto potesse migliorare la vista.

 

Pianta aromatica molto utilizzata nella tradizione del Montefeltro nelle Marche, in tutta l’area Mediterranea, nel centro Italia, sud, Sicilia (famosa è la pasta con le sarde al finocchietto, che è una vera prelibatezza) e in Sardegna, dove cresce nei luoghi aridi ed assolati, nei terreni incolti, nelle scarpate sassose e ai margini delle strade.

Infatti, anche in Sardegna il finocchietto cresce dappertutto ed è molto impiegato per aromatizzare tantissime preparazioni della cucina isolana sin da tempi lontani, perché la sua fragranza si sposa bene con carne e pesce, viene impiegato per aromatizzare conserve, olive in salamoia, sott’oli, sottaceti e con fave lesse, faa sarda, fae ribisari, faa a sa sciutta, panadas, focacce di agnello con favette e altri ingredienti e tanto altro ancora.  

Del finocchietto in sostanza si utilizzano tutte le parti, sia fresche, sia essiccate, anche se in realtà vegeta tutto l’anno.

Il suo profumo ricorda quello del finocchio, piacevole e tenue, di sapore bilanciato tra l’acre e il soave e ha i gradevoli sentori di freschezza delle aromatiche appena colte.

Il suo aroma era in grado di mascherare e coprire l’odore della carne bruciata e quindi di purificare idealmente le anime dei condannati.

Gli antichi romani amavano il vino buono (si fa per dire), cui attribuivano anche delle capacità medicamentose. Le migliori annate erano sempre presenti sulle tavole dei patrizi, mentre la plebe si doveva accontentare di poche e sporadiche bevute a poco prezzo ai, thermopolia, le vinerie dell’epoca, dove l’oste “marpione” prima di mescere il vino, offriva loro garbatamente dei rametti di finocchietto selvatico. Questo stratagemma aveva il potere di nascondere le imperfezioni della bassa qualità del vino, ingannando così il palato degli ignari clienti, forse da lì è nato il termine “infinocchiare”. Poi c’erano i romani frequentatori abituali di, tabernae, dove venivano servite ciotole di semi di finocchio insieme al, mulsum, l’aperitivo di allora, il quale era aromatizzato con miele, petali di rose e violette.

Lo stesso espediente di servire agli avventori delle osterie pane al finocchio o semi di finocchio da masticare durante la consumazione del vino era usato anche nel Settecento. In verità l’aroma potente serviva a mascherare le caratteristiche di un vino “brusco” o con altri difetti organolettici.

Le virtù del finocchietto sono sopraffine, tanto da essere decantate da Plinio che aveva osservato come i serpenti, nel momento del cambiamento della pelle, si cibassero solo di finocchio, i cui principi curativi gli avrebbero rafforzato la vista.

Il finocchietto, “marathon” per i greci, che con questo nome chiamarono l’estesa pianura di Maratona, luogo in cui il finocchio selvatico cresceva spontaneo.

Il finocchietto è presente anche nella mitologia, Prometeo infatti con un sotterfugio riuscì a sottrarre il fuoco a Zeus, il quale celò una scintilla in mezzo a un mazzo di finocchietto e lo diede in dono agli uomini, i quali lo coltivarono e lo impiegarono poi per aromatizzare innumerevoli pietanze.

Inoltre, secondo una legenda i semi di finocchio e vino avevano il potere di accendere la libido di Venere.

Ippocrate (V-IV secolo a. C.), considerato il padre della medicina sosteneva: “Se il latte non c’è (la puerpera, donna che ha appena partorito) beva anche il succo del finocchio”.

I romani lo essiccavano e lo mettevano nelle anfore con strati di fichi secchi, olive, sapa, saba,  e erbe commestibili sotto aceto.

In Sardegna, le foglie verdi appena colte insaporiscono piatti tradizionali a base di lumache, di pesce e, in particolare, arricchisce insalate e minestre, abbinato a pomodori secchi impreziosiscono l’agnello con patate in casseruola, cassoba, cassolla, cassoba crutza, o, longa, e con i semi essiccati esalta la salsiccia, sattitzu, fresca e secca, ma anche formaggi, pane e dolci. Tanti piatti ancora beneficiano del prezioso aroma di questa meravigliosa pianta.

Il finocchietto è consigliato per insaporire in particolare carni grasse, pesce alla griglia e diventa un condimento speciale se associato al sale marino, quello delle saline di Cagliari è perfetto,

Ingredientis:

g 500 di cicerchie di Settimo San Pietro, bicarbonato, 1 bella cipolla rossa di Zeppara (vasta area prolifera della Marmilla), 3 spicchi d’aglio sardo dal bel colore violaceo e dagli spicchi piccoli, piticheddus , 4 pomodori secchi ben dissalati, g 60 di guanciale, grandua, grandula, ridotta a poltiglia, un bel mazzetto di tenere foglie di finocchietto selvatico, fenugheddu  aresti, vino bianco secco, brodo, pecorino sardo stagionato, olio extravergine d’oliva, pane, sale e pepe macinato al momento q.b.

Approntadura:

due giorni prima poni ad ammollare le cicerchie in abbondante acqua tiepida con un cucchiaino di bicarbonato. Trascorso questo tempo, lavale sotto un getto di acqua corrente, mettile a scolare e tienile da parte. Nel mentre prepara un battuto con la cipolla, i pomodori secchi, l’aglio e il ricavato tuffalo dentro a una pentola di terracotta dalle pareti alte, olla manna, insieme a un generoso giro di olio, la poltiglia di guanciale e dopo cinque minuti di rosolatura bagna il soffritto con mezzo bicchiere di vino. Evaporato, unisci le cicerchie e il finocchietto spezzettato meno un ciuffo per la decorazione finale dei piatti, quindi dai una mescolata e copri il tutto con del brodo vegetale, con almeno quattro dita sopra i legumi. Coperchia il recipiente e lascia cuocere dolcemente per un’ora e mezza, poi regola il sapore di sale e impreziosiscilo con una lodevole macinata di pepe. Prima di servila scodella la zuppa dentro a delle ciotole insieme a delle fette di pane tipo, civraxiu, abbrustolite e leggermente strofinate d’aglio, una grattugiata di formaggio, un ciuffo di finocchietto e per ultimo un filo di olio.

Vino consigliato: rosso, Arborea Sangiovese, dal sapore asciutto, morbido, fresco e aromatico.

 

***

 

Panada de assemini cun petza de angioni e prisucci

 

Fin dall’antichità i piselli (Pisun Savitum) sono stati le leguminose che hanno dato sostentamento all’intera umanità e con i fagioli sono stati gli alimenti statisticamente più consumati.

I piselli erano già conosciuti prima dell’era cristiana e germogliavano allo stato selvatico, diversamente da quelli coltivati originari dalla Cina anche se i Greci e i Romani li coltivano da tempo, infatti proprio loro li introdussero in Europa e durante il Medioevo venivano utilizzati come paga giornaliera, criterio usato anche dagli egizi per pagare gli schiavi durante la costruzione delle piramidi, in questo caso il salario era aglio e cipolle.

Il botanico greco Teofrasto insieme a Plinio e Columella, citano i piselli tra le specie “elatius ed arvense”, gli stessi che i Romani conoscevano e coltivavano, come documentato da alcuni resti ritrovati nel corso di scavi a Pompei.

Marco Gavio Apicio, gastronomo, cuoco e scrittore romano nel suo trattato “De re coquinaria” riporta una ricetta: “Concicla alla maniera di Apicio ovvero zuppa di piselli dell'Antica Roma”, a base di piselli secchi, carne di maiale, spezie, erbe aromatiche e garum.

Marco Terenzio Varrone, autore del “De re rustica”, decanta la sua la zuppa di piselli e lucanica o con polpette di carne suina.

Lucio Aurelio Commodo imperatore romano, descrive una ricetta a base di piselli: “Cuoci i piselli. Quando avranno schiumato, pesta pepe, ligustico, aneto, cipolla secca, bagna con liquame, emulsiona con vino e liquame. Metti in tegame affinché si imbeva. Poi sciogli 4 uova, metti i piselli, mescola, metti in pentola sul fuoco, affinché si rapprenda, e servi”. 

I piselli ebbero il loro maggior successo verso la fine del Rinascimento e in Francia era il cibo preferito dai nobili, tanto è vero che le nobildonne usavano i fiori per abbellire i capelli e arricchire i mazzolini di fiori.

Nel Medioevo, in cucina si utilizzavano soprattutto i piselli secchi per realizzare vellutate o creme come la “cretonnée di piselli”, la crema veniva preparata facendo lessare i piselli precedentemente tenuti in ammollo per mezza giornata, a parte si faceva bollire del latte, al quale si aggiungeva dello zenzero e dello zafferano, una volta intiepidito si univano dei tuorli d’uovo e quindi si mescolavano con la minestra di piselli alla quale venivano aggiunti dei piccoli bocconcini di carne appena fatti rosolare nel grasso.

In Italia intorno al 1450, Maestro Martino da Como, propone una ricetta di piselli che resta ancora oggi un classico della nostra cucina, cioè la versione dei piselli con prosciutto o pancetta.

Il Re Sole li apprezzava moltissimo e Madame de Maintenon, sua sposa morganatica, scriveva al cardinale di Noailles nel 1696 come riporta il Laorusse Gastronomique: “la vicenda dei piselli dura ancora, l’impazienza di mangiarne, il piacere di averne mangiato e la gioia di mangiarne di nuovo”.

Pellegrino Artusi nel suo manuale pratico per le famiglie, “La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene” (1881), descrive la ricetta numero 35: “zuppa di purè di piselli, di grasso”, a base di piselli, odori dell’orto, sugo d’arrosto e crostini di pane fritti nel burro.

I piselli si possono trovare freschi in commercio in primavera, da maggio a luglio.

In Sardegna, da secoli si coltivano legumi, oggi è la sesta regione in Italia per produzione e le numerose ricette si perdono nella notte dei tempi. Tra le tante, mi viene in mente una deliziosa minestra di piselli che cucinava mia mamma: minestra di primavera, ricetta a base di piselli, asparagi selvatici, favette tenere, carciofi e finocchietto selvatico, una vera sinfonia di profumi e sapori.

Sempre in Sardegna è famosa, sa panada de assemini cun petza de angioni e prisucci o pisurucci, lo scrigno di pasta che all’interno contiene carne di agnello, patate, pomodori secchi, aglio, prezzemolo e piselli, piatto tipico conosciuto in tutta l'isola. Varie sono le ricette tradizionali, tra le quali si ricordano oltre a quelle cucinate ad Assemini, anche quelle di Cuglieri e Oschiri.

Ingredientis:

per lo scrigno: g 500 di semola di grano duro sardo, g 100 di strutto, acqua tiepida salata q.b., per il ripieno: g 800 di spezzatino di spalla d’agnello, 2 spicchi di aglio, 3 pomodori secchi ben dissalati, un mazzolino di prezzemolo, un ciuffo di timo, g 250 di patate fatte a rondelle, g 250 di piselli freschi già sgranati, vino bianco secco, olio extravergine d’oliva, sale e pepe di mulinello q.b.

Approntadura:

per prima cosa, disponi la semola a fontana sul ripiano della madia e al centro tuffaci lo strutto a fiocchi a temperatura ambiente, poi unisci tanta acqua, quanta ne occorre per ottenere un impasto liscio e malleabile. Fatto, raccoglilo a palla, avvolgilo in un panno da cucina e ponilo in frigorifero per un’ora. Nel mentre, fai sbollentare i piselli e le patate per venti minuti, trita i pomodori secchi con il prezzemolo, l’aglio e il timo, quindi con il battuto ottenuto insaporisci la carne insieme a un giro di olio, dopodiché unisci le patate, i piselli, una presa di sale, una generosa macinata di pepe e mescola bene il ripieno per farlo insaporire armonicamente. Appena sarà trascorso il tempo di riposo della pasta, rimaneggiala formando due dischi spessi almeno mezzo centimetro, uno dei quali deve risultare più grande dell’altro. Terminata questa operazione, adagia il disco più grande su uno stampo a cerniera foderato con carta oleata, facendo in modo che la sfoglia aderisca uniformemente alla teglia e che fuoriesca tutt’intorno. Solo allora fai combaciare la pasta formando delle pieghe (plissettare, pieghettare), che salderai fra loro comprimendole e allo stesso tempo le darai la forma di uno scrigno, che andrai a riempire con l’impasto tenuto da parte e lo farai assestare per poi coprirlo con l’altro disco più piccolo. Ora, con l’aiuto delle dita unisci le due sfoglie arrotolando i bordi fra loro, formando così il classico cordone idoneo a sigillarle. Con i ritagli di pasta avanzati, forma dei decori, inumidisci la superficie della torta e applicali a tuo piacere. Arrivati a questo punto, cuoci, sa panada, in forno già caldo a 170° per circa un’ora e mezza, fino a quando la pasta sarà diventata di un bel colore dorato, ma sarà cotta anche quando scuotendola all’interno si sentiranno gli ingredienti spostarsi. Una volta pronta, sfornala e prima di servila lasciala intiepidire. Vino consigliato: Cannonau Istiga di Arbus, dal sapore asciutto e morbido, caldo, con ottima struttura, persistente, giustamente tannico e armonico, secco, dal tipico retrogusto am

 

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