Sos andarinos o zirellus de Usini cun ghisadu a sa pastora
In Sardegna esistono ancora donne dedite eroicamente al culto dell’arte culinaria, a custodia e salvaguardia delle tradizioni, anche se con il passare del tempo ne rimangono sempre meno. Oggi, le donne di casa, ancora attaccate alle usanze, cercano di trasmetterle alle nuove generazioni, con molta passione attraverso sagre paesane, appuntamenti caratteristici e rassegne speciali, occasioni per affermare il valore dell’arte della cucina antica e del mondo enogastronomico isolano, dove la competenza e il sacrificio sono ingredienti imprescindibili.
Un esempio di questa resistenza è Usini, un paese tipico del Logudoro di 4.250 abitanti circa, poco distante da Sassari, conosciuto anche per sos andarinos, o, zirellus, formato di pasta casalinga molto antica della cucina rurale.
Sos andarinos, zirellus, girellus, per via del movimento delle mani nell’esecuzione che ricorda il girello dei bambini che cominciano a gattonare, sono un formato di pasta molto antico a base di semola di grano duro sardo, trigu saldu, e si preparano esclusivamente a mano.
Fin dai tempi delle dominazioni genovesi e pisane, la Sardegna con i suoi pastifici era ritenuta un fiore all’occhiello nel settore e al passo con i tempi, tant’è vero che a Napoli la pasta veniva chiamata “pasta di Cagliari”, eccellenza che mantenne ininterrottamente fino all’occupazione degli iberici. La pasta veniva esportata nelle città portuali di Pisa, Genova e nella Catalogna, ne è conferma la presenza anche a Trisobbio, Tërseubi, in piemontese, paesino dell’ovadese in provincia di Alessandria, situato nell'Alto Monferrato e anche capoluogo dell'unione dei Castelli tra l'Orba e la Bormida, ai confini con la Liguria, dove tuttora si cucinano gli “andarini”, formato di pasta simile alle trofie della vicina Liguria, che si cucinano in brodo di gallina o di cappone durante il periodo dei festeggiamenti natalizi e pasquali.
Da testimonianze scritte risultano notizie di, andarinos, già nel XVII secolo e la prima documentazione la fornisce il canonico Martin Carrillo, detto il “Visitatore”, deputato del Regno e Rettore dell'Università di Saragozza, noto per la sua onestà integerrima, incaricato dal re Filippo III di Spagna allo scopo di relazionare sull’andamento amministrativo del Regno nell’Isola. Nei giorni in cui svolgeva le sue indagini fu invitato a un banchetto ufficiale offerto dal dottor Antiogo Marcello rettore di Mamoiada, che registra nella lista delle vivande, fra i vari servizi, sos andarinos, los andarins, in catalano.
Nei primi anni del XVIII secolo, fu il padre domenicano Jean-Baptiste Labat o semplicemente Père Labat (religioso, botanico ed esploratore francese, ingegnere, militare, etnografo e scrittore), a segnalare, sos andarinos, come un formato di pasta casalinga confezionata manualmente dalle massaie dell’Isola.
Oggi come allora la ricetta è sempre la stessa. Abili mani, con movimenti sapienti assottigliano dei tocchetti di pasta, dando loro una forma elicoidale che, come già detto, somigliano e ricordano le trofie liguri.
Le donne del luogo, vestite per le grandi occasioni con la gonna d’orbace (genere di tessuto già in uso per confezionare il vestiario dei soldati romani) e l’immancabile grembiule bianco, pannéllu, pannéddhu, preparano in segno di amorevolezza come una volta, sos andarinos: un impasto di semola di grano duro sardo, acqua tiepida e sale, stando sedute attorno a - sa mesa - primordiale tavolo in legno, quello che utilizzavano un tempo per impastare il pane, usando una tavoletta o un vetrino rigati.
In passato si ricorreva all’aiuto, de su chiliriu, xibiru, crivello fatto di giunchi o di asfodelo a forma rotonda. sos andarinos, andarinus, zirellus, una volta preparati, si facevano e tuttora si fanno asciugare all’aria aperta o al sole, allargati nelle, canistreddhas, ampi canestri, utilizzati pure dai panettieri per accomodarci il pane.
Anticamente era la pasta della domenica e delle feste e, sos andarinos, venivano conditi con, su ghisau - ghisadu, il classico sugo della tradizione sarda, preparato con carne di maiale o pecora, ma anche con carne di agnello, di manzo o con gli animali dell’aia, con l’aggiunta di cipolle o cipollotti, odori dell’orto, pomodori freschi o secchi ed erbe aromatiche, zafferano, il tutto condito con una bella spolverata di pecorino stagionato e pepe macinato al momento.
Ogni anno, come consuetudine, alla prima settimana di luglio, Usini dedica a, sos andarinos, un appuntamento gastronomico orgogliosamente all’insegna della tradizione contadina.
Ingredientis:
per la pasta: g 400 di semola di grano duro sardo, acqua e sale q.b. per l’intingolo: g 400 di, purpuzza, carne di maiale tagliuzzata o macinata grossolanamente, usata per preparare la salsiccia sarda, g 400 di polpa di pomodori ridotta a poltiglia, 4 germogli di cipolla, pillonazzu, 2 spicchi d’aglio, un ciuffo di armiddha, timo sardo, un ciuffo di rosmarino, tzippiri, zippiri, zipiri, spiccu, ispiccu, sispiccu, rosi marini, romasinu, rumasinu ,2 foglie tenere di alloro, bacche di ginepro, zafferano San Gavino, g 80 di pecorino sardo stagionato, g 40 di guanciale, grandua, vino bianco secco tipo vermentino, aceto di vino bianco, brodo, olio extravergine d’oliva, sale e pepe di mulinello q.b.
Approntadura:
qualche giorno prima dell’esecuzione della ricetta, disponi la semola a fontana sul ripiano della madia, al centro tuffaci una presa di sale e tanta acqua quanta ne occorre per ottenere un impasto di giusta consistenza, liscio e malleabile, che lascerai riposare avvolto in frigorifero per un’ora. Trascorso questo tempo, preleva dei tocchetti di pasta e rendila sottile come un maccherone (spaghetto grosso), ricava dei cilindretti regolari di sei - otto centimetri circa e con la pressione del pollice di una mano allungali, poi premili su una tavoletta o una superficie di vetro rigati, facendoli roteare in senso elicoidale, in modo da creare dei fusilli a forma svasata, che lascerai asciugare su un vassoio insemolato al sole per un giorno o due. Nel mentre che la pasta si asciuga, il giorno prima dell’utilizzo, metti a marinare la carne (nella tradizione di Usini nel condimento è prevista oltre alla carne di maiale, una parte di quella di pecora e l’intingolo prende il nome di, ghisadu) in un recipiente d’acciaio insieme a una parte di aceto e due di vino, alcuni grani di pepe e bacche di ginepro pestati, una presa di sale grosso, i germogli di cipolla, le foglie di alloro, il rosmarino, il timo e l’aglio. Il giorno dopo, estrai la carne dalla marinata e tienila da parte, poi preleva gli odori e tritali molto finemente, accomoda il battuto ottenuto dentro a un capace recipiente di terracotta, tiànu mannu, sartàina, insieme a un generoso giro d’olio, il guanciale battuto a coltello, subito dopo fallo rosolare in questo grasso e irroralo con una spruzzata di vino. Quando evaporato, aggiungi la, purpuzza, qualche minuto dopo la polpa di pomodori e prosegui la cottura dolcemente bagnando l’intingolo con del brodo vegetale bollente, qualora tendesse ad asciugarsi e qualche minuto prima del termine, regola il sapore di sale, impreziosiscilo con una macinata di pepe e una presa di zafferano. Terminata questa operazione, lessa la pasta preparata nei giorni precedenti in abbondante acqua salata a bollore, appena al dente, scolala direttamente dentro al recipiente del condimento. Padella velocemente il tutto a fiamma vivace, giusto il tempo che occorre per fare insaporire gli ingredienti. Servi, sos andarinos, immediatamente, incasaus, cosparsi con il formaggio e una macinata di pepe.
Vino consigliato: Alghero cagnulari rosso, dal sapore asciutto, armonico e leggermente tannico.
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Tallutzas de coxia a s’antiga
Is tallutzas de coxia a s’antiga, è un formato di pasta preparato con l’impasto lievitato residuo dalla panificazione settimanale, ricavato con dei piccoli pezzetti di pasta delle dimensioni una nocciola, appiattiti poi con la pressione del palmo della mano sulla coscia, che ricordano le orecchiette pugliesi, le orecchie di frate, origas de padre, e anche i, curzettu stiò, croxetti, di origini liguri ma anche un piatto tipico di Carloforte in Sardegna.
In Liguria si hanno tracce di questa pasta dalla fine del Duecento così come in Provenza è conosciuta con il nome di “croset”.
Giovanni Rebora (1932-2007), docente, scrittore e grande esperto di storia e cultura dell'alimentazione (personalmente conosciuto durante un master di cucina organizzato dalla piccola tavola dello Slow Food di Alessandria, della quale facevo parte), nel libro “La civiltà della forchetta”, riporta l’itinerario di questa originale pasta. Attualmente è ancora in uso in tante aree della Liguria (dove li preparano in circostanze di matrimoni, dedicando agli sposi i corzetti con le loro iniziali intagliate nello stampo che li timbra), a Carloforte e nei paesi confinanti con il Piemonte.
In Sardegna, is tallutzas, sono di origine antica e nella cultura contadina hanno mantenuto sia la forma che la preparazione manuale in uso ancora oggi. Is tallutzas, ricordano il procedimento delle lasagne “de lasanis” tipo di pasta tagliata a losanghe in uso durante il Medioevo. Una volta lessata in abbondante acqua bollente, veniva scolata molto al dente poi condita con formaggio pecorino stagionato, mentre pepe, spezie fini e zucchero erano ingredienti prerogativa dei signori. Il trattato di cucina “Liber de coquina” 1304-1314 circa, con quello dell'Anonimo Meridionale, contenevano una selezione di ricette, tra le più utilizzate nel quattordicesimo secolo nelle cucine della corte degli Angioini di Napoli e tra le altre, c’era la “deanis”, “de lasanis”.
Questa era preparata con pasta lievitata e nel Medioevo era il tipo di pasta più cucinato, mentre durante l’impero romano era tradizione servire alla mensa quotidiana le “lagane”, menzionate peraltro dal gastronomo romano Marco Gavio Apicio vissuto sotto Tiberio, nel suo trattato “De re coquinaria”.
Di una pasta simile se ne parla pure a Siddi, un grazioso paesino di origine Romana di circa 800 abitanti, in provincia di Cagliari, immerso nel centro della Marmilla, regione famosa per essere stata uno dei più importanti granai dell’antica Roma e attualmente una delle zone più produttive di grano Senatore Cappelli, importato in Sardegna agli inizi del 900.
In questa vasta e florida area di terreni ricchi di sostanze organiche, sorse la Giara di Siddi “Pranu de Siddi”, dal latino volgare “Casilli” che significa piccolo agglomerato di abitazioni, insieme di casolari. Col passare del tempo mutato in, Hasili - Sili, oggi Siddi. Qui le massaie preparano le, tallutzas, ancora come un tempo, utilizzando parte dell’impasto del pane, cocccoi, pane tondo, preparato con lievito madre, acqua di fonte e sale. Considerato che i ritagli di pasta residui tendono sempre a rassodarsi per via del contatto dell’aria, e per evitare di buttarli, dato che in cucina tutto è prezioso, le massaie rimaneggiano questi ritagli formando delle sfere grandi come nocciole e le appiattiscono con la pressione del palmo di una mano sulle cosce, ottenendo così le, tallutzas de coxia, còscia.
Nella versione moderna ci si avvale dell’utilizzo della “nonna papera” o del matterello per spianare la pasta e quindi con l’aiuto di un coppapasta o un bicchierino da liquore danno forma alle, tallutzaz. Questa procedura un tempo era considerata un gesto rituale di tutto rispetto e le donne dei rioni erano solite ritrovarsi in casa di una o dell’altra e tra un, mutetos, ritornelli in dialetto sardo e una, ciacciarrada, crastulla, chiacchierata, passavano il dopo pranzo, sino a tardi e delle volte l’intera giornata, per preparare le - tallutzas , considerate vera pasta delle feste.
Da non dimenticare i vari intingoli utilizzati per insaporire, is tallutzas, che di solito erano quelli a base di salsa di pomodori e pecorino per le famiglie meno agiate e per chi aveva più possibilità, preparati con la carne degli animali da cortile, oppure con quelli della porcilaia o dell’ovile, medau, ma anche con i prodotti dell’orto e della campagna.
In fin dei conti, serve veramente poco per fare qualcosa di buono: pomodori, tallutzas, pecorino, un pizzico di creatività e il piatto è pronto. E chi non mangia con me… Pasta lo colga!
Ingredientis:
per la pasta; g 400 di farina di grano sardo rimacinata, acqua tiepida di fonte e sale q.b. per l’intingolo: una bella cipolla rossa di - Zeppara - (florido territorio della Marmilla), 2 pomodori secchi ben dissalati, un ciuffo di prezzemolo, g 200 di - purpuzza - carne di maiale battuta a coltello ma senza il finocchietto o, sattitzu friscu, salsiccia fresca, vino rosso, g 500 di polpa di pomodori freschi ridotta a poltiglia, uno spicchio di aglio, un ciuffo di basilico e uno di timo sardo, armidda, zafferano San Gavino, brodo vegetale, olio extravergine d’oliva, g 80 di pecorino grattugiato, sale e pepe di mulinello q.b.
Approntadura:
disponi la farina setacciata sul ripiano della madia, forma una fontana e al centro tuffaci tanta acqua leggermente salata che si riveli sufficiente (un bicchiere circa) ad ottenere un composto privo di grumi e malleabile, che lascerai riposare coperto in luogo fresco per un’ora. Nel mentre prepara l’intingolo nel seguente modo: trita finemente la cipolla assieme ai pomodori secchi, il prezzemolo e il ricavato ponilo ad appassire dentro a un capace recipiente di terracotta, tianu mannu, insieme a un generoso giro di olio e dopo qualche minuto spruzza il soffritto con mezzo bicchiere di vino. Evaporato, tuffaci la carne e lasciala rosolare per una decina di minuti, subito dopo unisci la poltiglia di pomodori, l’aglio e prosegui la cottura dolcemente a recipiente semi coperto per una mezz’ora, aggiungendo del brodo bollente qualora la preparazione tendesse ad asciugarsi. Trascorso questo tempo, aggiungi il basilico spezzettato, il timo sgranato e tanto sale quanto ne occorre per insaporire la salsa. Fatto, prosegui ancora la cottura, sempre a fuoco lento per un altro quarto d’ora e quando mancano pochi minuti al termine, impreziosisci il condimento con una presa di zafferano e una macinata di pepe, dai una mescolata, allontana il recipiente dal fuoco e tienilo al caldo. Arrivati a questo punto, rimaneggia la pasta tenuta da parte e forma tante palline quante ne consente la massa, dopodiché appiattiscile con la pressione del palmo di una mano contro la coscia (scegli tu quella destra o quella sinistra… si fa per dire), sulla quale avrai posto un panno da cucina leggermente infarinato per favorire l’operazione. Se invece vuoi sveltirla, poni le palline ad una ad una sopra al tagliere infarinato e con l’aiuto di un batticarne liscio sempre infarinato premi le palline fino ad ottenere dei dischi di un diametro di 5-6 centimetri (puoi mettere la pallina di pasta anche tra due fogli di carta oleata infarinata) e uno spessore di 3-4 millimetri. Man mano che prepari i dischetti, allargali su dei canestri foderati con dei panni bianchi da cucina ben insemolati ad asciugare. Una volta terminato l’impasto, lessa, is tallutzas, in abbondante acqua salata a bollore e non appena cotte al dente, scolale direttamente dentro al recipiente del sugo tenuto al caldo e padella velocemente il tutto, giusto il tempo che occorre per insaporire gli ingredienti. Portali in tavola fumanti cosparsi con il pecorino, un’ulteriore macinata di pepe e un filo di olio.
Vino consigliato: Monica di Sardegna superiore dal sapore sapido con tipico retrogusto asciutto.