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L'ISOLA IN CUCINA di Roberto Loddi de Santu ‘Engiu Murriabi – Ricette Giugno 2025

 Conillu a succhittu o a cassolla cun tappara

 

La pianta del cappero “Capparis spinosa”, è un verdissimo arboscello che cresce naturalmente in tutto il bacino del Mediterraneo, predilige i terreni aridi e drenati, i muri di pietra secchi, ed è impiegato sia a scopo alimentare che curativo.

I capperi si raccolgono dal mese di aprile fino a luglio, poi vengono conservati in barili sotto sale, sott’aceto e sott’olio.

 

Il filosofo Aristotele, una delle menti più brillanti dell’antica Grecia e Dioscoride Pedanio, botanico e medico vissuto nella Roma imperiale ai tempi di Nerone, citano i capperi come ingrediente terapeutico e trattamento di bellezza.

I capperi sono abitualmente utilizzati per insaporite una infinità di piatti, i suoi frutti stuzzicanti sono piacevoli, fragranti, dal gusto intrigante, ideale per gli aperitivi.

Grazie alla specificità del terreno, a una moderata ventilazione e all’assenza quasi totale di umidità il cappero, nel gruppo insulare del Mar Tirreno delle isole Eolie e l’Isola di Pantelleria con una produzione annua di oltre il novanta per cento copre il fabbisogno nazionale e prospera da tempo talmente lontano che se ne è persa la memoria.

I siciliani sono i più grandi esperti e conoscitori di capperi, a loro vantaggio hanno sicuramente il sole e le condizioni favorevoli alla fruttificazione.

Intorno al 1850, anche in Sardegna e precisamente a Selargius (paese di circa 28.500 abitanti in provincia di Cagliari), si cominciò a coltivare i capperi e grazie ai rigogliosi raccolti, si creò l’occasione per dare lavoro e reddito a tantissime famiglie del posto. 

Nel periodo di raccolta le donne del paese, andavano nei campi, comperavano i capperi, dopo averli messi in capaci cesti confezionati con i giunchi, crobis mannas, corbas, crobes, corbis, corbeddus, canistus, corbulas, li trasportavano mettendoli sulla la testa, adagiando sopra una sorta di cordone preparato con uno scialle arrotolato per attutire il peso della cesta e a piedi si incamminavano verso le piazze dei mercati ambulanti cagliaritani per venderli o barattarli con altre derrate.

I contadini invece li commercializzavano da un paese all’altro in tutta la Sardegna trasportandoli con il carro trainato dai cavalli, dando così l’opportunità a tutti gli isolani di conoscere le peculiarità di questo singolare frutto, dando così l’occasione per poter insaporire tantissimi piatti della tradizione come ad esempio, su conillu a succhittu o a cassolla cun tappara, il coniglio in casseruola con i capperi, ricetta cucinata in tutta l’area del medio Campidano, il cui nome deriva dal succulento intingolo che si forma a fine cottura.

Altrettante ricette famose sono impreziosite con i capperi, come l’antico vitello tonnato alla piemontese, la salsa del Papa, da non dimenticare la salsa verde genovese degna compagna del pesce lesso e il sontuoso “cappon magro”. Tanto per citarne alcune. 

Vedere un campo di capperi in fiore (bocciolo della pianta), è un’occasione meravigliosa che incanta lo sguardo di chi ha la fortuna di cogliere l’esplosione di colori.

Ingredientis:

1coniglio ruspante di 1,5 kg tagliato a pezzi regolari, g 60 di guanciale sardo - grandua - battuto a coltello, 2 spicchi d’aglio, 2 cucchiai di aghi di rosmarino, 4 pomodori secchi ben dissalati, un mazzetto di prezzemolo, 1 carora, 1 cipolla di Zeppara (rigogliosa area della  Marmilla), un ciuffo di timo sardo, armidda, vino  bianco  secco, 3 foglie di lauro, g 60 di  capperi di Selargius (tappara o tapparono) ben dissalati, aceto di ottimo vino bianco per la marinata, brodo vegetale, olio extravergine d’oliva, sale e pepe di mulinello q.b.

Approntadura:

priva la carne dalle eventuali parti grasse e le piccole ossicine, poi ponila dentro a una conca di terracotta, scivedda, xivedda, concheddu, con abbondante acqua e aceto in parti uguali e lasciala marinare un’abbondante ora. Passato il tempo, scola i pezzi di coniglio dentro a un capace recipiente insieme al guanciale, un bel giro d’olio e lascialo rosolare fino a quando non avrà preso un bel colore dorato. Fatto, aggiungi l’aglio schiacciato meno uno spicchio, il rosmarino tritato finemente con i pomodori secchi, il prezzemolo, la carota e la cipolla, quindi bagna la preparazione con un bicchiere di vino. Evaporato, unisci le foglie di lauro, i capperi lavati e strizzati, il timo sgranato, una mestolata di brodo bollente e prosegui la cottura dolcemente per tre quarti ‘ora, bagnando la pietanza di tanto in tanto con altro brodo bollente per evitare che il fondo di cottura si asciughi. Prima del termine della cottura, regola il sapore di sale e impreziosiscilo con una generosa macinata di pepe. Servi il coniglio assieme al suo sughetto con fette di pane tipo, coccoi, abbrustolite e strofinate con l’aglio rimasto.

Vino consigliato: Carignano rosato del Sulcis, dal sapore armonico e asciutto.

 

***

 

Frisciura’e carrisappia o carrisàpida de angioni 

 

Le animelle per i sardi sono un ingrediente presente nella preparazione di diversi piatti tipici e poveri della gastronomia isolana. Per animelle si intendono le ghiandole salivari, carrisappia, o, carrisàpida, dei bovini e ovini e sono considerate parte delle frattaglie, ma per l’alto contenuto di colesterolo non è consigliato il consumo abituale, nonostante il suo sapore ricordi quello del latte e la tentazione dell’utilizzo in cucina induca in tentazione.

Marco Gavio Apicio, ricco e gaudente gastronomo del I secolo d.C., amante della buona tavola, autore del trattato “De re coquinaria”, ideatore di tante ricette con le frattaglie e in particolare quella che noi oggi conosciamo come il, foie grass.

Durante il periodo imperiale nell’urbe, dopo l’abrogazione delle normative sull’abbattimento del bestiame, iniziò la libera macellazione, con la vendita di tutte le parti sezionate degli animali, quelle più pregiate considerate “bene di lusso” erano destinate alla clientela benestante, mentre le frattaglie a quella meno agiata.  Nonostante la qualità inferiore di certe parti dell’animale erano comunque apprezzate, soprattutto le frattaglie degli ovini e caprini e, come risulta nell’Editto di Diocleziano, il prezzo di questi ultimi era pressoché equivalente. Solo per l’agnello non c’erano restrizioni sul consumo, mentre per il capretto con la legge Licinia era vietato il consumo.

In periodo medievale agli animali veniva prestata particolare attenzione nell’alimentazione, infatti venivano nutriti con i frutti della terra e una volta macellati, ogni loro parte era commestibile, frattaglie comprese e non sprecavano nemmeno il sangue, perché veniva utilizzato per impreziosire intingoli e arrosti.

Nella cucina dell’Ottocento si trovano ricette a base di frattaglie nei libri di Giovanni Vialardi e Francesco Chapusot e a corte arriva la “finanziera”, naturalmente con una generosa piallata di tartufo, ma la prima documentazione del piatto risale a Maestro Martino, descritta nel suo “Libro de Arte Coquinaria” nel secolo XV.

Giovanni Nelli, nel suo trattato di gastronomia “Il re dei cuochi” edito nel 1880, riporta la ricetta numero 428 della “frittura alla genovese” a base di animelle, cervello, schienali, chiare d’uova, erbe fini e “fagiuoletti verdi fritti”.

Pellegrino Artusi, autore del manuale “La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene”, sosteneva che: “quando alle rigaglie di pollo si uniscono i colli, le teste e le zampe, diventa un piatto da famiglia che tutti conoscono” e ne descrive la ricetta a par suo con il titolo: “Umido di rigaglie di pollo col sedano”.

Le frattaglie, conosciute anche come “quinto quarto”, sono ingredienti di tradizione popolare e contadina, possono essere di vitello, di maiale, di ovini, di caprini e rigaglie o regaglie (uova non nate, cuore, fegato, cresta, stomaco, ventriglio e bargigli) di animali dell’aia. Fanno sempre parte del quinto quarto le frattaglie: animelle, cioè ghiandole salivari, carrisappia, o, carrisàpida, in dialetto sardo, pancreas, rigaglie, milza, fegato, cuore, polmone, rognone, cervello, filoni, budella, omento o rete, zampetti, cotiche o cotenne e intestino tenue; inoltre il quinto quarto raggruppa  gli scarti, le parti meno nobili degli animali, ingredienti di chi non poteva permettersi di meglio: lingua, mammelle, testina (cute della testa), testicoli, trippe, lingua, coda, osso, midollo, diaframma e altre parti ancora.

In Italia con il quinto quarto si preparano innumerevoli piatti, per citarne alcuni: la,  pajata  romanesca, la finanziera piemontese, la treccia e la coratella, sa tratalia, e, sa codra, uscellè, uxellè, longusu, peixeddus a scabecciu, alla sarda cucinate in tanti modi, gli, gnummareddi, o, turcinelli, pugliesi, la coda alla vaccinara laziale, il cibreo e il lampredotto alla fiorentina, il fegato alla veneziana, a quarume e il pani câ meusa, alla palermitana, le, mazzarelle taramane, u’zuffritt, napoletano, il, morzeddhu, di Catanzaro e tante altre ancora sono le ricette che arricchiscono il panorama gastronomico italiano.

In Sardegna la cucina agropastorale con le frattaglie degli animali, vanta tantissimi piatti, che risalgono a tempi remoti, infatti, nel periodo del Neolitico dal 5000 al 4000 a.C. il tema dell’alimentazione è già in evidenza, oltre alla scoperta della lavorazione del latte, con il quale si producono formaggi e la macellazione degli animali si scopre anche quanto siano buone le preparazioni a base di frattaglie. 

La tradizione dell’uso delle frattaglie nasce dalla necessità, dalla parsimonia del recupero e dal buon uso di non buttare cibo.

Tra le svariate ricette si distinguono, sa trattalia, e, sa codra, s’uscellè, o, uxellè, sa frisciura, a base di interiora d’agnello: fegato, polmone, cuore, lardo, pane e le budelline, ricette ricche di storia, tramandate da generazioni.

In Sardegna era compito degli uomini, alla mattina del giorno dopo la macellazione degli animali, fare il giro delle macellerie, panghe, loggette alla ricerca delle frattaglie migliori e, ancora oggi, con consolidata maestria gli stessi si occupano anche di far arrostire la carne allo spiedo. Sempre in Sardegna, nella cucina agropastorale, la coratella si prepara anche in fricassea, con tuorli d’uovo, succo di limone e prezzemolo.

Ingredientis:

g 600 di animelle e g 400 di coratella di agnello, g 600 di ottimo aceto di vino bianco, 3 cipollotti, 3 pomodori secchi ben dissalati, un mazzetto di prezzemolo, un ciuffo di timo e uno di maggiorana, 3 spicchi di aglio, g 300 di olive sarde in salamoia, 2 foglie di lauro, g 250 di vino tipo vernaccia invecchiata, brodo vegetale, olio extravergine d’oliva, pane raffermo o pane carasau, sale e pepe di mulinello q.b.

Approntadura:

il compito più importante è quello di pulire accuratamente le frattaglie, di sgrassarle e metterle prima a bagno nell’aceto, dopo lavarle sotto il getto di acqua fresca corrente. Terminata questa operazione, tagliale a pezzi regolari, poi asciuga il tutto con della carta assorbente da cucina e poni il ricavato dentro a un recipiente di vetro. Fatto, prepara un battuto con i cipollotti, i pomodori secchi, il prezzemolo, il timo, la maggiorana, uno spicchio di aglio e il trito ottenuto fallo rosolare in un ampio tegame di terracotta, càccau, detta, caccavella, sattaina, sciacuera, strexiu, cassarolla, grassanera, assieme a un generoso giro di olio, le olive, il lauro, le frattaglie tenute da parte e il vino. Evaporato, regola il sapore di sale, impreziosiscilo con una lodevole macinata di pepe e prosegui la cottura dolcemente per un’abbondante ora, mescolando e aggiungendo ogni tanto del brodo bollente, onde evitare che l’intingolo si asciughi troppo. Una volta appurato che le frattaglie siano tenere, servile immediatamente con parte del suo sughetto dentro a delle ciotole, sulle quali avrai adagiato delle fette di pane tipo, civraxiu, abbrustolite e strofinate con l’aglio rimasto, oppure con delle sfoglie di pane carasau, anch’esse profumate con l’aglio.

Vino consigliato: Monica di Sardegna fermo, dal sapore gradevole, morbido, vellutato e asciutto.

 

 

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